Apprendimento trasformativo e pratiche scolastiche interculturali

Apprendimento trasformativo e pratiche scolastiche interculturali
Una riflessione tra pedagogia e didattica

di Valerio Ferro Allodola *

Abstract

Gli attuali scenari dei flussi migratori a livello europeo e planetario suggeriscono, in modo sempre più urgente, di riconfigurare la conoscenza – in particolare la conoscenza scolastica – attraverso processi di apprendimento trasformativo e la costruzione di comunità di apprendimento basate più sulla comprensione che sul solo apprendimento, incentrate sulla progettazione di ambienti “significativi” e intenzionali, in cui trovano spazio intelligenze plurali competenti, da utilizzare in forme distribuite e collocate in contesti pratici. Questo articolo si propone di riflettere sulle questioni essenziali che caratterizzano la scuola interculturale e sulla costruzione di prospettive e schemi di significato (Mezirow, 2003), per promuovere la trasformazione partecipativa dell’apprendimento e delle pratiche attraverso metodologie attive di sviluppo.

Parole-chiave: transformative learning, pratiche interculturali, scuola, Pedagogia, Didattica.

Introduzione

Gli attuali scenari dei flussi migratori a livello europeo e planetario, cui stiamo assistendo con particolare frequenza ed intensità in questi ultimi anni – oggi ancora più complessi a causa dalla diffusione del Covid-19 – non si caratterizzano soltanto come dato strutturale proprio dei macro e micro-sistemi umani, ma come processo irreversibile il cui esito delinea sempre più una società multiculturale dove nulla o poco sarà come prima e dove la questione dell’intercultura, come ha acutamente osservato Franco Cambi (2003, p. 11), “è un problema del presente» e, nel contempo, «una dimensione del futuro».

Tale profonda e radicale trasformazione della società, delineandosi come un”emergenza educativa” (Ulivieri, 2018), richiede di riconfigurare i saperi attraverso processi di apprendimento trasformativo e la costruzione di comunità di apprendimento basate più sul comprendere che solo sull’apprendere, focalizzate sulla progettazione di “ambienti significativi” e intenzionali, in cui trovino spazio competenti intelligenze plurali, da utilizzarsi in forme distribuite e situate nei contesti di pratica.

Il contributo intende riflettere sulle questioni essenziali che caratterizzano la scuola multiculturale e sulla costruzione delle prospettive e degli schemi di significato (Mezirow, 2003), per coltivare traiettorie di trasformazione partecipata degli apprendimenti.

1. La scuola multiculturale. Quali le questioni essenziali?

Il pensiero è la capacità e la possibilità intenzionale del soggetto di scoprire i significati tra ciò che viene vissuto e le conseguenze che ne derivano. Pensare equivale a rendere espliciti gli elementi che formano la nostra esperienza, la quale rappresenta sia il punto di partenza di una teoria, sia il punto di arrivo, inteso come validazione di una teoria radicata nell’esperienza (Mezirow, 2003). La persistenza dei soli saperi disciplinari, infatti, ha dimostrato tutta la sua inefficacia nella costruzione di apprendimenti che siano utili nel contesto della pratica, producendo uno iato sempre più marcato tra il sapere e il fare. Non solo. Questa scissione ha prodotto il mancato riconoscimento che ogni attività di pensiero è innanzitutto un’attività sociale, mediata da artefatti, da relazioni, da appartenenze a storie e saperi locali.

I processi che guidano i soggetti ad interpretare le azioni e le esperienze, personali ed altrui, sono guidati da modelli di riferimento, filtri, relazioni simboliche che influenzano ciò che viene ricordato, il significato e l’interpretazione che viene attribuita. Per concettualizzare un’esperienza, usiamo dei segni interpretativi che consentono di rileggere e riflettere sugli eventi, sulle interpretazioni delle stesse, sui significati che attribuiamo ad esse, in quanto le interpretazioni delle azioni e dei vissuti si basano su assunti a volte distorti o influenzati dal linguaggio e dalle culture di riferimento.

