UN PROTOCOLLO PEDAGOGICO PER IL RITORNO A SCUOLA

Documento a cura dell’Ufficio di Presidenza dell’Associazione Proteo Fare Sapere 

La scuola italiana sta gradualmente riaprendo dopo lunghi mesi di chiusura, in un’epoca educativa senza precedenti. Le denunce e le polemiche su ritardi, errori e reali difficoltà, che hanno segnato la gestione ministeriale della ripartenza, non hanno offuscato l’energia e la carica emotiva che sta animando il nuovo incontro tra studenti e insegnanti. 

Purtroppo molti problemi persistono, a partire da quelli molto seri sugli organici che i sindacati avevano segnalato per tempo. Restano e inquietano molto anche i problemi legati alla persistenza e recrudescenza del virus. Una diffusa ansia, timore, preoccupazione percorrono tante famiglie e la risalita dell’indice di contagio rende il ritorno a scuola delicato. Bisognerà mettere nel conto episodi di diffusione del contagio, con conseguenti interruzioni che potrebbero investire classi e istituti, per le quali è necessario agire con razionalità e buon senso, senza criminalizzare il personale, gli alunni, le famiglie. 

La scuola dunque riparte, tornando ad animare la società, il suo tessuto partecipativo, la relazione fondamentale tra le generazioni, il senso profondo di una democrazia moderna che era stata duramente privata di questa sua ragione fondativa. Una ripartenza non priva di una tensione inedita: per la prima volta dalla sua istituzione, ed è questo il dato più eclatante, la scuola italiana è stata senza attività didattiche per oltre sei mesi. Non era accaduto neppure durante le due guerre mondiali. Mesi confinati in casa, difficoltà economiche e sociali, lasciano il segno nelle persone, più che mai nei piccoli e nei giovani. 

• Sarebbe grave pensare che basti tornare a scuola dopo una lunga “vacanza”, come se nulla fosse successo nelle menti e nelle esperienze dei nostri giovani. 

• Sarebbe grave pensare che la scuola si debba oggi occupare solo di recuperi disciplinari e di curricoli lineari. I nostri alunni e studenti non tornano a scuola solo con mesi di scuola in meno ma con sette mesi di vita in più, passata in modi spesso drammatici e comunque diversi da ogni esperienza precedente. Mesi nei quali sono diventati altro da quello che erano a fine febbraio 2020. 

• Sarebbe grave pensare che bastino i protocolli sanitari da aggiungere al fare scuola come prima. Nei protocolli sanitari, certamente necessari, si nasconde il rischio di produrre comportamenti isolanti e didattiche fredde a fronte della domanda di educazione generativa di serenità, speranza, equità. Vorrebbe dire sommare un rischio (il contagio) a uno altrettanto grave: il silenzio educativo a fronte di questa inedita crisi che tocca i nostri alunni/e, le loro famiglie, i fondamenti del vivere civile, con una diffusa paura del futuro. 

Sul piano pedagogico ci vuole altro. Su questo “altro” si fonda la nostra proposta di un protocollo pedagogico che risponda al nuovo esistenziale, cognitivo e sociale che entra nelle nostre aule, e che dia nuove risposte educative. Solo così il ritorno a scuola si fa parte della ricostruzione del Paese. Serve un clima educativo con elevate capacità di includere, creare senso civico, solidarietà. Ne avrà bisogno il Paese per superare la durissima crisi sociale indotta dalla pandemia, per affrontare le sfide di un possibile cambiamento di fondo del suo modello produttivo, di un futuro in cui il lavoro, grazie anche al rilancio di una ricerca libera, sia la risorsa fondamentale per un benessere libero dai miti del liberismo e del consumo senza limiti. 

Serve dunque una seria riflessione pedagogica sia su ciò che in questi sette mesi è accaduto, sia sulle priorità educative che il ritorno a scuola richiede. 

