Un oroscopo per la scuola

Un oroscopo per la scuola

di Maria Grazia Carnazzola

1. Per cominciare.

La coerenza delle proprie idee è senz’altro un valore, ma quando governi devi affrontare la complessità. Quindi bisogna avere l’intelligenza e anche il coraggio di cambiarle, le idee” Così il presidente del Consiglio, intervenendo all’Assemblea plenaria degli Stati Generali del Movimento Cinque Stelle qualche tempo fa. Un particolare mi ha colpito: la notizia è spesso comparsa corredata dalla foto di Conte accanto al ministro Azzolina. Una legittimazione del cambiare idea avvenuto da marzo ad oggi, dalla centralità innovativa della “Dad” alla insostituibilità dell’interazione in presenza, socializzazione compresa?

2. Per cambiare idea, bisogna averla un’idea.

Presupposto indispensabile: per cambiarla, un’idea, bisogna prima averla. Così come bisogna avere la visione dei possibili cambiamenti che potrebbero essere prodotti dall’idea successiva. E qui sta il punto: quale idea di scuola, per quale idea di società, per quale idea di futuro. Il tema della formazione dei giovani, in questa età planetaria, postula soluzioni inedite che, al di là della diversa organizzazione scolastica e dei saperi, richiede una radicale riforma del modo di pensare, di organizzare e di utilizzare i saperi disciplinari per affrontare le incertezze. La conoscenza si basa su un “sistema di riferimento formato dalle scienze costituite al momento considerato” sosteneva Piaget. Accogliere e condividere il senso del rischio, anche a scuola, significa guardare gli accadimenti e le crisi economiche, sanitarie, ecologiche e culturali, affrontando l’incertezza diffusa per poter continuare a vivere, e non limitarsi a sopravvivere, in attesa di ricominciare. Il più grande torto che possiamo fare ai giovani- che rischiano di perdere due anni di scuola- e a noi stessi, è credere e far credere che tutto tornerà come prima: significherebbe perdere un pezzo di vita che non ci verrà data indietro. Ben venga la scuola in presenza, se abbiamo chiaro in presenza per fare cosa, cercando la soluzione organizzativa migliore per questo momento, con tutte le sicurezze che ci possiamo permettere perché, lo sappiamo, la relazione facilita e amplifica l’apprendimento.

Così come ben venga, quando necessario e in un disegno pianificato e coordinato delle due modalità, l’istruzione a distanza, che potrebbe permettere la diversificazione dei tempi di insegnamento per rispondere ai ritmi personali di apprendimento. Siamo preparati per farlo? La situazione che si è venuta a creare a seguito della pandemia è nuova, inedita e ineludibile, sostiene M. Ceruti, e porta con sé disordine e stress organizzativo, genera incertezza. Ma nell’incertezza bisogna scegliere, non abbiamo oroscopi.

3. La scuola richiede cornici di senso e continuità di interventi.

Penso che ci sia una coscienza non proprio chiarissima della qualità degli stravolgimenti prodotti nella vita, nelle relazioni, nelle famiglie, nell’economia, nel lavoro, nell’informazione, negli sviluppi e nei ristagni delle tecnologie e del loro utilizzo, dal covid-19. Della quantità degli stravolgimenti c’è una consapevolezza maggiore. Succede anche a scuola. Si sa delle lezioni in presenza, a distanza, degli alunni con disabilità che stanno con l’insegnante di sostegno, con l’insegnante ed altri compagni, quasi mai gli stessi, l’orario delle lezioni… Ma non ci si rende conto di quanto e come è cambiata e cambia la scuola qualitativamente. A penalizzare le nuove generazioni non sarà solo il dover fruire delle lezioni a distanza, ma è la mancanza di un progetto unitario nelle finalità e negli obiettivi, anche se non necessariamente nelle strutture e negli strumenti, per la loro educazione, istruzione, formazione. A marzo scorso l’istruzione a distanza sembrava l’occasione per innovare la scuola, le pratiche didattiche, per migliorare l’insegnamento e gli apprendimenti; a giugno/luglio gli esiti delle valutazioni di fine anno e degli esami- che vedevano un discostamento delle valutazioni verso i punteggi più alti rispetto agli anni precedenti- confermavano la convinzione. La mia posizione, pur comprendendo la gravità della situazione e la necessità di tenere agganciati bambini e ragazzi in qualsiasi modo, era decisamente diversa come, mi risulta, quella di molte persone di scuola. Ora, sempre tenendo conto della situazione, che pare esattamente come quella di marzo e dei mesi seguenti, la parola d’ordine è: tutti a scuola in presenza; senza “presenza” i bambini e i ragazzi corrono gravi rischi, il futuro del paese è in pericolo, i giovani sono in pericolo. Il ragionamento potrebbe anche essere accolto, ma non viene mai esplicitato perché senza scuola in presenza il futuro è in pericolo, si accenna all’importanza dello stare insieme in un luogo protetto. Ma per arrivarci, al luogo protetto, bisogna usare i mezzi di trasporto, gestire autonomamente tempi di attesa, rispettare, con la consapevolezza e l’autonomia correlate alle diverse età, le regole del distanziamento, dell’igiene, della sicurrezza. C’è stato tempo di pensarci e di costruire un progetto di fattibilità da marzo a settembre. Non è stato fatto: abbiamo fallito. Ben vengano i consistenti finanziamenti al settore scolastico, ripetutamente sbandierati per cui non saprei dire a quanto ammontino, ma gli investimenti non possono rispondere al principio dello status quo. Arriverà una crisi, questa volta legata al mondo dell’economia- ci dicono gli esperti- che non sarà sostenibile con gli strumenti che possediamo. Allora, i soldi non per tornare alla scuola di prima, ma per pensare e realizzare una scuola che fondi una nuova idea di società, di sviluppo, di senso del limite…dove l’inatteso, che sia una pandemia o una crisi economica, è la conseguenza dell’accelerazione e dell’interconnessione proprie del nostro tempo.

