“C’è un positivo in classe”

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da la Repubblica

Assia Neumann Dayan

Il pensiero magico non ha funzionato. Domenica pomeriggio arriva una mail dalla dirigente scolastica nella quale ci scrive che cari genitori è stato accertato un caso positivo al Covid 19 nella classe di vostro figlio, spiace, aspettiamo Ats, aspettiamo informazioni, aspettiamo. Aspettiamo? Aspettiamo.

Evidentemente siamo riusciti solo a fare il pane da Marzo ad oggi. In chat inizia la macchina del fango, la caccia all’untore, io mi accodo e chiedo a mio figlio di fare l’infame, dimmi chi era assente, forse il tuo amico biondino? Forse il tuo compagno bassino — ma mamma siamo tutti bassi, eh no amore, tu sei il più alto, tu non sei come gli altri, tu diventerai un modello di Armani. Plot twist : una mamma chiede in chat come sta la maestra. Ettore, amore di mamma, come sta la maestra? «Eh mamma aveva un po’ di influenzina ». Ma mio figlio mente, mente continuamente, non è un testimone attendibile, avanti un altro, la parola ai giurati. Guardo quelle mani piccole e unte che si agitano mentre inventa le sue storie, mani quasi certamente infette che muovono il virus nell’aria, siamo tutti contagiati, la mia casa è un focolaio, ma non siamo mica a Marzo, siamo preparati, pronti, i tamponi ce li hanno anche i panettieri, Cortilia consegna il giorno dopo, posso fare una quarantena di quaranta giorni con tutti i lussi di cui sono stata privata in primavera, che felicità, sono pronta, prontissima, va tutto bene, benissimo.

Eppure non riesco a togliere lo sguardo da quelle mani piccole e unte, non dovrei abbracciarlo, dovrei lavarmi le mani ogni volta che lo sfioro, mi ha anche usato come peso per una fionda immaginaria tocchicciandomi con quelle dita infette, poi penso che se ce l’ha lui lo devo prendere pure io, o forse no, forse dovrei tutelarmi e rimanere sana, come posso pensare di prendermi cura di un malato da malata, ma è mio figlio, meglio malata che anaffettiva. La questione morale esiste? Non ho mai sentito nessuno avere un dubbio a riguardo, le linee guida indicano di tumulare il minore in una stanza con bagno privato, e forse chi le ha scritte vive su Marte, dove chiaramente non c’è il Covid.

La situazione precipita, la dirigente non vuole dirci la data dell’ultimo contatto con il positivo, non vuole darci i numeri di telefono di tutti i genitori della classe per verificare se c’è qualche bambino che presenta sintomi, perché c’è la privacy, e sì, si può morire di privacy, perché non esiste più la percezione del male minore, esiste solo la tutela del numero di telefono dello sconosciuto a fronte di una pandemia. Sì, fa ridere, ma non c’è niente da ridere.

Ci dicono sottovoce che il contatto risale a venerdì scorso, lo veniamo a sapere domenica sera, faccio 52 chiamate ad Ats Milano e per 52 volte mi viene chiuso il telefono in faccia, nessuno sa niente, nessuno dice niente, voglio candidarmi a rappresentante di classe, di istituto, di mondo, ci dicono che i bambini sono in isolamento per 10 giorni e poi tampone, ma il tampone lo puoi prenotare solo dal decimo giorno, quindi passerebbe un mese, oppure può fare un isolamento di 14 giorni e rientro senza tampone, ma rientro dove, Ats dovrebbe chiamarci e non lo farà, perché la bolla è scoppiata, e noi con loro. Siamo soli e non siamo eroi, il che rende insopportabile questo peso, la scuola, Milano, la sanità, i decreti, mi vengono in mente i puff della moglie di Poggiolini, penso che sono una miserabile perché non so spiegare a mio figlio quel che succede e perché ho paura a toccarlo.

È passata una settimana, e nessuna comunicazione è arrivata, né dalla scuola, né dalle istituzioni sanitarie, niente, nessuno. Siamo soli e non siamo eroi, siamo povera gente in balia dei figli chiusi in una stanza a urlare, siamo qui a contare i danni, con i conti che non tornano mai. — Autrice televisiva, milanese, mamma di Ettore (4 anni)