Abbiamo per lungo tempo sollecitato la politica e la scienza a costruire regole del ritorno a scuola non solo con discussioni (a volte bizantine) su maschere, banchi e distanziamenti, ma con un dialogo ragionevole con la pedagogia, per evitare che il ritorno si riducesse a regole di divieto e vincoli. Ciò non è accaduto, con il pericolo di una scuola peggiore di quella di febbraio. È dunque nei momenti difficili che all’educazione si chiedono azioni e pensieri nuovi. 

Per questo tocca a chi a scuola insegna e lavora, a tutti i livelli, l’impegno di riappropriarsi di un pensiero pedagogico forte, perché il ritorno a scuola sia una rinascita, per il bene dei nostri ragazzi e del Paese. 

Perché un protocollo pedagogico 

L’utilizzo di questi termini richiede qualche precisazione preliminare. 

Il termine “protocollo” indica uno strumento prescrittivo e vincolante, in cui sono indicati comportamenti ritenuti ottimali per raggiungere alcuni obiettivi. Certificati da autorità, nazionali e/o internazionali, i protocolli si presentano anche come una sicurezza per la persona che a essi ricorre (pensiamo ai protocolli sanitari) in caso di necessità. I protocolli sono un insieme di prescrizioni operative funzionali a tre obiettivi fondamentali: 

• migliorare il tipo di processo messo sotto osservazione; 

• valutare continuativamente i processi al fine di acquisire costantemente nuovi livelli di consapevolezza e padronanza; 

• documentare con accuratezza i processi osservati al fine di consentire ad altri di progredire nella conoscenza e negli esiti delle esperienze; 

La gestione dei processi indotti nella scuola dal Covid-19 

merita un protocollo? 

La risposta è già nei protocolli interistituzionali, sottoscritti con le organizzazioni sindacali ai diversi livelli territoriali sul versante delle condizioni sanitarie, organizzative e di sicurezza. Tali protocolli consentono di definire funzioni, compiti, responsabilità importanti per assicurare con ragionevole sicurezza l’inizio delle attività didattiche, attraverso un processo partecipativo a più livelli che si è rivelato di fondamentale importanza. 

Il protocollo pedagogico si propone invece di individuare una serie di comportamenti attuabili nell’esercizio della professione docente, con l’obiettivo di garantire efficacia e appropriatezza agli interventi di natura didattico/pedagogica. Sono comportamenti “prescrittivi” in senso deontologico e non disciplinare; esigono la forza dell’etica della responsabilità, non quella delle sanzioni. 

Si potrebbe obiettare che i docenti potrebbero eludere il problema e trovare consolante rifugio nella attività di pura e semplice riproduzione delle lezioni frontali, senza farsi irretire nelle dinamiche relazionali. A fronte di questa possibile deriva, bisogna essere consapevoli che c’è già chi si candida a sostituire la scuola che si ritrae; un modello di volontariato sociale e di professionisti del dolore sostitutivo del ruolo delle istituzioni che già si propone, se necessario, a coprire il vuoto. Ma una professionalità che separa l’istruzione dall’educazione è subalterna ai modelli produttivi dominanti, destinata al fallimento educativo. 

Lo spazio dell’autonomia è leggere i processi del nostro tempo con una tensione educativa che vada oltre l’emergenza, perché i piccoli di oggi cambieranno questo mondo se svilupperanno curiosità e creatività, se saranno motivati ad apprendere, a trasformare in meglio il loro ambiente verso una meta generale: un solo pianeta, una sola umanità. 

E allora un protocollo pedagogico non può venire dall’alto, deve nascere e costruirsi nelle scuole e deve vedere protagonisti i docenti. Certo, tutte le figure professionali sono coinvolte nella gestione della scuola, con ruoli e compiti rilevanti ma il cuore di cui discutiamo è la relazione didattico/educativa. Noi ci auguriamo che i dirigenti scolastici capiscano e agevolino questi percorsi. I dirigenti scolastici sono stati messi duramente alla prova: su di loro si è scaricata la tensione di una macchina amministrativa in evidente difficoltà e per questo molto esigente; su di loro si sono scaricate le attese di genitori ansiosi e di docenti molto preoccupati per la difficile gestione del nuovo anno scolastico. Dobbiamo dunque riconoscere loro un grande merito. Ora è tempo che loro stessi siano facilitatori di una stagione nuova delle relazioni educative attraverso il protagonismo dei docenti. 