L’apprendimento è connesso alla costruzione e all’appropriazione di un’interpretazione dell’esperienza vissuta in grado di guidare un’azione nuova. Le interpretazioni sono “segmenti” degli schemi di significato edificati su assunti che il soggetto ritiene di validare e che equivalgono a dare coerenza, forma e significato alle esperienze. L’apprendimento si configura come capacità di utilizzare un significato che abbiamo già costruito, per orientare il nostro modo di pensare ed agire; significa, cioè, dare un senso alle nostre esperienze.

Il sapere utile alla pratica e “in azione”, ha a che fare non solo con una natura mentale, ma anche con una natura materiale, storicamente determinata. In tal senso, i soggetti sono costruttori attivi di una realtà materialmente connotata (Fabbri, 2007). La costruzione di una cultura della pratica da apprendere e condividere passa necessariamente dalla partecipazione, poiché è attraverso il coinvolgimento nelle attività che si modificano le relazioni sociali e si sviluppano le conoscenze. Intendere la scuola come una comunità di pratiche significa intenderla come luogo di storie condivise di apprendimento, storie che si costruiscono nella misura in cui si è in grado di muoversi verso forme evolutive di impegno reciproco, di riconoscimento, comprensione e sintonizzazione intorno ad un obiettivo comune.

Le esperienze degli studenti sono già di per se stesse interculturali e frutto di scambi e condivisioni tra soggetti diversi. I significati che gli studenti attribuiscono alla propria esperienza vengono cioè costruiti attraverso l’interazione umana e la comunicazione, in contesti non solo formali (es. la scuola), ma anche non formali e informali. Gli studenti, infatti, fanno esperienza del mondo sociale quotidiano dandolo praticamente per scontato.

Ciononostante, molti genitori prima di iscrivere i figli a scuola si informano della presenza o meno di alunni extracomunitari nelle classi dei propri figli e molti insegnanti sperano di non averne in classe. Razzismo? Non proprio. Soprattutto paura che le “tradizioni culturali autentiche”, “i frutti puri della cultura occidentale” si arrendano alla promiscuità e al confronto insignificante con altre culture. Molto spesso accade proprio questo: la scuola si accontenta di opzioni etico-morali o dell’adozione di una buona politica liberale, secondo la quale la distanza tra mondi cognitivi diversi costituisce una barriera esclusivamente culturale, facilmente superabile se la mentalità della scuola è egualitaria dei suoi attori e non deviata da pregiudizi di alcun tipo.

Proviamo a pensare che le difficoltà della scuola sono le difficoltà di una società alla prese con una diffusa perdita della propria centralità, in un mondo di distinti sistemi di significato. Basterebbe, tuttavia, prendere atto che ciò è già avvenuto. Non solo perché non esistono più società monoculturali sostituite da contesti pluriculturali, ma soprattutto perché, come afferma l’antropologo statunitense Geertz “siamo tutti indigeni e chiunque altro che non sia uno di noi è immediatamente un esotico. Quello che un tempo appariva come il problema di scoprire se i selvaggi potevano distinguere la realtà dalla fantasia appare adesso come il problema di scoprire in che modo gli altri, al di là del mare o in fondo al corridoio, organizzano il loro significato” (Geertz, 1988, p. 192).

Non c’è più bisogno di rassicurarsi sui limiti di approcci relativistici.

Gli stessi relativisti si stanno e ci stanno mettendo in guardia dai limiti del loro paradigma. Quanto affermato da Geertz vuole semmai evidenziare che il “pensiero (qualunque pensiero: di Lord Russel o di Baron Corvo, di Einstein o di qualche impettito eschimese) deve essere compreso etnograficamente, ovvero deve descrivere il mondo in cui assume il suo significato” (Ibidem).

