Su un trauma di lunga durata

Su un trauma di lunga durata

di Piervincenzo Di Terlizzi

A partire dalla fine di febbraio, le scuole italiane hanno lavorato sotto la stretta urgenza imposta dalla diffusione del Covid-19. Possiamo, ad oggi, individuare -anche nei modi con i quali ci siamo raccontati l’evolvere delle cose- quattro fasi:

a) la gestione dell’emergenza, con l’attivazione, prima, delle forme di didattica e distanza e, poi, delle modalità di conclusione dell’anno scolastico;

b) il lavoro di preparazione estiva per il ritorno in classe di settembre, basato soprattutto sulla definizione di spazi, movimenti, contingentamento dei contatti;

c) l’attività delle prime settimane, all’insegna dell’effettiva realizzazione delle misure sopra indicate;

d) da ultimo, per ora nelle scuole del secondo ciclo, il ritorno, variamente definito, alla didattica a distanza.

I quattro passaggi che ho sinteticamente richiamato sono stati compiuti per realizzare due fini: la garanzia formale e legale dell’anno scolastico e la conservazione dei dispositivi fondamentali che lo regolano (le classi, le aule, gli orari, le materie), in uno sforzo continuo di mediazione con le imposizioni dettate dall’evoluzione della pandemia, in particolare con l’accelerazione delle misure d’emergenza in queste ultime settimane.

Dentro la cornice, che ho sinteticamente richiamato, regolata dall’emergenza, il sistema scolastico è chiamato a sviluppare il suo mandato sociale, che si svolge nel presente, ma ha molto a che fare con la dimensione del futuro, nella quale si misurano gli effetti dei percorsi di istruzione e di formazione. Su questo piano, si colloca l’inevitabile presa in carico di una priorità dell’agenda della scuola (come essa sarà) a venire: la dimensione traumatica, tanto collettiva quanto individuale, di questo periodo.

C’è, prima di tutto, il risvolto esperienziale di questo trauma (e, dico subito: sarebbe davvero inquietante che esso non si manifestasse), che il Ministero stesso ha per tempo pronosticato, disponendo il Bando Monitor 440 per le attività di supporto psicologico: due mesi scarsi di scuola sono ancora troppo poco tempo, ma le prime osservazioni che vengono dai contesti concreti delle classi indicano diversi motivi di criticità, connessi ovviamente anche a tutti i risvolti socioeconomici del periodo, che si innestano su una ripresa della scuola sostanziata di misure di contenimento necessarie ma, anche, sotto tanti punti di vista limitanti.

C’è, poi, la dimensione più squisitamente scolastica. Sette mesi di lontananza dalla scuola, una ripresa segnata da mille doverose attenzioni e precauzioni e la prospettiva di mesi a venire ancora problematici hanno già segnato tutti i percorsi di apprendimento e formazione: la misura di questi mutamenti ci sarà più chiara nell’arco degli anni, quando disporremo (grazie anche a INVALSI, immagino) di raccolte di dati comparabili sugli effetti a distanza; un’idea della questione si può avere leggendo i contributi (ed i relativi link) che Fabio Sabatini ha proposto in queste ultime settimane nella sua pagina Facebook. Dentro questa prospettiva, i PAI ed i PIA con i quali la scuola italiana ha regolato la transizione tra anni scolastici sono risposte necessarie, ma parziali, perché essi poggiano sul presupposto di un ritorno ad una specie di normalità che non è all’ordine del giorno, e perché sono strutturati avendo, come unità di misura, l’anno scolastico (non un anno scolastico generico ma questo, il 2020/2021).

In base a quanto ho sopra riassunto, potrebbe essere sensato anzitutto iniziare un ragionamento di più lungo periodo, con questi riferimenti:

a) considerare gli effetti di questi mesi (e di quelli che verranno) su un arco temporale che vada oltre l’anno scolastico, e che possa invece essere identificato nella durata, quanto meno e come minimo, dei cicli. La questione, oggi, non è quella di esercitare il diritto di non ammettere all’anno successivo, ma quella di salvare, nell’interesse pubblico, il percorso di apprendimento di una generazione;

b) conseguentemente, per dare un senso coerente a questo percorso andrebbe posto davvero al centro dell’attenzione -cioè condiviso non solo nei collegi docenti, ma nell’opinione pubblica, che va liberata dall’attendersi sempre il “programma”- il curricolo, come strumento che attraversa gli anni scolastici e che segue il percorso degli apprendimenti individuali (riprendo, qui, alcune proposte recenti di Stefano Stefanel, ad esempio questa: Il dirigente riflessivo), sviluppando un apprezzamento concreto delle modalità -formali, non formali e informali, in presenza e a distanza, sincrone e asincrone- che lo definiscono (e che potremo chiamare, nel loro insieme, portfolio); 

c) la realizzazione di quanto sopra riassunto presuppone (come, del resto, pure qualche documento ministeriale di quest’estate evocava) un lavoro di raccordo, ad ampio raggio, delle scuole con le realtà (culturali, associative, istituzionali, lavorative) locali (dove “locale” significa non solo un territorio fisico, ma anche quello virtuale, delle relazioni nell’infosfera), in una nuova dimensione di comunità, nella quale si tenga conto delle trasformazioni (non sempre lineari) dei tempi e  dei modi di vivere e lavorare;

d) fa parte di questo anche l’attivazione di una forte dimensione sussidiaria tra istituzioni scolastiche: riprendo, qui, uno spunto di un libro che ha qualche anno, ma che mi pare ancora utilissimo (Scuole responsabili dei risultati, Bologna, il Mulino, 2011), di Angelo Paletta, a proposito delle responsabilità delle scuole riconosciute come più efficaci (in qualunque maniera ciò si intenda) nei confronti di quelle vicine.