Lettera ai miei colleghi e alle mie colleghe

Lettera ai miei colleghi e alle mie colleghe

di Annalisa Comes

Se qualcuno mi chiedesse per quale motivo sono diventata insegnante non dovrei riflettere neanche un minuto, ci sono due spiegazioni che ho ben chiare: per amore e per rivalsa.

Nella vita di ogni persona l’educazione ricopre un ruolo essenziale, nel bene e nel male. Così la scuola, che ci ha aperto o chiuso l’orizzonte del nostro essere “sociale”.

Ricordo ancora benissimo la mia professoressa di italiano delle medie, la sua passione, l’entusiasmo che ci comunicava. Una professoressa severa ma giusta, rigorosa ma capace di spronarci al meglio, di infonderci fiducia e coraggio. Altrettanto bene ricordo la professoressa di italiano del liceo, una donna parziale, poco colta, incapace di trasmettere la minima emozione, che ci dettava terribili, miserrimi riassunti di letteratura. Ricordo ore lunghissime, noiose, inutili. Ricordo anche la rabbia e la frustrazione, l’ingenuo tentativo, più volte reiterato, di mandarla via.

Proprio ieri sera, 21 ottobre, l’intervento del presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, nel commemorare alla Sorbona l’atroce assassinio del professor Samuel Paty, ha ricordato in più punti la lettera appassionata e toccante di Jean Jaurès del 1888 che è stata letta per interno prima del suo intervento. Ho provato una commozione vivissima nel sentire un discorso pubblico, ufficiale così appassionato, di totale sostegno a tutti coloro – insegnanti, professori e professoresse, maestri e maestre – che ogni giorno sono in prima linea nell’educare i giovani ai valori repubblicani, a esercitare il loro spirito critico, a essere liberi.

Quanto diversa in Italia la considerazione del nostro corpo insegnante! evidente a partire dalla remunerazione economica – risibile e offensiva -, dall’obbligo di un asservimento a una burocrazia inutile e dannosa, e dalla scarsissima attenzione al come si educa a vantaggio invece di contenuti sempre più parcellizzati, attualizzanti, accattivanti. Merce per un’ utenza – questo è il termine che sempre più spesso si utilizza per i giovani! – a cui deve interessare solo l’involucro di un pacchetto.

Se da più parti psicologi e pedagoghi lamentano sulle pagine dei quotidiani l’invadenza di famiglie che cercano solo di promuovere i propri figli, dall’altra un insegnante che non sa fare il suo mestiere può rimanere in cattedra fino alla pensione. Nel migliore dei casi, se è troppo disturbato, diventerà bibliotecario (se esiste una biblioteca…) affinché faccia “meno danni possibile”, nel peggiore continuerà tranquillamente a “stare” in cattedra. Il professore frustrato insegna con malavoglia e rancore, in genere odia i giovani, parla male la sua stessa lingua, è prevaricatore e offensivo oppure mite e indifferente, ama la burocrazia, ama mettere i voti più che educare, ama giudicare invece che discutere, è un eterno, infaticabile sostenitore della Verità.

Quando si incontra a scuola anche questo insegnante non si dimentica facilmente…

Ma se le famiglie promuovono i propri figli è colpa nostra, di noi insegnanti. Perché non siamo abbastanza coraggiosi da rileggere e mettere in pratica pagine come quelle di Jean Jaurès, non siamo abbastanza audaci da allontanarci dai meccanismi utilitaristici della società – piegandoci alle sue richieste e ai suoi criteri invece di essere noi promotori di rinnovamento – e non abbastanza impavidi da screditare quella Verità unica.