Anche i contesti scolastici dovranno porsi nella condizione di operare etnografie cognitive. E questo non solo perché le classi sono sempre più multiculturali, ma perché il pensiero è “spettacolarmente multiplo come prodotto e prodigiosamente singolo come processo (Ibidem, p. 193). Ciò, prima ancora di essere un problema legato ai flussi migratori, e quindi alla costituzione di contesti multiculturali, è un problema intra-culturale che anima, per esempio, sempre più le scienze sociali tra epistemologie in corso e saperi scolastici.

In fondo, il dibattito epistemologico degli ultimi vent’anni può essere letto come l’avvento della pluriculturalità dentro paradigmi scientifici che si erano proposti come univoci, oggettivi ed assoluti.

La concezione tecnologica della scienza sembra oggi improponibile, il quadro epistemologico sta diventando sempre più pluralistico, l’universo categoriale della scienza non è né unitario né omogeneo. Sebbene siano sempre tra noi coloro che credono ad un’idea unificata di scienza non si possono non apprezzare i guadagni conseguiti dall’affermazione dell’idea costruttivistica di una conoscenza (de Mennato, 1999; de Mennato, D’Agnese, 2005), che si costruisce utilizzando logiche diverse. Il venir meno della plausibilità euristica di quell’ideale di conoscenza che per secoli ha guidato la definizione della natura, dei metodi, dei compiti, degli scopi dell’impresa scientifica a cui la cultura scolastica fa riferimento può essere letto come l’emergere di un’epistemologia pluralistica che testimonia della “transizione da una epistemologia della rappresentazione ad una epistemologia della costruzione” (Bocchi, Ceruti, p. 34).

Ma è anche vero il contrario. La dimensione che caratterizza la complessità è certamente quella della differenziazione. L’interconnessione tra i processi di differenziazione mettono l’accento sulle differenze culturali, territoriali, individuali e la crisi dei metodi di ricerca che tendono verso la standardizzazione e la quantificazione che si prestano meno di altri a cogliere gli aspetti locali, clinici, con la conseguente attenzione verso dimensioni più propriamente qualitative (Melucci, 1988, p. 19).

Le sollecitazioni di un tale dibattito offrono un contributo decisivo per una ridefinizione delle coordinate entro le quali porre il problema dei saperi scolastici. Se il sapere scientifico ha messo in discussione il problema dell’unicità del metodo, quale ricerca di un criterio di demarcazione sulla cui base giustificare la validità storica di teorie scientifiche in competizione, anche il sapere scolastico dovrà definirsi secondo i criteri dettati da una razionalità che, pur muovendosi all’interno del suo sistema di significato e ben sapendo che non potrebbe prescindere da esso, è in grado di interagire con altre forme di razionalità, alcune volte in competizione con essa. Il sapere scolastico si precisa sempre più come definizione che rimanda ad una costruzione che emerge anche dall’interazione, ovvero dall’incontro/conflitto/negoziazione/condivisione di sistemi di significato differenti.

Se è vero che i concetti non sono indipendenti dai mondi particolari con cui un individuo o una cultura strutturano il mondo, allora i saperi non sono riconducibili ad un sistema universale di concetti che rappresenta tratti o caratteri oggettivi del mondo. In tale prospettiva, infatti, i concetti possono venire generati e compresi solo entro sistemi di riferimento concettuali dipendenti dalla concreta esperienza individuale e collettiva. A fronte di queste considerazioni il contributo dell’interazionismo pone in evidenza che la cultura, da questo versante, è l’insieme dei significati elaborati dagli esseri umani che, in quanto condivisi, trasformano a loro volta gli individui in membri di una società.

Dal punto di vista didattico la scuola può precisarsi, dunque, come luogo di contaminazione e creatività culturale, come luogo in cui si negoziano i significati e si valorizzano forme di “internazionalizzazione”, di confronto tra “familiare” ed esperienziale (Wenger, 2006).