Le indicazioni che vengono qui date, non sono dunque ricette ma terreni di lavoro e valori. Non vanno “eseguite” ma interpretate e calate nel contesto in cui vive l’esperienza educativa; non esiste una formula per tutte le circostanze e non esistono soluzioni organizzative valide per tutte le situazioni: ed è questa la ragione per cui siamo stati duramente critici contro le soluzioni “uniche” e centraliste. 

Importante è qui l’utilizzo del termine “riappropriazione” come ri-scoperta e valore della professionalità docente come valore pedagogico che sa utilizzare fino in fondo competenze e poteri spesso finora scritti sulla carta, per un’autonomia didattica generatrice e non riproduttiva. 

Riappropriazione del proprio lavoro, 

ovvero l’autonomia come nuova cultura della organizzazione 

del lavoro didattico e della professionalità 

Promuovere gruppi di riflessione 

Promuovere gruppi di riflessione tra docenti di classi parallele, di corso, di dipartimento, per scambiare impressioni, vissuti, emozioni, idee maturate in questi mesi di pandemia. Come progettare e realizzare il nuovo incontro con gli alunni per fare in modo che il rientro sia innanzitutto ricostruzione della relazione educativa, rielaborazione dei vissuti di questi mesi, memoria e progetto per il futuro. Al centro delle riflessioni ci sono le persone con le loro storie, non le discipline da recuperare. Non i voti da attribuire ma percorsi di valutazione formativa su ambiti di ricerca interdisciplinari; definizione degli strumenti operativi condivisi per la cooperazione professionale: cronogrammi, diari di bordo specifici; indicazioni di responsabilità formali: coordinamento, documentazione, ecc. 

Scrivere e documentare tutto nelle forme che si riterranno opportune perché è sulla documentazione che possiamo costruire autoformazionePotranno essere utili “amici critici” esterni che aiutino a far emergere le questioni più delicate e complesse. Devono essere persone di fiducia e senza ruoli istituzionali. Persone capaci di fare formazione. Bisogna soprattutto evitare l’errore di consegnare a un ipotetico “esperto” esterno la soluzione dei problemi educativi. Infine una annotazione importante: questa riflessione aperta sul proprio lavoro, non è praticabile a livello di collegio docenti. A quel livello, l’impegno rischia di diventare prassi burocratica; c’è bisogno di una dimensione micro e “familiare”: docenti di classi/sezioni parallele nella scuola elementare e materna; docenti di singolo corso nella scuola media e di singolo indirizzo, percorso o dipartimento (biennio/triennio) nella secondaria superiore. In sostanza, esperienze di una nuova dimensione cooperativa del lavoro che non coincide con gli organi collegiali della scuola o con l’ampiezza amministrativa dell’unità scolastica. 

Ricostruire intese, rapporti, collaborazioni 

Il distanziamento ha allontanato le persone. Il primo obiettivo da realizzare è riaprire una comunicazioneiniziare dall’ascolto. L’ascolto dei racconti, dei vissuti, delle paure, delle emozioni, quelle degli adulti e quelle degli alunni/e. Da settembre bisogna recuperare le relazioni, non i debiti scolastici. È il mondo adulto ad avere debiti verso i nostri alunni e studenti. Tocca a noi restituire senso e valore alla relazione educativa. Il protocollo vive del progetto dei suoi attori: non è una direttiva, non è un algoritmo, non chiede circolari al ministero. Autonomia didattica come responsabilità di presenza politica sul territorio e come autodeterminazione dell’organizzazione del lavoro. Autonomia orizzontale che dialoga e interagisce con l’intera comunità di vita dei nostri bambini e ragazzi, dagli enti locali, all’associazionismo, alla cultura, per restituire/costruire un rapporto vivo nel territorio a favore di una vita educativa con azioni integrate, piene e aperte per tutti, a partire da chi ha sofferto di più il confinamento e la chiusura delle scuole. 

