Il “futuro della scuola” e “la scuola del futuro”

Il “futuro della scuola” e “la scuola del futuro”

di Maria Grazia Carnazzola

1. Premessa.

In periodi di incertezza estrema come è quello che stiamo vivendo, riflettere sulle scelte e sulle decisioni, politiche, amministrative o personali, diventa necessario per non perdere completamente la bussola.  Decidere significa scegliere e le scelte fanno riferimento, troppo spesso lo vediamo, a liste di opzioni che riguardano quasi esclusivamente gli aspetti tecnici delle questioni e delle situazioni. Ma cercare di prefigurare una visione di come sarà il futuro non si esaurisce nell’aggiungere o nel togliere e poi vedere come va: serve sgombrare il campo da ragionamenti meccanici riconducibili all’utilizzo massiccio di procedure algoritmiche, prendendo atto della situazione in cui si trova, ad esempio, il mondo dell’istruzione-educazione-formazione nel presente per pensarlo nel futuro, con rigore ma anche con speranza.

2. Il futuro della scuola, la scuola del futuro.

Chiedersi quale sarà il futuro della scuola non è lo stesso di chiedersi come sarà la scuola del futuro. Quando si pensa al futuro si fanno previsioni, pronostici, diagnosi, si delineano scenari, tutte operazioni che testimoniano la volontà e la necessità di “anticipare” per pensare a strategie di intervento, a possibili cambiamenti migliorativi, a prevenire peggioramenti… La prevenzione è al centro del dibattito scientifico, tecnico e politico. Lo vediamo molto bene nelle vicende legate alla pandemia in atto, nei dibattiti sui cambiamenti climatici, sul mondo dell’economia e della finanza, sulla crescente precarietà dei modelli di vita e di democrazia, sulla digitalizzazione del lavoro e di altri aspetti importanti dell’esistenza. Come la scuola, appunto. Il problema che si pone a chi deve decidere è trasversale a tutti gli ambiti: l’attenzione all’immediato, attraverso una gestione algoritmica dei dati riferiti agli eventi rilevati- da una parte- e l’attenzione al lungo termine dall’altra. Molte volte il secondo aspetto sfuma e si assiste a una sorta di ripiegamento sul presente. Probabilmente l’anticipazione– intesa come preoccupazione del futuro- spesso si confonde con la previsione e il futuro diventa nient’altro che la continuazione del modello del passato. 

Allora si punta su ambienti diversi, banchi diversi, lavagne diverse. Quando si cerca di anticipare come potrebbero essere le cose in futuro, invece, si dovrebbero focalizzare i presupposti, le potenzialità, le contraddizioni, le incompatibilità in relazione ai cambiamenti che si auspicano o si temono, distinguendo ciò che è probabile, da ciò che è possibile, da ciò che è immaginabile. 

3. Anticipare per prevedere la probabile, o la possibile, scuola del futuro.

Quando anticipiamo che un avvenimento possa verificarsi o il come possa verificarsi, calcoliamo la probabilità che quell’avvenimento ha di verificarsi tra altri possibili. La probabilità è, dunque, una versione graduata e misurata del possibile, fatta sull’elaborazione di dati riferiti al passato o al presente, proiettata nel futuro senza lasciare spazio a possibili biforcazioni; il margine di errore viene spiegato epistemologicamente come “incompletezza dei saperi”, come direbbe Watzlawick. Non vengono prese in considerazione le conseguenze sconosciute di variabili note, né si considerano le conseguenze sconosciute di variabili sconosciute. Il futuro previsto risulta così ridotto perché si sono selezionati, con il criterio della quantificazione, eventi possibili, tra tutti i possibili, con il metodo dell’induzione. I rischi di errori grossolani li intuiamo bene e, nella situazione che stiamo vivendo, li verifichiamo nell’attuazione della “scuola del cambiamento, del futuro” attraverso le notizie che ci giungono. Prevedere che una situazione indesiderata ha una probabilità di verificarsi del 70%, non esclude il 30% di probabilità che non si verifichi. L’anticipazione in questo caso mette al centro della decisione il rischio che non si possa prolungare l’esistente, in una visione lineare del tempo e semplificata della complessità del reale. Quando si pensa la scuola per il futuro (ma potrebbe valere anche per la medicina) bisognerebbe cercare di tenere aperte tutte le possibilità legate al potenziale evolutivo di tutte le situazioni, mettendo al centro le capacità di adattamento sia delle persone sia del sistema, facendo l’inventario di tutte le variabili e dei cambiamenti alternativi che si possono verificare e a cui bisognerà adattarsi. Ragionare in questi termini postula, senza dubbio, il superamento di una visione settoriale degli eventi e la mobilitazione di saperi eterogenei per poter immaginare gli scenari possibili. Ma permetterebbe ai cittadini tutti di comprendere le scelte, le decisioni e i provvedimenti che via via le istituzioni assumono.  L’esempio della didattica in presenza ad ogni costo, nonostante quello che sta succedendo, che significato ha dopo che da marzo a luglio non si è fatto altro che decantare i pregi e l’importanza della “didattica a distanza” e l’ottimo esito degli esami di Stato? Comprendo perfettamente le difficoltà di assumere decisioni che ricadono su milioni di bambini, ragazzi, genitori, docenti, dirigenti, ma sottolineo la responsabilità di farlo all’interno di un piano complessivo che anticipi i possibili passaggi in relazione ai cambiamenti in atto, per cercare di diminuire l’incertezza, le paure e la confusione. 

