Con le scuole chiuse più diseguaglianze tra gli studenti italiani

da la Repubblica

Tito Boeri e Roberto Perotti

L’ITALIA è il Paese in cui le scuole sono rimaste chiuse più a lungo durante la prima ondata: 105 giorni contro i 67 della Spagna, i 60 del Regno Unito e della Francia, i 53 di Germania, i 48 dell’Olanda. Altri Paesi non hanno mai chiuso totalmente le scuole. Mezzo anno scolastico se ne è andato senza alcun recupero estivo.

La scuola italiana si è trovata impreparata di fronte alla seconda ondata del coronavirus: nessun piano di rotazione degli alunni in presenza, nessuno scaglionamento degli ingressi, potenziamento dei mezzi pubblici rimasto sulla carta (secondo la ministra De Micheli sarebbe stato speso solo un terzo dei 300 milioni stanziati per potenziare i trasporti pubblici locali).

Non c’è stata una campagna per informare i giovani che tornavano a scuola sui rischi di contagio cui esponevano le loro famiglie non applicando rigidamente le comuni precauzioni su distanziamento e mascherine. Gli studenti delle superiori sono stati addirittura lasciati liberi di togliersi le mascherine una volta seduti in aula. Forse si pensava che ci avrebbero pensato i famosi banchi a rotelle, in gran parte mai arrivati, a deviare il viaggio del virus nell’etere.

Le scuole sono focolai significativi? È difficilissimo rispondere a questa domanda. La rivista Wired ha recentemente pubblicato i dati, in possesso del Ministero, su studenti docenti e personale positivi al test in 2546 comuni sui 6700 in cui ha sede una scuola.

Non è chiaro come siano stati selezionati gli istituti coperti dalla rilevazione (quelli con più contagiati?) e non si sa quanto i contagi siano cambiati nel tempo (sono cresciuti prima negli istituti che nella popolazione in generale durante la seconda ondata?).

Impossibile stabilire se un contagio è avvenuto a scuola, negli incontri nelle immediate vicinanze, sui mezzi pubblici, a casa, o altrove. Per esempio, non sappiamo sei i docenti che hanno svolto attività in aula sono positivi in percentuale maggiore della media delle persone dello stesso sesso e della stessa classe di età.

Un dato sembra però indicare che l’apertura delle scuole abbia avuto un ruolo nella seconda ondata: come mostrato da Salvatore Lattanzio su lavoce.info, una semplice analisi dei grafici mostra che il numero dei contagi nella popolazione in generale si impenna due settimane dopo la riapertura delle scuole, sia dove hanno riaperto il 14 settembre che dove hanno riaperto il 24.

Nel dubbio, le scuole sono state le prime a chiudere di fronte alla recrudescenza della pandemia. E c’è da scommettere che saranno le ultime a riaprire. Compatto il fronte dei presidenti delle Regioni nell’allontanare il più possibile la riapertura delle scuole e nel promuovere invece la riapertura dei grandi centri commerciali scatenando, come prevedibile, grandi assembramenti.

Siamo coscienti che non sono decisioni facili e che ogni scelta ha dei pro e dei contro.

Tuttavia, nel caso della chiusura delle scuole l’impressione è che in Italia ci sia poca consapevolezza dei contro. Anche in questo caso l’assenza di dati, il buio in cui siamo stati colpevolmente tenuti, non è d’aiuto. Per fortuna sappiamo qualcosa dall’esperienza di altri Paesi. E quel che sappiamo dovrebbe farci riflettere.

Un’indagine sull’uso del tempo svolta in Germania (si veda Grewenig su voxeu.org) documenta come durante il lockdown gli studenti che prima della chiusura avevano i voti più bassi hanno passato tre ore in più al giorno a guardare la tv, a fare giochi sul computer o sui social media e hanno ridotto di quattro ore le attività di studio. Questi cambiamenti sono avvenuti in modo molto meno marcato fra gli studenti che avevano in partenza la miglior performance scolastica.

Tutto ciò non può che portare a un aumento della dispersione scolastica, come confermato da uno studio sui risultati degli esami nella scuola primaria in Olanda (Engzell e altri): quasi tutti gli studenti hanno peggiorato il proprio livello di apprendimento durante il lockdown, ma la perdita è stata di più del 50% più marcata fra gli studenti che avevano genitori meno istruiti.

Non molto diversi i risultati in Belgio (Maldonado e De witte, 2020) dove la chiusura delle scuole è stata solo parziale. I risultati di questi studi non sono sorprendenti: gli studenti che vanno peggio a scuola sono in genere anche quelli che hanno meno autodisciplina; famiglie con basso livello di istruzione sono di minore aiuto ai figli durante l’apprendimento da casa; le condizioni abitative più difficili di certo non aiutano; infine ci sono le barriere linguistiche tra i figli di immigrati. Quello che colpisce è però l’entità dei fenomeni.

Non avendo a disposizione i dati di cui sopra non ci sentiamo di proporre quando e come dovrebbero riaprire le scuole. Quello che invece ci sentiamo di chiedere è di smettere di decidere al buio, tenendo ancor più all’oscuro chi dovrebbe giudicare queste scelte. Si rendano pubblici i dati raccolti dal ministero sui contagi, sulle assenze e sulle quarantene nelle scuole, dati che i dirigenti scolastici devono obbligatoriamente comunicare al ministero.

Si facciano rilevazioni sull’uso del tempo anche al di sotto dei 18 anni (sorprendente che l’indagine svolta dall’Istat a maggio non ci abbia pensato). Si facciano appena possibile test volti a valutare i gap formativi accumulati in questi mesi e l’aumento della dispersione scolastica. Serviranno se non altro a definire meglio le attività di recupero e a selezionare chi dovrà essere prioritariamente coinvolto in queste attività.