La storia in «tempi bui»

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La storia in «tempi bui»
da Hannah Arendt a Carlo Ruta

di Pino Blasone

Prima ancora che «proposta di un manifesto», la manifestazione di un’esigenza e di un intento innovativi. Espressione, peraltro, di qualche motivata inquietudine, suggerita dai tempi che tutti noi attraversiamo probabilmente non senza ricorrenti perplessità o giustificabili apprensioni. Nell’uso corrente contemporaneo, il verbo «manifestare» è venuto ad assumere il significato di rendere pubblica un’opinione, un’idea, ma pure un sentimento. Di solito, si manifesta a favore di o contro qualcosa o qualcuno. Tuttavia si può anche farlo, lasciando a noi un margine di scelta nell’individuare quel qualcosa o qualcuno, se a favore o piuttosto contro, oppure in una posizione di riflessiva e propedeutica messa in discussione.

Tale è l’impressione che chi qui scrive ha ricavato dalla lettura dello scritto «La storia cambi passo. Proposta di un manifesto per l’innovazione di una scienza» di Carlo Ruta, anche grazie a una ormai assidua consuetudine, e a volte proficua collaborazione, con lo storico in questione. La sua opera pregressa si articola in un quadro interdisciplinare, che spazia dalle scienze sociali all’archeologia, nonché alla filosofia. Essendo quest’ultima il mio campo formativo, possibilmente accompagnato con la critica culturale applicata e la storia comparata delle civiltà, comincio qui volentieri a commentare col citare una menzione che non ritengo accidentale di Hannah Arendt, pensatrice a me cara per più di un aspetto.

Afferma Ruta, infatti, in un capitoletto non a caso intitolato «Superando il confine»: «Riprendendo, in qualche misura, il filo intuitivo di autori come Walter Lippmann e, soprattutto, di Hannah Arendt che si concentrò sul totalitarismo e l’antisemitismo, la ricerca storica potrebbe assumersi il compito, fino ad oggi largamente eluso dalle scienze sociali, di spiegare il quando, il come e il perché il sospetto verso il differente, il distante e l’“alterità” possa tradursi in un pericoloso bisogno comune, conclamato e stratificato.» In effetti la Arendt, pensatrice tedesca di estrazione ebraica, specialmente in «L’umanità in tempi bui», libro storico-biografico del 1968, estendeva il suo discorso ben al di là dell’argomento antisemitismo.

Una difficoltà o incapacità di superare i confini mentali, una volta che il processo globalizzante abbia reso relativamente più facile il superamento di quelli fisici, nell’ambito sia commerciale sia della comunicazione o della migrazione. Questo è il problema attuale, che impedisce all’evoluzione tecnologica di convertirsi in progresso civile effettivo, che può prospettare la falsa soluzione di un ripiegamento su se stessi, anziché l’impegnativa elaborazione di un’apertura culturale adeguata. Un problema, che non può non investire la critica storica, orientandola verso nuovi orizzonti, in quanto basamento di quella ineludibile soggettività la quale presiede alla pur indispensabile ricerca e cernita documentaria. Un doveroso “cambio di passo” nel metodo di indagine, contro ogni pretesa, unilaterale e pietrificata oggettività.

Altrove, nel breve capitolo «Contemporaneità e storia», Ruta stigmatizza una tendenza degenerativa, nel già preconizzato – a suo tempo, dal sociologo canadese Marshall McLuhan – ‘villaggio globale’: «Il mondo della comunicazione, sempre più condizionato dal digitale e dai social, produce inoltre fenomenologie di vario segno, con effetti ancora contraddittori, di orizzontalità attive da un lato, che nei primi anni di questo secolo hanno fatto immaginare una crescita delle buone pratiche di democrazia, e di condotte manipolatorie dall’altro, che rischiano di disorientare le opinioni pubbliche, ostacolandone il travaglio critico, con l’esito anche di rendere più difficili i percorsi conoscitivi, attraverso la fabbricazione del falso».

Tali pratiche manipolatorie, tese all’occultamento della verità ovvero alla «fabbricazione del falso», sono ciò contro cui uno storico aggiornato e accorto dovrebbe mettere in guardia. Operazione non sempre facile, dal momento che quelle condotte mirano a compiacere diffuse pulsioni regressive, o ad approfittare di paure sovente irrazionali. In questi casi, la lezione memoriale storica viene spesso alterata, o semplicemente rimossa e negata. Non di rado quel camuffamento, che è invalso l’uso approssimativo di chiamare «negazionismo», viene spacciato a sua volta per storicismo tutt’al più ipercritico. Lo storico critico si trova, pertanto, a doversi misurare con chi pretende di usare le sue stesse armi, in maniera tendenziosa e simulata. Nel migliore dei casi, lo scopo perseguito è un omologante nichilismo.

Le insidie dell’informazione sono comunque un terreno su cui lo storico dovrebbe aver imparato a destreggiarsi da tempo, ivi inclusi il giornalismo televisivo o la stampa periodica a carattere sensazionalista. La conclamata bidirezionalità del messaggio tramite Internet non fa grande eccezione, poiché anche la disinformazione intenzionale ha appreso tecniche calibrate in base alla mutata realtà. Quindi, lo storico dovrebbe essere fornito di pari o maggiore scaltrezza, beninteso «astuzia della ragione» di hegeliana memoria. E di un minimo di immaginazione, che differenzi la storia dalle altre scienze, per le quali in linea di massima l’oggettività può fare a meno della componente umana inevitabilmente, talora imprevedibilmente soggettiva.

Ecco, dunque, perché Carlo Ruta così conclude, non senza qualche azzardo funzionale a suscitare un dibattito: «la storia può costituire allora una utile sponda orientativa, di tipo anche morale. Si dirà che già la poesia, la prosa letteraria, la musica, il cinema, il teatro e tutte le altre arti assolvono un tale compito, ma, diversamente da tali espressioni della creatività umana, la storia condivide con le altre discipline sociali e con le scienze naturali la ricerca delle cause, un accostamento alle cose e, ancora, delle logiche di fondo che possono convergere su un coeso orizzonte di scambi e interazioni, senza pregiudizio per le diversità e l’autonomia dei saperi».

In altri termini, già nel 1966 in «Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane», il filosofo francese Michel Foucault rilevava come difficilmente la storia, convenzionalmente intesa come prevalente narrazione «événementielle», possa prescindere dal contesto della storia della cultura in cui essa si è sviluppata e con cui ha interagito. Dialetticamente, le strutture materiali possono sì determinare quelle ideali in seno a una società, ma è pur vero che in genere queste ultime «sovrastrutture» esercitano un effetto retroattivo sulle prime, tornando a condizionarle e modificarle. Nessun vecchio idealismo in senso hegeliano, insomma, ma nemmeno materialismo meccanicistico o, in particolare al giorno d’oggi, economicistico.