Come affermato  dalla Rete della Settimana dell’Educazione Interculturale – con il coordinamento del Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa – “l’educazione interculturale come apprendimento trasformativo offre un metodo per produrre cambiamenti a livello locale, suscettibili di esercitare un’influenza a livello globale. In tal modo, le strategie potranno forgiare la cittadinanza, in modo da permettere ai cittadini di imparare ad assumere responsabilità che non possono essere demandate solo ai governi e a coloro che decidono a livello politico” (Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa, 2008).

2. Etnografia del pensiero e rappresentazione interculturale del mondo

L’intercultura chiama in causa non solo l’educazione al plurale, giocata dal versante dello sviluppo di competenze relazionali, ma la revisione curriculare, ovvero il problema di come “assumere una rappresentazione interculturale del mondo” e di come rilevare i punti di vista e i sistemi di significato dei soggetti coinvolti nei processi di insegnamento-apprendimento. Di come educare, quindi, ad un pensiero critico-riflessivo che metta i singoli e le comunità nelle condizioni di apprezzare il decentramento come un pensiero che non è vittima della propria esperienza, o che rimane ad uno stadio pre-critico.

Le culture sono più che semplici posizioni strategiche intellettuali: sono modi di essere nel mondo che possono essere compresi e interpretati non in assoluto, ma in rapporto al contesto locale in cui nascono.  L’etnografia cognitiva non si traduce in un tentativo di esaltare la diversità, ma di ricerca dei modi attraverso i quali l’insegnante può considerarla seriamente di per sé come oggetto di descrizione analitica e di riflessione interpretativa. Cogliere concetti vicini all’esperienza di soggetti provenienti da culture lontane dalle nostre esperienze, e farlo sufficientemente bene da collocarli in connessioni illuminanti con concetti distanti da quella esperienza ma familiari alla nostra esperienza, è un compito per lo meno complesso.

Per gli insegnanti si apre il problema di mettersi nella condizione, almeno a questo livello, di ricostruire le conoscenze locali, di cercare di comprendere le teorie, i punti di vista dei soggetti coinvolti nei processi di insegnamento-apprendimento. Si tratta di rintracciare quel sapere che ogni soggetto si costruisce mettendo insieme i mattoni della propria esperienza. Ed è la conoscenza della matrice cognitiva dei soggetti in apprendimento il punto da cui partire per procedere verso quel conflitto organizzato che la rappresentazione interculturale del mondo chiama in causa.

Conoscere significa essere in grado di riflettere su quella conoscenza spontanea che costruiamo dentro i nostri mondi ideografici, locali, particolari, irriducibilmente differenti e diversi.

Significa allargare il proprio sapere contestuale attraverso l’incontro o lo scontro con altri saperi, imparare a decentrare quel punto di vista, comprendere la plausibilità di altri punti di vista. Significa, infine, imparare a costruire nuovi punti di vista negoziati e quindi condivisi.

Il sapere interculturale sarà l’esito della capacità di abitare luoghi cognitivi pluriculturali, che nasce dalle convivenze agite in luoghi deputati alla progettazione di nuove educabilità cognitive capaci di abitare luoghi pluriculturali. Le culture di provenienza paradossalmente potrebbero essere paragonabili ai “copioni transgenerazionali”, quelli che danno identità, che ci consentono di situarci nel mondo, di interpretarlo e di conferirgli significato.  L’affermazione della società multiculturale chiede di porre in atto non solo copioni ripetitivi o correttivi rispetto a quelli transgenerazionali ma impegna nella costruzione di nuovi copioni.

Se il segno distintivo della consapevolezza dell’educazione scolastica oggi è il senso della varietà radicale del modo in cui pensiamo, il problema della rappresentazione interculturale del mondo diventa il problema della creazione delle condizioni in cui avrà luogo l’interazione tra saperi locali – che poi significa complementarità, alternatività, integrazione, mediazione, differenza, ecc. – che dovrebbe condurre alla costruzione di nuovi sistemi simbolici.