4. L’emergenza come opportunità.

Se comprendiamo che dall’ “emergenza”, intesa come momento di difficoltà di modelli e di valori, può emergere un disegno di educazione organico e articolato che permetta alle giovani generazioni di imparare ad affrontare le esperienze -del presente e del futuro- con la consapevolezza degli inevitabili errori e inciampi, delle illusioni, organizzando e riconducendo a sistema le riflessioni umanistiche e scientifiche sulla condizione umana per una comprensione vera, intellettuale e umana. “Ogni creazione-sostiene Morin- appare un errore in rapporto al sistema, prima di diventare verità di un sistema trasformato”. Tutti parliamo di responsabilità, in continuazione, ma sembriamo dimenticare che a essere responsabili si impara e che finchè continueremo a pensare ai nostri giovani come a qualcuno che deve essere solamente “accudito”, di che educazione stiamo parlando? “Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi da pensiero da me. Purché sia in grado di pagare, non ho più bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”. Così Kant nel 1784. I giovani si riversano nei centri commerciali se le lezioni non si svolgono in presenza, ma lo fanno anche all’uscita dalla scuola. La responsabilità si fonda anche fiducia, dovremmo imparare a fidarci dei ragazzi e non solo chiedere a loro di fidarsi di noi adulti. Non possiamo continuare, per dirla ancora con Kant, a tenerli per le bretelle anche quando non ne hanno più bisogno. L’autonomia è il contrario dell’eteronomia.

Mi auguro che si possa tornare alle lezioni in presenza, anche se ritengo difficile ancora per molto, in presenza per tutti in contemporanea. È importante che la scuola, e i docenti che sono la chiave di volta per qualsiasi cambiamento, riesca a far emergere un nuovo paradigma di insegnamento- apprendimento, sapendo, come sosteneva Einstein, che quando sarà emerso bisognerà pensare anche al modo per governarlo, coniugando la formalizzazione dei problemi della complessità contemporanea (la visione transdisciplinare) con l’apporto che i fondamenti di ciascuna disciplina di insegnamento può offrire. È un modo per evitare la frammentazione dei saperi che porta con sé la perdita di senso e la conseguente deresponsabilizzazione.

5. Per concludere.

La scuola è nata con gli Stati nazionali per educare cittadini, quindi l’obiettivo è culturale e la finalità è pedagogica: la socializzazione a scuola non è un generico insieme di relazioni, è una socializzazione culturale, la costruzione, attraverso gli apprendimenti, di una cooperazione anche mentale che permette di inserirsi in un contesto, quale questo è o sarà, con comportamenti che si fondano sulle conoscenze, sulla ragione, sulla solidarietà e su una equilibrata affettività. Può essere l’occasione per riconsiderare che la scuola può essere strumento di crescita sociale solo se comprende le trasformazioni in atto e cerca di gestirne la complessità, affrontando la crescita dei problemi e delle deleghe educative. Le tecnologie dell’informazione servono se sappiamo come usarle: saper usare il digitale serve a poco se non si possiede una cultura che permette di costruire relazioni.

Forse faremmo un buon lavoro se cercassimo di capire come e dove si sono commessi degli errori, non tanto per attribuirne la responsabilità, ma per non commetterli di nuovo. Il discorso può sembrare tecnico, ma è politico: c’è il rischio che tutte le megaoperazioni intraprese o annunciate producano un impatto molto basso sulla ripresa dell’attività in presenza e sulla gestione del cambiamento del sistema scuola: la chiave di volta sono i docenti e la mancanza di strumenti, materiali ma soprattutto concettuali, per adempiere alle nuove richieste può generare disorientamento e insicurezza. Non si può rinnovare la metodologia adottata senza porre mano alla concezione dei saperi e del sapere che quella metodologia vuole mediare: la qualità della didattica si pone tra metodo e contenuti culturali.