Bianchi: le decisioni sulla scuola ci dicono che Paese siamo e che futuro vogliamo

da Corriere della sera

Pubblichiamo un estratto delle conclusioni del libro di Patrizio Bianchi «Nello specchio della scuola», il Mulino in libreria dal 22 ottobre. Patrizio Bianchi, economista e professore universitario, ex assesssore in Emilia Romagna, ha presieduto la commissione istituita dal ministero dell’Istruzione per la riapertura delle scuole la scorsa primavera.

(…) Per troppo tempo ci siamo illusi – come paese – di disporre di risorse umane di alta qualità, potendo contare su innate doti di intuizione, sulla pregressa esperienza e su una diffusa alfabetizzazione di base. Certamente grazie a queste caratteristiche abbiamo affrontato la ricostruzione del dopoguerra e dato vita a un primo boom economico, ma quanto più accelerano i cambiamenti tecnologici mutando il contesto in cui viviamo, tanto più quelle caratteristiche divengono insufficienti. Oggi tutte le statistiche dicono che la nostra dotazione di risorse umane non è adeguata alla globalizzazione e alla digitalizzazione che si sono imposte dall’inizio del nuovo secolo. Il tasso attuale di dispersione scolastica, sia esplicita (coloro che abbandonano in via definitiva la scuola senza raggiungere un titolo di studio) sia implicita (coloro che pur concludendo il ciclo di studi non dispongono delle competenze minime richieste), insieme al numero di quanti non studiano e non lavorano e di quanti se ne vanno altrove per trovare uno sbocco soddisfacente al loro percorso di studi, sono oggi un limite alla crescita economica e minano anche le fondamenta della nostra democrazia, introducendo nel paese il virus dell’iniquità sociale. (…).

Tuttavia, al centro del rilancio del paese devono stare le persone, e innanzitutto i nostri ragazzi, tenendo conto che la scuola è l’unica istituzione che vede progressivamente trasformarsi i suoi utenti, anzi è l’istituzione che deve garantire a ognuno il diritto a un cambiamento tale da consolidare la propria persona, e così facendo la propria capacità di partecipazione attiva alla vita e allo sviluppo della comunità. Per garantire questo impegno, che la Costituzione fissa tra i fondamenti della Repubblica, è necessario offrire ai ragazzi percorsi adeguati al tempo in cui vivono e in cui dovranno a loro volta assumersi responsabilità; e allora la ridefinizione dei curricula, della durata degli studi, delle attività da condividere con il territorio diviene essenziale per garantire a tutti il raggiungimento degli obiettivi condivisi. Un rilancio del diritto allo studio oggi significa permettere a ogni allievo non solo di disporre degli ausili allo studio, ma anche delle condizioni per poter utilizzare appieno tutti gli strumenti tecnologici utili all’apprendimento, evitando – come in questi tempi di COVID-19 – che si creino nuovi spartiacque fra chi è in grado di disporre di tutti gli strumenti e di utilizzarli, a volte pure lamentandosene, e chi non è in condizione di farlo, e magari non è neppure in grado di dare voce al proprio malessere. Bisogna domandarsi se non sia giunto il momento di portare il ciclo secondario da cinque a quattro anni innalzando l’obbligo scolastico – da raggiungere anche con percorsi professionalizzanti che portino a una qualifica – dagli attuali 16 anni (senza riconoscimento di fine ciclo) ai 17.

D’altra parte per coloro che seguono il percorso triennale di FP si potrebbe delineare un quarto anno – già diffuso in molte Regioni del Nord – basato sui già citati Programmi di inserimento lavorativo (PIL), cioè con un tirocinio in parte curricolare e in parte lavorativo monitorato da un docente e da un tutor aziendale o con un apprendistato formativo, che potrebbe portare a un diploma con possibilità di accesso a un ITS, completando così la filiera. Si potrebbe poi formulare un piano, adeguatamente finanziato e dotato di personale strutturato, per permettere agli ITS – che ridenominerei «istituti superiori di tecnologie applicate» – di raggiungere l’obiettivo di 150.000 iscritti in quattro anni. (…)

Questo però implica investire sui bambini, sui ragazzi, sugli adolescenti, e anche sui loro docenti, sui loro maestri, sui loro professori, implementando percorsi formativi che alle competenze disciplinari sommino quelle pedagogiche e incentivino capacità di lavorare insieme e interconnessione con le università e le istituzioni di ricerca, le quali a loro volta dovranno basare maggiormente le loro attività sul terreno della pratica scolastica quotidiana. Investire sui docenti vuol dire anche predisporre carriere che permettano loro di investire su sé stessi, liberi da condizioni di precariato che difficilmente consentono una crescita professionale (…).

Per uscire dalla crisi sanitaria globale, che ha messo in discussione la stessa globalizzazione, e per poter trarre tutti i vantaggi dalla nuova transizione tecnologica, occorrono competenze, abilità e capacità critiche tali da permettere a tutto il paese di partecipare attivamente a questo ulteriore cambiamento strutturale e quindi di avviare una nuova stagione di sviluppo, che al proprio centro abbia una chiara sostenibilità ambientale, ma anche un’altrettanto necessaria sostenibilità sociale. Tuttavia tali competenze, abilità e capacità, di cui il nuovo secolo della connessione continua ha bisogno, sono diverse da quelle richieste nell’ormai passato Novecento. A livello personale servono più creatività, più lavoro di squadra, più capacità di astrazione e di sperimentazione, ma anche più senso di orientamento per poter navigare in mari aperti. A livello nazionale occorre saper guardare oltre il presente, dunque ci vuole più capacità di visione, per guidare sistemi istituzionali, politici e d’impresa che siano nel contempo coesi e articolati, utilizzando tutte le forze disponibili per muoversi insieme, nel senso di marcia di uno sviluppo inclusivo e sostenibile nel tempo. (…)

È dunque questo il momento di investire in educazione: non solo per superare l’emergenza COVID-19, ma per guardare oltre, per ritrovare quel cammino di sviluppo umano che, dopo essersi perduto nei lunghi anni in cui hanno prevalso individualismo e populismo, deve fondarsi sui valori definiti nella nostra Costituzione. È tempo di utilizzare l’apertura di credito di quest’Europa, che a sua volta ha bisogno di ritrovare la sua identità smarrita, per rilanciare quell’investimento in risorse umane necessario per uscire dalla trappola della bassa crescita e dimostrare che il confine meridionale dell’Unione, che si affaccia sulla frontiera più cruciale per la pace nel mondo, è affidato a una democrazia solida, solidale e matura e in grado di portare nuovo valore aggiunto alla costruzione europea. Dobbiamo evitare la triste sorte di un paese che deve sempre ricorrere all’ultima emergenza per realizzare interventi da tempo unanimemente ritenuti necessari e lavorare per ricostruire un’effettiva comunità nazionale, ricucendo le fratture che si sono create negli anni della bassa crescita e che oggi si presentano come vincoli per una ripresa sostenibile nel tempo. La questione principale allora è quale paese vogliamo per noi e per i nostri figli e quindi quale scuola predisporre per realizzare un paese che non sia sempre in balìa dell’emergenza, ma sia capace di guardare avanti.