La scuola  – nonostante i numerosi problemi dovuti alla diffusione della pandemia da Covid-19 (la cosiddetta “didattica a distanza” in primis) – è oggi l’unico laboratorio-protetto dove poter “sperimentare” in condizioni verosimilmente naturali luoghi di interculturalismo cognitivo.  La scuola  non è solo  il luogo  di trasmissione  di sistemi culturali, è soprattutto uno spazio  dove i soggetti in età evolutiva dovrebbero ricostruire e costruire  attivamente  la spiegazione  ed  il senso  delle  proprie azioni,  degli  eventi  naturali  e sociali che  ci circondano,  dove un  insieme  di conoscenze implicite (de Mennato, 2003; Polanyi, 1998)  nascoste,  talvolta in competizione o in conflitto tra loro, vengono negoziate  e raccontate dai soggetti  per elaborare  modi  di agire e pratiche  quotidiane condivise.

La crisi della concezione piagetiana dello sviluppo dell’intelligenza secondo la quale il livello più elevato, quello delle “operazioni formali” fosse indipendente da fattori culturali e contestuali la si deve alla scoperta che la capacita di svolgere operazioni formali non indica il gradino universale dello sviluppo dell’intelligenza, ma un processo variabile a seconda della cultura di appartenenza. Le ricerche “cross-cultural” negli anni sessanta fino agli anni settanta, prima, e poi l’attuale orientamento socio-culturale della ricerca su cognizione ed educazione, oltre a respingere l’idea di una “logica mentale” decontestualizzata, hanno sottolineato l’importanza del modo in cui le persone conoscono nella vita di ogni giorno quando vanno a fare la spesa al mercato, o cercano di persuadere gli altri a fare qualcosa.  La scuola viene invitata a prestare maggiore attenzione alle strategie quotidiane della gente e a imparare dalle pratiche culturali.

Il riconoscimento della centralità delle forme di mediazione culturale come elemento caratterizzante lo sviluppo evidenzia il ruolo cruciale della scuola non solo dal versante della negoziazione degli oggetti culturali, ma anche nella costruzione di Sé interculturali.

Se i saperi sono modi di essere  nel mondo  – “quando cominciamo  a vedere  che  mettersi  a scomporre le  immagini  di Yeates,  a  dedicarsi  allo  studio  dei  buchi  neri,  o  a  misurare l’effetto dell’istruzione  sui risultati economici,  non significa solo svolgere  un compito  tecnico, ma aderire  ad una struttura  concettuale che definisce gran parte della propria vita” (Geertz, 1988, p. 197), la creazione di nuove strutture concettuali interculturali diventa un obiettivo da operazionalizzare in termini di curricoli scolastici  e competenze  degli insegnanti.

Se l’obiettivo diventa quello di costruire saperi scolastici capaci di parlare e avere significato per soggetti provenienti da culture diverse, si aprono scenari di ricerca pedagogica e didattica non facilmente definibili, almeno a priori.

3. Pratiche interculturali

Insegnare non significa rappresentare ad un soggetto in età evolutiva il miglior mondo possibile ma, semmai, rimanda più che ad una scelta fra opzioni ed azioni culturali, ad una costruzione dove le alternative non sono invariabili in termini logici ed oggettivi, ma dipendono in maniera decisiva dalla storia, dal mondo cognitivo, dai contesti spazio temporali, dai pregiudizi e dai saperi personali (de Mennato, 2003) dei singoli soggetti coinvolti.

Parlare di soggetto o soggetti non significa pensare ad un soggetto solo e indipendente nella sua attività costruttiva, ma a processi di definizione interpersonale e interculturale dei problemi, ad una costruzione sociale di significati fondata dal linguaggio e dagli strumenti della cultura. I curricoli interculturali saranno infatti l’esito di un conflitto di teorie, scienze, culture su uno stesso oggetto materiale sia questa dato dagli eventi naturali, sociali, storici, antropologici. Nella scienza però non ci si accontenta mai di darsi “democraticamente” ragioni: le teorie non hanno lo stesso valore, non hanno lo stesso potere euristico né lo stesso grado di condivisione. Mettere in discussione l’oggettività della scienza non ha significato riconoscere pari oggettività di ogni affermazione. Ha semmai legittimato la ricerca di complessi criteri di intersoggettività, la forza delle argomentazioni migliori.

