Perché i ragazzi sono feriti

da la Repubblica

Chiara Saraceno

È fin troppo facile fare l’elenco delle cose che si dovevano e potevano fare in questi mesi per contrastare il riaccendersi violento della pandemia e comunque arrivare più preparati. Ci sono state scelte improvvide, lassismo nei controlli, ritardi imperdonabili da parte delle amministrazioni pubbliche ad ogni livello e in ogni settore – inclusa, incredibilmente, la sanità – miopia decisionale ( ad esempio far finta di ignorare che con la ripresa delle attività e della scuola si sarebbe presentato un problema nei trasporti).

Accanto alle inadempienze dei decisori pubblici c’è stata anche una certa sventatezza da parte di una fetta piccola o grande della popolazione, talvolta incoraggiata dal chiacchiericcio confuso e litigioso di esperti in cerca di visibilità. L’elenco delle responsabilità è lungo. Ma non serve a capire che cosa si può fare ora per impedire di dover arrivare a decisioni dalle conseguenze gravissime, a partire dalla chiusura, di nuovo, delle scuole e il ritorno alla didattica a distanza. Si tratta della decisione apparentemente più semplice ed efficace, perché coinvolge una fetta grande della popolazione che circola ogni giorno e non ha effetti economici dirompenti come la chiusura delle attività produttive. Per questo è così attraente per i presidenti di Regione, che risolverebbero il problema dell’affollamento dei trasporti che non hanno voluto o potuto affrontare per tempo, quando non lo hanno tout court ignorato, con la connivenza del governo e il silenzio dell’opposizione.

Ma sarebbe una decisione costosissima sul piano umano, dell’apprendimento, delle disuguaglianze nelle opportunità delle giovani generazioni, oltre che della fiducia che queste possono riporre in chi continua sistematicamente a sottovalutare i loro interessi e diritti. Sono costi già emersi a seguito del lockdown, che meriterebbero una attenta opera di recupero e ricostruzione. Si aggiunga che per molti bambini e adolescenti la casa e il quartiere in cui vivono sono luoghi molto più esposti al contagio della scuola. Per questo la decisione di De Luca in Campania, dove il tasso di elusione e abbandono scolastico sono già altissimi, è particolarmente nefasta.

Che fare, allora? Innanzitutto spostare lo sguardo su altri soggetti della mobilità. Chi può lavorare a distanza deve tornare a farlo, con buona pace degli amministratori locali preoccupati, legittimamente, degli effetti su bar e ristoranti, dei dirigenti che preferiscono tenere i propri dipendenti sott’occhio e degli stessi lavoratori e lavoratrici che cominciano a sentirsi stretti tra la mura di casa. In secondo luogo si può integrare il trasporto pubblico locale ricorrendo ai mezzi e agli autisti, che ora sono lasciati nella inattività per la crisi del turismo. Invece di doverli sostenere nella inattività con la cassa integrazione o condannarli al fallimento, potrebbero essere utilmente impiegati nelle ore di punta e nelle tratte più trafficate. Qualcosa si può chiedere anche agli studenti più grandi, corresponsabilizzandoli.

Nelle classi intermedie delle superiori la didattica mista, parte in presenza e parte a distanza, deve diventare la norma temporanea, senza essere lasciata alle decisioni dei vari istituti. Se ben organizzata, garantendo a tutti la possibilità di fruire di entrambe, monitorando con attenzione chi rischia di perdersi e rispettando le esigenze specifiche delle materie che richiedono esercitazioni in presenza, coinvolgendo gli studenti nella costruzione dei materiali digitali, per i ragazzi/e può diventare una occasione di responsabilizzazione e coinvolgimento. Infine, si dovrebbe fare ora ciò che non è stato fatto durante il lockdown e neppure in estate: trasformare, con azioni educative, linguaggio e stili comunicativi adeguati, le bambine/i e adolescenti non in soggetti passivi di decisioni che passano sopra la loro testa e spesso negano i loro interessi, ma in ambasciatori e proseliti della prevenzione e dei comportamenti corretti, dentro la scuola ma soprattutto fuori.