Al fondo delle parole

Al fondo delle parole ci stanno le esperienze e le cose

di Maria Grazia Carnazzola

1. Parole che nascono, parole che muoiono.

Di mestiere Cinoc faceva l’ammazzaparole. Lavorava all’aggiornamento dei dizionari Larousse. Ma, mentre altri redattori erano sempre alla ricerca di parole e significati nuovi, lui, per fargli posto, doveva eliminare tutte le parole e tutti i significati caduti in disuso”.

Cinoc   è uno dei personaggi che troviamo ne “La vita istruzioni per l’uso” di Georges Perec e, quando dopo cinquantatrè anni di scrupoloso servizio andò in pensione, aveva fatto sparire migliaia di tecniche, usi, costumi, attrezzi, giochi, lavori, pesi e misure, specie di animali, piante…e perfino luoghi, geografi, missionari, dei e demoni. E l’elenco potrebbe continuare. Anche ciascuno di noi è un po’ Cinoc quando elimina parole dal suo linguaggio o le seppellisce nella memoria. O non le insegna, perché le parole muoiono quando non viaggiano più da una voce all’altra o non vengono scritte. Qualche volta succede perché scompaiono le cose che esse denominano, a volte, invece, vengono sostituite da altre- magari più imprecise, generiche, sbiadite- imposte dai media; in questo caso si impoveriscono di significato, diventano impersonali, qualche volta banali: stereotipi.  Diventano modelli e mode che, omologando il linguaggio, lo privano della capacità di rappresentare autenticamente e con originalità il reale. Imitiamo acriticamente parole ed espressioni e poi comportamenti e poi pensieri. Ripetiamo le parole degli altri e raccontiamo le nostre storie con espressioni che non ci rappresentano ma “informano”, con superficialità e in modo generico ed usuale: “normale” si suole dire. Però quando dobbiamo dire qualcosa che va oltre il fatto quotidiano, oltre l’episodio dell’esperienza reale, con quali parole rendiamo quello che abbiamo dentro e che appartiene solo a ciascuno di noi; come diciamo il dolore, la paura, il desiderio, la memoria, l’ascolto. Non c’è l’amore: c’è il mio amore e c’è il tuo. Ma se non possediamo le parole usiamo espressioni generiche, banali, sciatte, incoerenti cioè bugiarde e mentiamo agli altri e a noi stessi per pigrizia e per conformismo.

Nella metamorfosi delle espressioni e dei comportamenti, al fondo di ogni parola, ci sono gli uomini, le loro esistenze, gli accadimenti, le ideologie, le culture, i miti e le immagini dei popoli e delle comunità. C’è ciascuno di noi.

2. Il teatro della normalità.

Anche la parola “normale” ha perso la sua normalità. Altrimenti non si capisce come strafalcioni quali infrazione al posto di effrazione, Porta Pia nel 1970 invece che nel 1870, atti di bullismo e vandalismi… suscitino scalpore, ilarità e indignazione per  poi cadere nell’oblio del rapido succedersi dell’informazione che porta con sé l’assuefazione legata alla normalità degli attori.  In fondo è normale non padroneggiare il lessico, è normale sbagliare di un secolo la collocazione di un fatto storico, è normale mettere alla berlina un compagno, è normale subire aggressioni fisiche o verbali. Normale perché l’aggressività ci appartiene biologicamente, si dice, appartiene al mondo animale. Ma se l’aggressività ci appartiene biologicamente, la violenza è altra cosa non è naturale, è un fenomeno culturale, di massa o personale. Ortega y Gasset descrive la violenza sottile, normale e nascosta dell’uomo sul palcoscenico della normalità dei luoghi comuni, della parvenza di idee di slogan e di “vocaboli vacui”. L’uomo usa la tecnologia, ma non si interroga sulla storia che ha prodotto quella tecnologia né sui significati umani del suo utilizzo: ne coglie i benefici e li ostenta senza porsi domande, senza spendere parole perché la dimensione etica e il pensiero riflessivo sono poco praticati dalla cultura di massa. Dovremmo cercare di immaginare cosa potrebbe succedere se le cose continueranno a stare così, la favola dell’Apprendista stregone ci dovrebbe aiutare a capire che quando non si sa più come dominare gli spiriti evocati, si deve per forza ricorrere al maestro per ristabilire l’ordine.  Ma anche “immaginare” è una parola che ha cambiato significato: i media rendono visibile l’immaginabile e ci rimane ben poco da immaginare. Possiamo desiderare qualcosa che qualcuno ha già immaginato per noi e ci ha reso visibile attraverso la televisione? Privandoci così della possibilità di un pensiero originale e nuovo. E, ancora, l’immaginare rimanda al futuro che diventa, per forza di cose, l’immagine di un futuro omologato; così raccontiamo i nostri desideri e le nostre esperienze come se fossero quelle degli altri, con le stesse parole- poche- con cui le abbiamo sentite raccontare.

3. Pensare e dire con parole precise.

Il numero delle parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità” sostiene G. Zagrebelsky quando elenca, in un ideale decalogo, i principi dell’etica democratica in cui include la cura delle parole. La povertà della comunicazione soffoca le emozioni, rende difficile nominarle e, di conseguenza, controllarle; sappiamo che quando non si hanno le parole per dire la sofferenza la sia agisce, le scienze cognitive hanno cercato di spiegarlo in molti modi e, ancora prima, L. Wittgenstein ha scritto “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Per questo, sono fermamente convinta, la scuola dovrebbe cercare di garantire un possesso delle parole uguale per tutti, per quanto ciò sia possibile, curandone sia il numero sia la qualità perché esse possano connettersi alle cose e rispettarne la natura quando le rappresentano. Far comprendere che le parole rappresentano le cose, le persone, le situazioni è un passaggio fondamentale per comprenderne a fondo l’importanza di un uso veritiero. In tutti i documenti programmatici delle scuole di ogni ordine e grado, Linee Guida o Indicazioni Nazionali, la lingua è obiettivo trasversale ed è responsabilità di tutti i docenti. La cura del lessico dovrebbe essere oggetto di tutte le discipline, sia come specifico disciplinare sia come trasversalità di Educazione civica nella prospettiva della formazione di cittadini attivi.

4. Conclusioni.

Se la parola è il più grande privilegio degli umani, andrebbe adoperata con cura, evitando i modi ambigui, superficiali e sconsiderati e gli usi impropri e le banalizzazioni. Nell’abuso della parola, nella sciatteria del lessico e attraverso l’ambiguità dei significati passa il pericolo che colui che la ascolta o che la legge non riconosca l’intenzione di chi la pronuncia o la scrive. Solo la capacità di pensare può aiutarci nel giudizio, ma qui si pone un altro problema: cos’è pensare? Si chiede il filosofo Carlo Sini.

BIBLIOGRAFIA.

 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1996 

G. Perec, La vita istruzioni per l’uso,

J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Edizione Einaudi, Torino 1995

G. Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007

C.Sini, Scrivere il silenzio, Lit Edizioni, Roma2013