Una verità intersoggettiva, inoltre, sempre costruita all’interno di un setting metodologico collegato ad un modello teorico-empirico che permetta di prendere in considerazione prospettive alternative, offrendo supporto al cambiamento, contribuendo alla validazione delle prospettive modificate, imponendo la gestione di nuove relazioni nel contesto di una nuova prospettiva (Fay & Kim, 2017; Mezirow, 2003; Taylor, 1994).

“Diventa centrale [dunque] cambiare prospettiva e riconoscere quanto l’apprendimento derivi da un lavoro di comunità e quindi aumentare la propria disponibilità a essere più aperti alle prospettive degli altri e affidarsi di meno ai meccanismi di difesa psicologica” (Fabbri, Melacarne, 2015, p. 111).

Il ri-orientamento dei curricoli scolastici secondo i valori propri di una nuova cittadinanza non fa incorrere in pericoli di relativismo – i limiti di una tale prospettiva sono stati fin troppo sottolineati – ma spinge verso la costruzione di processi culturali significativi per tutti i soggetti culturali coinvolti.

L’intercultura si traduce nella richiesta di un grosso impegno di ricerca, in particolare sul versante della didattica. Sarebbe un altro errore epocale pensare alla didattica interculturale come campo interdisciplinare, come territorio dove confluiscono pezzi di altre discipline. Alla pedagogia il compito di mediare, sintetizzare, comunque congegnare dati altrove elaborati e soprattutto concettualizzati.

Niente di nuovo sotto il sole. A tutt’oggi questo è il paradigma “segretamente” condiviso e praticato da molti scienziati dell’educazione. Molte sono le ricerche sui contorni, i fondamenti di una pedagogia interculturale, ma rimangono ancora dei vuoti di indagine a cui la pedagogia interculturale si espone quando, da fatto teorico-generale vuole proporsi come fatto esplicativo descrittivo  e come fatto progettuale.

Eppure   è ormai diffusa la consapevolezza   dei   pericoli   –   pericoli   per   altro   di   credibilità scientifica   –   che   si   corrono    quando la   compatibilità    tra   una teoria e una determinata classe di problemi viene data per scontata, o comunque è ritenuta   problema   dell’insegnante, anziché essere   oggetto   di ricerca   ad   hoc   che   permetta   di confrontarsi con i compiti più specifici e più complessi contesti della pratica educativa.

Ciò che attende la pedagogia e la didattica interculturale è un vero e proprio impegno di ricerca teorica ed operativa che nessun congegno interdisciplinare può sostituire.  La piegatura in senso didattico delle conoscenze fornite dalle scienze umane intorno ai singoli, così come alle classi di problemi da risolvere, non rappresenta più un modello conoscitivo da assumere come promettente. Più  che  cercare  delle  notizie  in  grado  di  razionalizzare delle   operatività   –   con   tutte   le   implicazioni   applicazionistiche che   ne  conseguono  -,  in  questo  caso  i  processi   di  didattica interculturale,   è forse   più  opportuno  per  la  didattica spostare il proprio  punto  focale  dal  sapere   organizzato   da  altre  discipline –  sia  pure   ricontestualizzato  in  funzione   di  questi   nuovi   eventi educativi  –  alla  conoscenza  di  questo   territorio.  In questo senso, la ricerca didattica diventa soprattutto azione, attività, formazione, precisandosi soprattutto come forma di conoscenza in grado di produrre modelli e strategie d’azione e di cambiamento.