Una nuova visione su genitori e giovani 

La scuola è entrata nelle case nel corso della pandemia per tentare di contenere gli effetti della distanza imposta; ora quelle case non vanno abbandonate e va valorizzata la riscoperta del valore della vicinanza, della prossimità. Dopo anni di reciproca diffidenza, estraneità, spesso conflittualità, si può aprire una nuova stagione di rapporto tra scuola e famiglie. Un capitolo nuovo, tutto da scrivere ma fondamentale per riaprire, anche da questo versante, una nuova stagione partecipativa intorno alla scuola. 

E certamente una attenzione educativa e pedagogica specifica va rivolta ai giovani, a quella generazione di millennials che prima della pandemia era scesa nelle piazze di tutto il mondo per chiedere con forza un cambiamento radicale del modello produttivo che sta portando il pianeta a una condizione drammatica. Questa generazione, nella distanza forzata e nella reclusione in casa, ha vissuto una esperienza molto intensa che non ha precedenti sia sul piano cognitivo-relazionale, sia sul piano clinico. L’attività didatttico/educativa non può ignorare questa esperienza di vita e deve farne occasione di riflessione e apprendimento. I vissuti dei giovani, le loro storie, riflessioni, emozioni, devono essere parte viva della didattica della ripartenza e del lavoro di gruppo in cui ogni studente può riconoscersi e aprirsi all’altro. Il Covid-19 può diventare, anche dal punto di vista interdisciplinare, un’opportunità di studio e di conoscenza per approfondire le cause che hanno prodotto la pandemia e la nuova condizione umana e antropologica del nostro tempo, sulla quale questi giovani hanno aperto un nuovo capitolo della partecipazione dal basso. 

Riappropriazione della relazione educativa 

nell’emergenza sociale 

Con la parola scaffolding, introdotta da Jerome Bruner negli anni 70 in pedagogia, si intende una relazione educatore/alunno-studente come funzione d’aiuto nella quale l’insegnante agisce come soggetto di supporto che affianca ma non precede l’agire del bambino e del ragazzo in azione. Scaffolding si potrebbe tradurre come relazione d’appoggio centrata sull’empatia, di cui l’alunno si serve e che sente come amica senza forzature. Non è lontana dall’idea di Lev Vygotskij sulla zona di sviluppo prossimale, in cui l’insegnante “aiuta” l’alunno a svilupparsi secondo le sue potenzialità. E può essere detta con don Milani nel suo celebre “I CARE”. Ne parliamo qui in ordine al non facile clima emotivo complessivo che i bambini/e, i ragazzi/e portano a scuola al loro ritorno fatto di attese, ma anche di ansie, paure, pregiudizi, stereotipie. Parliamo qui, dunque, di una funzione rassicurante e serena ma non invasiva che gli insegnanti dovrebbero avere in questa delicatissima fase. Si tratta quindi di sviluppare a fondo il protagonismo degli alunni/studenti avendo cura di essere un loro appoggio sicuro, sereno e autorevole. Non un assistenzialismo compassionevole ma accompagnamento adulto, solido a sviluppare e confrontare stati d’animo, opinioni, paure e desideri. È una struttura educativa ben nota e da utilizzare sempre, ma in questa epoca particolare conta decisamente sul tema delle tante ansie e incertezze del vivere a scuola. Si tratta di costruire una “sicurezza delle relazioni” anche per contrastare il rischio di subire solo la “sicurezza dei divieti sanitari”. È evidente, a proposito, che un insegnante timoroso rischia di trasmettere ansie che possono accentuare l’insicurezza emotiva e cognitiva. Per questi comportamenti d’aiuto non servono psicologi o specialisti (questi possono essere utili se scorgiamo crisi individuali gravi, ma evitando la medicalizzazione) ma un insegnante solido, sereno, maturo che comprende le ansie ma non le accentua, anzi ne fa tema di dialogo razionale e costruttivo. 

È umano dire che questa funzione educativa sarà difficile anche per gli adulti, vista l’epoca così complicata, ma è elemento strutturale di un ritorno a scuola che produca relazionalità, buon senso, stimoli che consolidino l’autostima dei ragazzi e il maggiore possibile senso della realtà. Va quindi favorita l’acquisizione di comportamenti resilienti, sia nei docenti che negli studenti, nelle diverse età della scuola. La resilienza ha spesso bisogno di ironia, di realismo e insieme di creatività. 