4. Anticipare immaginando il futuro della scuola.

Antoine de Saint-Exupéry sosteneva che “Pour ce qui est de l’avenir, il ne s’agit pas de le prévoir mais de le rendre possible”. Pensare il futuro della scuola significa raffigurarsi qualcosa che non esiste ancora, immaginare uno scenario con il margine di indeterminazione che la previsione non contempla perché si riferisce alla probabilità con cui possono verificarsi degli eventi, sulla base di dati riferiti al presente o al passato, senza spazi per le biforcazioni imprevedibili, come ho già detto. La scuola, che esiste per educare, istruire, formare le giovani generazioni, si basa su due elementi: la conoscenza e l’apprendimento. Succede che a volte i due termini vengano utilizzati come sinonimi, ma si riferiscono a oggetti diversi: l’apprendimento è un fatto personale, riguarda ciascuno di noi, ed è influenzato dalle emozioni, dai pensieri, dalle credenze che ci appartengono. La conoscenza è un fatto pubblico e condiviso, riguarda la cultura di una certa società. 

Gli insegnanti, con azioni che stanno a metà tra arte- o mestiere- e scienza, strutturano situazioni e ambienti perché ciascuno costruisca la propria conoscenza attingendo ai saperi della cultura di appartenenza veicolati attraverso le discipline.  Dehaene sostiene che l’evoluzione “ha inventato la capacità di imparare…per adeguarsi agli aspetti più mutevoli dell’ambiente” e che noi siamo oltre che homo sapiens, homo docens: la maggior parte delle cose che sappiamo del mondo non ci è data, la apprendiamo dal nostro ambiente naturale e sociale. L’umanità ha scoperto che poteva incrementare la capacità di imparare attraverso un’istituzione: la scuola che sistematizza l’istruzione informale, presente in tutte le società. L’educazione è stata, fino ad oggi, il maggior acceleratore del nostro cervello e di conseguenza, delle società umane.  Quale il futuro della scuola allora? Possiamo cercare di immaginarlo facendo riferimento a quanto sappiamo oggi dell’apprendimento, del sapere, degli strumenti- in particolare della centralità del linguaggio verbale e della matematica- e delle tecnologie. Una scuola che ripercorra il cammino dell’umanità non per nostalgia, ma per comprendere il mondo che ci circonda, di cui facciamo parte e che, in quanto uomini, abbiamo contribuito a costruire. In questo senso parlare di storia, di scienze, di filosofia, di letteratura …non sarà altro che ripercorrere il passaggio dalla cultura dell’oralità, in cui l’uomo, l’azione, la tecnica erano un tutt’uno, alla cultura dell’alfabeto che ha permesso l’oggettivazione- e con ciò l’analisi- del linguaggio, delle categorie e del pensiero.  Comprendere che “descrivere e spiegare” non sono sinonimo di onnipotenza, ma sono passaggi obbligati che le scienze, oggetti culturali e non soggetti metafisici, fanno per narrare lo stato dell’interazione uomo/ambiente e testimoniare la parzialità delle conoscenze storicamente situate e agite. Così si potrà parlare del passaggio che l’umanità sta affrontando già da qualche tempo, quello dell’uso massivo delle tecnologie della comunicazione e dei cambiamenti che queste hanno prodotto e producono sul modo di apprendere- e di conseguenza di insegnare-, sulla costruzione delle identità nell’interazione, sulla rappresentazione della realtà naturale e sociale.

5. Conclusioni.

Le vicende legate alla pandemia hanno contribuito e contribuiscono a portare in evidenza i limiti e i problemi del sistema scolastico, oltre che del Paese. Per affrontare questa situazione di grave difficoltà, non bastano aggiustamenti, serve pensare a un modello di scuola strutturalmente diverso, perché diversi sono i problemi che la società si trova ad affrontare oggi.  Il problema non è lezioni in presenza/a distanza, ma quando è possibile optare per l’una modalità o per l’altra in una visione integrata che tenga conto dell’incidenza sull’apprendimento e della complessità delle situazioni e delle interrelazioni esistenti tra i diversi settori della realtà. “Scaglionare” gli orari dell’ingresso a scuola, non significa incidere sul numero complessivo degli studenti che si muovono contemporaneamente sui mezzi di trasporto o che sostano nei bar o ai cancelli delle scuole in attesa di entrare. Lo abbiamo verificato in questo mese e mezzo. Scaglionare le classi che accedono alle lezioni in presenza secondo una calendarizzazione settimanale o giornaliera, sarebbe altra cosa sul versante logistico-organizzativo. L’alternarsi di lezioni in presenza e a distanza, sul versante educativodidattico, richiede una diversa gestione e pianificazione della progettazione e della realizzazione degli insegnamenti disciplinari, un’attenta valutazione degli apprendimenti, intesa anche come retroazione sull’insegnamento oltre che dei risultati attesi, un’analisi e utilizzo mirato delle diverse potenzialità delle tecnologie e dell’interazione in presenza. Non ho grandi simpatie per l’uso pervasivo delle tecnologie, ma non posso non riconoscere che, nella contingenza, un loro uso mirato e alternato con l’attività in presenza può costituire il modo per non sacrificare la formazione dei giovani. Ma parlare di integrazione dell’istruzione in presenza/a distanza richiede una attenta riflessione da parte dei Collegi dei docenti e una  formazione mirata che non può esaurirsi nell’informazione sull’utilizzo di un dispositivo o di una piattaforma.

BIBLIOGRAFIA 

A. De Saint Exupery, Il piccolo principe, Tascabili Bompiani 1995;

 A. Damasio, Lo strano ordine delle cose, Adepphi Edizioni, Milano 2018;

AA.VV, Le futur de la santé, pour un’ètique de l’anticipation, éditions de la Maison des sciences de l’homme, 2019;

 C. Sini, Eracle al bivio- semiotica e filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2007;

 S. Dehaene, Imparare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019; 

 P. Watzlawik, Guardarsi dentro rende ciechi, Salani Editore, Milano 2018;