Crediamo che molto sia da attendersi non dal già dato, ma dalla messa alla prova dentro laboratori naturali di strategie d’azione dove l’agire e il progettare sono dei modi attraverso i quali costruire un sapere utile ad una società che prova a diventare interculturale. L’interculturalità è a tutt’oggi un assioma che tenta, anche attraverso l’aiuto della ricerca scientifica, di diventare un progetto da “sperimentare”.  Chiede di mettere in atto un processo conoscitivo che ci aiuti a capire che cosa è necessario e che cosa è possibile cambiare, che aiuti a mettere a fuoco queste condizioni concrete che occorre rispettare se si vuole che il paradigma interculturale riesca ad imporsi.  

Ciò che la ricerca pedagogico-didattica è chiamata a studiare sono dei processi che si svolgono sotto l’influenza di cambiamenti sociali, culturali e formativi intenzionalmente progettati.

Progettare non significa pianificare, non si ha a che fare con la costruzione di opere di ingegneria edilizia. Al riguardo, vale la pena di ricordare che il concetto di progettazione non   rimanda   a   queste prospettive secondo cui la presa di decisione   non   sarebbe   che   la ricerca di alternative, in uno spazio  definibile di azioni   possibili, volta al raggiungimento dell’insieme    preferito   delle   conseguenze.

La prospettiva epistemologica sembra essere un’altra: “lo spazio delle azioni possibili non è prefissato, ma si evolve   in relazione alla presa   di decisione   di un   particolare   soggetto.   La presa di decisioni   non   è una   scelta di azioni, ma una produzione di azioni. Le alternative   non   sono   inventariabili   in   termini   logici ed oggettivi, ma dipendono in maniera decisiva dalla storia, dal mondo cognitivo, dai contesti spazio-temporali, dai pregiudizi dei singoli individui” (Ceruti, Lo Verso, 1988, p. 14).

Forse la didattica interculturale chiede di sviluppare un’epistemologia della ricerca in grado di partire da un insieme di progetti particolari dei quali solo in parte si conoscono gli obiettivi e solo in parte siamo in grado di determinarne l’organizzazione, soprattutto gli esiti e dai quali si cerca di studiare sperimentalmente che tipo di proprietà sia in grado di evolvere. In questo caso, la fonte primaria di conoscenza è data dall’interazione con gli oggetti, con gli eventi dell’ambiente e soprattutto dall’interazione tra soggetti in contesti di vita quotidiana – vale la pena di ricordare l’importanza della vita quotidiana come spazio in cui i soggetti conoscono il senso del loro agire e in cui sperimentano le opportunità e i limiti dell’azione –  piuttosto che dall’applicazione di conoscenze generali a casi particolari.

La tensione utopica della pedagogia e della didattica è per loro natura interculturale (de Mennato, 2016): interculturalità significa disponibilità e volontà di uscire dai confini della propria cultura per entrare nei territori mentali di altre culture.

Conclusioni

La pedagogia e la didattica interculturale devono basarsi sulla capacità di promuovere un pensiero aperto e flessibile, critico e problematico, in grado di riconoscere le proprie specificità. Un pensiero costruito attraverso la pratica della molteplicità (di lingua e linguaggi, di saperi e punti di vista, di angolazioni e prospettive, di percorsi e soluzioni) e oppositivo al pensiero gerarchico: interculturale, appunto.

Se è vero che quello che ci accomuna sono i bisogni e quello che ci differenzia sono le risposte, gli obiettivi comuni uniscono le diversità. Più in generale, la cooperazione ed il fare assieme in vista di un ostacolo da superare, costituiscono dei fattori potenti di avvicinamento e possono diventare elementi facilitatori di apprendimenti di natura più strettamente cognitiva. Strategie didattiche di successo sono dunque tutte quelle che contribuiscono a rafforzare la comprensione e a costruire connessioni consapevoli con altre espressioni e altri modi di vita, sia dentro che fuori la scuola.