I gruppi di riflessione tra docenti possono essere d’aiuto reciproco per coltivare un clima fiducioso e sereno, per condividere le difficoltà e superare insieme il rischio della solitudine educativa. Una comunità di auto-aiuto necessaria per tutti. 

Riappropriazione dell’attivismo didattico e della valutazione formativa 

Un’applicazione formalistica dei protocolli sanitari, pur necessari, rischia di ridurre negativamente la didattica a prevalenti relazioni frontali e monodirezionali. Questo pericolo va contrastato con creatività didattica favorendo invece 

pratiche di cooperazione educativa, di apprendimento attraverso l’esperienza e non solo l’ascolto, pratiche interdisciplinari interattive e attività di ricerca-azione da parte di alunni e studenti. Il distanziamento fisico non può diventare distanziamento relazionale. Lo richiede questa nuova fase critica della scuola, per evitare che il ritorno a scuola sia peggiore di prima. Altrettanto questa è l’epoca in cui ad alunni e studenti va offerta l’opportunità di comprendere i propri sviluppi, di comprendere i loro errori, insomma di maturare in loro capacità auto-valutative piuttosto che meri voti numerici. La valutazione formativa è lo strumento necessario perché il ritorno a scuola renda possibile il protagonismo di chi apprende e nell’insegnante la capacità di comprendere come la relazione insegnare/apprendere è un tutt’uno che si sviluppa insieme tra diversi soggetti interagenti tra loro. Promuovere consapevolezze è oggi più importante che aridamente valutare in scale. 

Riappropriazione di pratiche inclusive efficaci 

L’epoca del confinamento ha accentuato le differenze tra alunni e studenti. Quelli con disabilità e con disagio sociale hanno pagato più di tutti. I rischi di aumento della povertà educativa sono elevati. Questione centrale del ritorno a scuola sarà dunque attivare una nuova sfida inclusiva, con tutti i mezzi possibili, che eviti ad esempio l’ulteriore isolamento degli alunni con disabilità ritenendo che tocchi solo all’insegnante di sostegno, favorendo invece pratiche di sostegno diffuso tra tutti i docenti. Si tratta inoltre di evitare di considerare il cosiddetto “recupero” come ripetizione, favorendo invece pratiche di didattiche attive e alternative, favorendo il peer to peer tra ragazzi, pratiche di esperienze cooperative, pratiche di ricerca-azione a partire dai potenziali di ognuno. Il contrasto alla povertà educativa obbliga a nuovi rapporti con il territorio, le famiglie, gli attori sociali. Rischiamo altrimenti che il ritorno a scuola accentui il disagio e non sappia costruire pratiche nuove orizzontali e solidali. 

Riappropriazione di un razionale rapporto tra didattica d’aula 

e a distanza e utilizzo ITC 

Nel tentativo di limitare i danni della forzata lontananza imposta dal Covid-19, una parte significativa di docenti ha utilizzato diversi strumenti e tecniche per ricostruire frammenti di vicinanza con gli alunni/e e le loro famiglie. Un impegno generoso, inedito e sovente anche faticoso perché migliaia di docenti hanno fatto esperienza, spesso per la prima volta, con l’uso del computer e della comunicazione a distanza. Questo processo di autoapprendimento sul campo è avvenuto in forme di aiuto reciproco e di diffusione di esperienze limitate, fino al diffondersi della pandemia, a un numero relativamente modesto di istituti. Un evento pertanto positivo che ha posto la scuola nel suo insieme di fronte a una palese arretratezza rispetto alla conoscenza delle potenzialità, all’uso e alla valorizzazione delle nuove tecnologie informatiche in ambito educativo e didattico. La strumentale enfatizzazione ministeriale, tesa quasi ad assicurare l’opinione pubblica sul regolare proseguimento delle attività didattiche, ha determinato l’esplosione di un conflitto tra la “dad” e la didattica in presenza, caricato ben presto di significati ideologici fuorvianti. Questo conflitto va superato di scatto, avendo chiari alcuni essenziali riferimenti: 

