Connettere o disconnettere? Questo è il problema

da La Tecnica della Scuola

Nulla di nuovo sotto il sole si potrebbe commentare, ma lascia riflettere l’articolo riproposto da Forbes, sul tema “disconnettere i figli”. Una voce divergente, ma forse non troppo, in giorni come questi in cui bambini e ragazzi sono tutti connessi, che è attuale e fa porre domande.

Riflessioni da oltreoceano sull’uso dei dispositivi per bambini e ragazzi

La questione, oramai annosa, nasce tra chi ha a disposizione strumenti e dispositivi mobili e pensa da tempo che le tecnologie diano dipendenza. Il dibattito è assai vivo negli Stati Uniti, dove da un lato le scuole pubbliche fanno a gara per dotarsi di soluzioni che consentano la didattica a distanza, andando a supportare le metodologie innovative con la Media Education e la pedagogia digitale, dall’altro c’è chi, per reddito e condizioni familiari dispone di computer e connessioni, si muove per cercare di impedire ai figli la dipendenza dalle tecnologie. Il dibattito è nato già qualche anno fa ma è tornato di attualità in tempi di didattica digitale e a distanza.

Le scuole pubbliche americane cercano di educare i bambini fin dalla tenera età all’apprendimento mediato dal computer, e dietro le quinte, sono in molti a crederlo, vi sono le aziende che stringono convenzioni con gli istituti scolastici per l’adozione delle nuove tecnologie nell’apprendimento.

Quali sono gli scenari, che dal Nord America vengono a sfidare il pensiero e il dibattito?

Quello che può succedere ora è che i figli dei più poveri e del ceto medio cresceranno con gli schermi, mentre i figli della élite di Silicon Valley torneranno ai giocattoli di legno e al lusso delle interazioni umaneè l’opinione di Chris Anderson, già direttore di Wired.

Con due effetti collaterali si legge sul New York Times: le scuole per i bambini a basso reddito “dipendono troppo” dagli strumenti tecnologici. E i bambini stessi, secondo alcuni ricercatori, sono quelli che sviluppano una maggiore dipendenza dalla tecnologia rispetto ai coetanei più benestanti. A loro, ancor prima della pandemia, si erano rivolti i colossi del digitale, tra cui Apple e Google, che oggi sono massicciamente presenti in tutto il mondo nella promozione di supporti per la didattica da remoto.

Un’altra faccia del digital divide?

Il DESI – Digital Econom and Society Index, mette a disposizione informazioni preziose per comprendere quali siano le differenti velocità di sviluppo, dal punto di vista dell’inclusione digitale in Europa e offre naturalmente una fotografia attendibile anche della situazione italiana. Secondo l’ultimo Rapporto, in Italia gli utenti di Internet rappresentano il 69% della popolazione contro l’81% della media Ue e analizzando tutti i parametri (tra gli altri, connettività, capitale umano e integrazione delle tecnologie digitali) il posto occupato dall’Italia è il ventiquattresimo  su ventotto. Dall’altro lato emerge dai dati Istat (2019) che il 96% delle famiglie con almeno un minore ha accesso ad Internet da casa.

Secondo le raccomandazioni dell’American Academy of Pediatrics, il tempo che i bambini passano davanti agli schermi dovrebbe limitarsi a un’ora al giorno per i piccoli dai 2 ai 5 anni; inoltre, si dovrebbero porre “limiti coerenti” sul tempo da trascorrere davanti allo schermo e sulle tipologie di media utilizzate per i bambini dai sei anni in su.

Nella Silicon Valley da tempo i figli dei dipendenti dei colossi dell’informatica sono i primi ad essere controllati e limitati nell’uso dei dispositivi.

Dibattito apertissimo, dunque, mentre infatti la pandemia ha obbligato le scuole di ogni grado, in Italia e ovunque nel mondo, a scegliere le soluzioni più adeguate alla didattica a distanza, sullo sfondo restano i dati del digital divide e i tanti quesiti sull’uso sempre più intenso delle tecnologie.