Si tratta di lavorare in classe attraverso metodologie attive di sviluppo che valorizzino il fare assieme, la partecipazione e lo scambio tra studenti e tra questi e i docenti. E’ proprio attraverso tali metodi che è possibile costruire delle comunità di pratica (Wenger, 2006) dove è possibile lavorare prevenendo ogni forma di autoreferenzialità e di pregiudizio, consentendo l’emersione, la discussione e la riconfigurazione delle prospettive di significato. Dove le interazioni discorsive sono basate sulla comprensione e la verifica della validità di ciò che viene comunicato da coloro che vi partecipano. In tal senso, l’azione riflessiva ha un ruolo centrale per apprendere in maniera consapevole e per apprendere come si apprende.

La consapevolezza sulle premesse che governano i modi in cui pensiamo e interpretiamo la realtà non è certamente un automatismo cognitivo. La riflessione critica, infatti, genera un apprendimento trasformativo che è capace di penetrare ed influenzare le relazioni e le organizzazioni in cui opera il soggetto.

Il processo di trasformazione prevede alcune fasi che lo compongono, a partire dalla formulazione del “dilemma disorientante” per arrivare fino alla “reintegrazione nella propria vita della nuova prospettiva di significato” (Mezirow, 2003; Taylor, 1994).

Il compito degli insegnanti è, dunque, quello di aiutare gli studenti ad essere più criticamente riflessivi, promuovere una loro piena partecipazione alla pratica didattica, facilitare l’acquisizione di prospettive di significato più inclusive, integrando e valorizzando l’esperienza nella ridefinizione dei problemi. Le metodologie attive di sviluppo rappresentano, infatti, le traiettorie che consentono alla riflessività di configurarsi non solo come costrutto interpretativo ed analitico, ma anche come schema di intervento (Fabbri, 2015).

Le metodologie attive di sviluppo sono caratterizzate da processi di partecipazione attiva, che si occupano di riconoscere e decodificare l’esperienza, di costruire la conoscenza attraverso quest’ultima e di verificarla tramite la collaborazione. Ed è proprio questo, in buona sostanza, ciò che permette al “professionista efficace” ed al soggetto in formazione di riconoscere le opportunità di apprendimento quando si verificano e di imparare da esse.

Il mondo attuale ha sempre più bisogno di persone capaci di pensare, di porsi le domande “giuste”, di persone che sappiano stare assieme, che sappiano fare e ragionare assieme. Ripensare la pedagogia e la didattica, soprattutto sul fronte interculturale, significa iniziare a sperimentare il contesto classe come comunità di apprendimento, in cui “le ipotesi, le idee, i saperi che si costruiscono […] sono il frutto del contributo di più soggetti (Fabbri, Melacarne, 2015, p. 62), in cui l’insegnante lascia agli studenti la responsabilità delle scelte e il raggiungimento dei risultati, configurandosi come “facilitatore” dei processi di apprendimento.

In tale cornice, è bene ricordare che il cooperative learning (Comoglio, Cardoso, 2006; Bay, 2006) è la metodologia didattica che per propria natura meglio corrisponde alle istanze interculturali (Gobbo, 2010; Lamberti, 2010), sostenendo apertura e decentramento, dialogo e mediazione, collaborazione e partecipazione.

Da un punto di vista dei contenuti disciplinari e delle possibili metodologie didattiche in classe, diversi autori, quasi in un trentennio, hanno prodotto importanti riflessioni.

Nonostante ciò, rimane da fare un grosso lavoro a livello trans-disciplinare e ancora meglio inter-disciplinare.

Ma, soprattutto, uno dei problemi maggiori è quello di far si che l’”atteggiamento interculturale” si innervi nelle pratiche degli insegnanti, non sempre disposti a riesaminare contenuti e metodi della propria disciplina e a condividere idee progettuali con i colleghi. Questo aspetto è di primaria importanza, poiché non è possibile promuovere intercultura a scuola, con gli studenti, se i docenti in primis non la praticano a livello professionale e interprofessionale. Naturalmente, tutto questo lavoro va anche riportato sul versante extracurricolare, “coinvolgendo le famiglie, la comunità, i servizi e il territorio nel senso più allargato” (Agostinetto, 2016).

(*) Ateneo Telematico “eCampus”

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