1. Durante la sospensione delle attività didattiche a scuola, il luogo dell’apprendimento possibile si è trasferito nelle case. Abbiamo avuto mesi di istruzione domiciliare seguita a distanza, non di dad. E nel consegnare nelle case e nelle famiglie l’attività formativa, tutte le diseguaglianze di contesto hanno ripreso il sopravvento perché è venuto a mancare quel luogo, chiamato scuola/aula, in cui tutte le diversità si ritrovano fisicamente in un unico reale ambiente condiviso, per apprendere. Per questa ragione e non solo perché la didattica è fatta di “materia”, relazione, corporeità, socialità fisica, la didattica in presenza e la scuola pubblica sono insostituibili. 

2. Anche la didattica in presenza può essere tuttavia direttiva, ripetitiva, passivamente trasmissiva. È contro questo tipo di scuola, con o senza l’uso di nuove tecnologie, che da decenni vive un movimento, di cui noi siamo parte, per il rinnovamento della qualità dell’insegnamento e della costruzione del pensiero critico: tecniche, metodologie, strumenti, organizzazione della didattica. 

3. L’innovazione tecnologica non è la “dad”; è un fenomeno molto complesso che segna e segnerà sempre di più la vita delle persone nel mondo del lavoro, della conoscenza, delle relazioni. È il nuovo ambiente in cui crescono le nuove generazioni e la scuola non può chiamarsi fuori da una riflessione profonda, e in primo luogo, pedagogica, sul senso delle trasformazioni in atto. Del resto non è la prima volta che la scuola è chiamata a misurarsi con la modernità: è già successo, con l’avvento della stampa, della radio, della televisione. 

La scuola non deve essere subalterna alla modernità ma neppure estraniarsi da essa: deve farci i conti con consapevolezza. 

Riappropriazione del territorio 

Il primo ambiente è naturalmente proprio quello della scuola in cui si lavora. Oggi quelle aule, quei locali, quegli spazi, hanno bisogno di uno sguardo diverso. Vanno rivisti e pensati come spazi di incontro, di relazione, di vita “sicura” per docenti, studenti, personale ATA. 

Luoghi da rendere non solo sicuri facendo una diagnosi attenta e documentata dei lavori più urgenti da segnalare alle autorità locali per quegli interventi che abbiamo indicato di “edilizia leggera”. Ma sono anche luoghi da abbellire con una pianta, un quadro, un manifesto, graffiti o murales fatti dai ragazzi anche per fermare la memoria di questa stagione così straordinaria della vita della scuola e delle persone. 

L’ambiente non è il contenitore anonimo dell’azione formativa, ne è parte costitutiva e importante. Il senso di appartenenza è fatto di materia, di cose, oggetti, colori, insieme a riti, simboli, azioni condivise. Anche per questo, nei mesi scorsi, abbiamo sostenuto che uno schermo acceso non basta. 

Insieme a quello della scuola, il territorio della comunità circostante 

Insegnanti, dirigenti, cittadini, sindaci possono dare vita a patti di comunità in cui definire gli spazi pubblici, gli edifici, le strutture (biblioteche, sale cinematografiche, palestre, ecc.), le persone, oltre al personale della scuola, volontariamente impegnato in progetti di riapertura e arricchimento dei percorsi di apprendimento. Alcuni di questi spazi possono trasformarsi in aule permanenti di cultura e apprendimento (pensiamo alle biblioteche e ai musei, per fare un esempio). Anche luoghi di progettazione di percorsi di apprendimento in cui incrociamo figure diverse e associazioni di volontariato ma con una regia della scuola che deve sempre avere chiaro il percorso didattico e formativo da realizzare, documentare, valutare. Negli anni 70-80, questa dimensione del territorio educativo era un fatto ordinario prima che il liberismo distruggesse questa dimensione del welfare in nome delle esternalizzazioni, delle privatizzazioni, del privato è bello. 

