Miei cari ragazzi tornate al futuro

da la Repubblica

di Ivano Dionigi

Da dove ricominciare? La domanda, da occasionale in tempi di crisi periodiche, si fa ora necessaria di fronte ai concomitanti cedimenti strutturali: l’eclisse delle grandi ideologie e visioni liberale, socialista, cristiana; l’affanno delle istituzioni e dei tradizionali punti di riferimento quali scuola, famiglia, chiesa, partiti; i collassi economici, ambientali, sanitari che da anni colpiscono duro. Senza dire dell’afasia e dell’impotenza della nostra Europa, che solo recentemente pare risvegliata dall’istinto di sopravvivenza.

Per parte mia, conosco una sola risposta: dalla scuola e dai giovani. È di lì, dopo l’apocalisse, che passerà la genesi.

La scuola — il luogo dove si apprendono i fondamentali del sapere, uno degli ultimi avamposti civili del Paese, l’unico ambito pubblico dove avviene l’incontro quotidiano e reale tra coetanei e tra adulti e giovani — è tra le realtà più neglette e tormentate: tormentata, perché affetta da riformite permanente; negletta perché i professori non hanno un adeguato riconoscimento sociale ed economico. Paradosso si aggiunge a paradosso se si considera che, nonostante tutto, abbiamo ancora le scuole migliori d’Europa; e confrontarsi con quelle d’Oltreoceano sarebbe semplicemente offensivo per noi. Se crediamo che alla scuola spetti insegnare ad imparare, dopo aver scommesso senza successo sulla triade Inglese, Internet, Impresa, gioverà scommettere su altre “i”: intelligere , cogliere ( legere ) i problemi nella loro profondità ( intus) e relazione ( inter ); interrogare , educare alle domande e ai dubbi; invenire , scoprire la storia dei giorni passati e immaginare quella dei giorni a venire.

La scuola si deve muovere nell’orizzonte dei fini, del tempo, del futuro: oltre i mezzi, lo spazio, il presente.

Non si ricorderà mai abbastanza che “scuola” deriva da scholé , parola che indica il complesso delle attività che il cittadino riservava a se stesso, alla propria formazione, che i Greci chiamavano paidéia e che volevano non specialistica e unidimensionale, bensì completa e integrale: enkýklios , “circolare”, e quindi completa e perfetta, come il cerchio: «La più compiuta delle figure». Altroché i saperi orizzontali e diagonali! Pertanto la scuola è il luogo della formazione dello spirito critico, del confronto, della discussione: il contrappeso di certa modernità polarizzata sul presente, sull’adesso, sul moderno (da modo , “ora”, da cui deriva anche “moda”). Sì, io credo che la scuola debba fare da contraltare alla dimensione monoculturale, all’algoritmo semplificatore, all’assedio del presente.

Osa sapere: il monito illuministico di Kant dovrebbe campeggiare all’ingresso di ogni scuola. Penso alla scuola, aperta h 24 e restituita agli studenti, come al luogo dove i giovani possano munirsi di «scarponi chiodati», direbbe Mandel’stàm; dove non si rendano deboli i saperi, ma forti gli allievi. Al riparo da ogni pedagogia facilitatrice […] La scuola come forza di giustizia e pietra angolare della civitas , nella quale si compone la difficile bellezza del bene comune.

Parlare di scuola equivale soprattutto a parlare del miracolo dei nostri ragazzi: «Il bene più prezioso della città» per Erasmo, che noi abbiamo retrocesso e immiserito nella formula di “capitale umano”. Sono loro che fanno l’unità, la bellezza e la speranza di questo Paese provvidenzialmente ricco di talenti e maledettamente incurante di essi. Così uguali dal profondo Sud al profondo Nord, con gli stessi interrogativi, come ho potuto sperimentare nel dialogo disteso e ravvicinato: dai blasonati Licei classici delle grandi città agli orgogliosi e resistenti Istituti delle località più remote. Ho imparato che il centro spesso sta nella periferia.

Questo ho letto negli occhi e ho raccolto nelle domande di Davide, Laura, Ida, Samuel, Simona, Teresa, e di centinaia di loro compagni e compagne: come immaginare il futuro, resistere al cinismo degli adulti che brutalizzano ogni fede e fiducia, uscire dalla condizione di mantenuti, capire a che cosa servono gli umanisti, individuare i maestri, non avere paura della morte e soprattutto della vita.

Ho capito che avevo un unico modo per rivolgermi a loro.

Mostrate i vostri volti, fate sentire la vostra voce, non siate clandestini; il vostro tempo non è domani, è ora; voi che avete il futuro nel sangue e il privilegio di dare del tu al tempo.

A voi giovani il compito stupendo e tremendo di prendervi cura dell’anima della città, perché essa sia rivolta al proprio futuro, sia disponibile a cambiare, avverta la corsa del tempo, oltre l’immobilità dello spazio. Il tempo: l’unica dimensione che ci riconduce alla memoria e al progetto, ai trapassati e ai nascituri. Ripristinate l’uso del futuro e dell’ottativo, modalità verbali in via di estinzione.

A voi spetta il diritto di “inventare” il novum , l’inatteso, il mai visto, il mai sperimentato; ma anche il dovere di “dissotterrare” il notum dei padri, della storia, della tradizione. Ascoltate il vostro demone, ma vi sia di esempio quella pagina in cui Marco Aurelio ricorda e ringrazia per nome, a uno a uno, tutti coloro che lo hanno aiutato e formato: nonno, padre, madre, bisnonno, precettore, tutti i maestri, i parenti, gli amici e i bravi servitori.

Impegnatevi in politica. Fatelo con passione e orgoglio, non solo per affermare voi stessi; ma fatelo anche per una sorta di pietas verso di noi, che non ce l’abbiamo fatta a lasciarvi un mondo migliore. Noi abbiamo vendemmiato più che seminato.

L’anagrafe non vi è stata benevola: arrivati in un mondo costruito su misura dei padri, dovete ora costruirne uno per i vostri figli.

Siate consapevoli della vostra forza, perché il tempo vi è amico. Siate insoddisfatti, siate esigenti, siate rigorosi. Vorrei dirvi: siate perfetti.

Il mondo sarà migliore il giorno in cui non diremo più di un ragazzo o di una ragazza «è tutto suo padre, tutta sua madre», ma di un genitore diremo «è tutto suo figlio, è tutto sua figlia».