L’assenza di un modello di governo territoriale della scuola ha contribuito negli anni a moltiplicare i dislivelli e le diseguaglianze territoriali che incidono nel destino delle nuove generazioni. Ripensare il modello di gestione partecipativa della scuola è determinante, sia in senso amministrativo, sia in senso politico/pedagogico. Il distanziamento, quello ben più radicale di quello imposto dal Covid-19, era già tra noi da alcuni anni, con il suo carico di produzione di diffidenza, rancore, ostilità, violenza implicita e insofferenza verso ogni forma di integrazione. 

L’autonomia come produzione di comunità e socialità diventa il terreno privilegiato della scuola che riparte con un curricolo che non sta più soltanto nelle aule ma esce nelle vie e nelle piazze per diventare un curricolo aperto: storia delle strutture sanitarie del territorio, dei luoghi di incontro e relazione, la cultura prodotta dal territorio: biblioteche, associazioni di volontariato, musei, laboratori artigianali, aziende, ecc. Un curricolo oltre le “materie” in cui le discipline si integrano in una cornice di indagine e studio condivisa, programmata e valutata da tutti i docenti. 

Ma c’è di più: attraverso questo impegno educativo, cognitivo e sociale della scuola i bambini e i ragazzi possono farsi proposta di idee e azioni per migliorare la qualità della vita del proprio territorio per tutti i cittadini. Una scuola che produce idee, non solo riproduttiva di quelle adulte. Un nuovo paesaggio didattico e un nuovo modello di gestione territoriale per un apprendimento ricco di potenzialità. Agli adulti, attori responsabili di questa costruzione sociale, la capacità di ideare e promuovere riti e simboli in grado di dare anima alle nuove dimensioni dell’apprendimento. 

Cambiamenti profondi che guardano al futuro 

Di quale scuola avremo bisogno per realizzare e consolidare obiettivi e percorsi tanto innovativi? 

Certamente di una scuola al centro di una politica che guardi almeno al prossimo decennio; che possa contare su un investimento forte in qualità: qualità delle strutture e qualità di tutti gli operatori della scuola. Una scuola che potrà affrontare questa sfida solo se potrà contare sul contributo delle istituzioni europee. Perché la scuola, per concorrere alla costruzione di un’Europa sostenuta da un forte consenso popolare, ha bisogno che l’Europa non si limiti solo a importanti “raccomandazioni” ma sia capace di erogare risorse e produrre politiche per l’istruzione di milioni di giovani. Non c’è futuro per l’Europa se non sarà capace di scommettere sulla crescita culturale e scientifica dei suoi giovani. 

Nel nostro Paese la scuola vivrà nel prossimo decennio anche la riduzione di un milione di studenti. Nuove risorse importanti a disposizione per quel progetto di riforma di cui importanti contributi sono già stati delineati e potranno ulteriormente arricchirsi nel dibattito dentro e fuori della scuola. Noi ci limitiamo qui a una osservazione conclusiva che ci riguarda molto da vicino. A oggi alcuni elementi strutturali del funzionamento della scuola, quali orario di insegnamento e non insegnamento, funzioni strumentali, formazione iniziale e in servizio, struttura della retribuzione, organi di governo della scuola e del territorio, sono sostanzialmente gli stessi dei rinnovi contrattuali della metà degli anni 90. Non potranno essere gli stessi anche per il prossimo decennio; e i cambiamenti, certamente difficili e complessi, saranno possibili soltanto misurandosi sul campo e scommettendo su una capacità coraggiosa di innovazione professionale e sindacale sostenuta da una libera ricerca ed elaborazione di cultura professionale. Non attendendo la mitica riforma complessiva dall’alto ma provando, sperimentando e incentivando, con il consenso di chi vorrà mettersi in discussione, esperienze di una nuova organizzazione del lavoro conquistata e messa alla prova sul campo. 

Il ritorno a scuola dopo questi sette mesi difficili diventa quindi anche una sfida culturale e pedagogica a ripensare e reinventare l’organizzazione, la didattica e le sue professioni. Dal basso e sul campo, per una nuova teoria e pratica dell’autonomia rimasta in sospeso da lungo tempo.