M. Righetto, I prati dopo di noi

Righetto, come finire e come iniziare

di Antonio Stanca

   A Settembre di quest’anno il giornalista e scrittore padovano Matteo Righetto ha pubblicato, con Feltrinelli nella collana “Narratori”, I prati dopo di noi.

   Nato a Padova nel 1972, Righetto a Padova si è laureato in Lettere ed è docente di Letteratura Italiana presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha iniziato a scrivere su giornali mostrandosi interessato a problemi di attualità culturale e sociale, ha esordito come scrittore nel 2012 col romanzo Savana Padana e tra il 2017 e il 2019 ha scritto la “Trilogia della Patria” composta dai romanzi L’anima della frontiera, L’ultima patria e La terra promessa. E’ stata un successo, è stata tradotta in molte lingue e ha fatto di Righetto uno scrittore molto apprezzato. Ha scritto anche per il teatro e riduzioni cinematografiche hanno avuto alcuni suoi romanzi. In questi è diventato facilmente riconoscibile poiché gli ambienti, i personaggi, le situazioni, le intenzioni si ritrovano, ritornano. Il rapporto tra l’uomo e la natura è una componente costante delle sue narrazioni, un rapporto che diventa uno scambio vero e proprio, una comunicazione, un’intesa, una lingua in comune. E costante è pure il proposito dell’autore di compiere, scrivendo, un’azione di educazione, di formazione, di attribuire a quanto rappresentato una funzione d’istruzione.

  Ne I prati dopo di noi succede ancora di trovarsi in un ambiente montano, tra le Alpi e con personaggi solitari. Stavolta sono tre, il vecchio Johannes, il giovane Bruno e la piccola Luni. Tutti vengono da tristi esperienze familiari: Johannes, che vive solo tra le montagne, ha perso la moglie e due figli poiché devastato dall’acqua e dal fango era stato il loro villaggio in seguito ad una frana; Bruno è nato e cresciuto con misure eccessive, era un gigante già da ragazzo, era considerato un tonto e d’allora era stato affidato dai familiari ad un convento di benedettini, dove sarebbe stato lasciato per sempre; Luni è una bambina molto sveglia ma sordomuta. Anche lei è stata abbandonata dalla famiglia in un orfanotrofio.

   Sole sono rimaste queste persone tranne Bruno che, per un certo periodo di tempo, troverà nel monaco Isak un amico, un compagno capace di capirlo, riabilitarlo da quella stoltezza che gli era stata attribuita e indicargli la via della salvezza da un mondo che ormai è finito poiché vittima di quei guasti, di quella rovina che i tempi moderni, “i nuovi barbari” hanno comportato e che nel romanzo viene raffigurata con fiamme altissime che avanzano in un paesaggio diventato quasi completamente arido, deserto. Questo sarà l’ambiente, sarà uguale ovunque e in esso lo scrittore farà vedere i suoi personaggi che fuggono dalle fiamme per salvarsi poiché i soli che lo meritano. I simboli diventano i tre della parte giusta dell’umanità, di quella che di fronte alla fine del mondo potrà sfuggire alla morte. Un mondo devastato è da essi percorso, un mondo nel quale Righetto li mostra mentre procedono, prima da soli e poi insieme, verso una meta collocata tra le cime dell’Ortles, verso l’unico posto dove la vita c’è ancora perché ancora c’è acqua, ancora c’è verde. Vi giungeranno, gli sforzi richiesti dal lungo e faticoso percorso saranno premiati ma non potranno evitare l’ennesima devastazione che non risparmierà nemmeno quel posto.

   Si conclude il romanzo senza la possibilità, neanche per i giusti, di salvarsi dal “Grande Rivolgimento” che ha investito l’universo e lo ha fatto finire. Dopo di loro, però, riprenderanno a verdeggiare gli alberi, ritorneranno i fiori, ricompariranno i prati.

  Un messaggio sembra contenere questo romanzo del Righetto: sembra voglia mostrare quanto si debba soffrire per poter migliorare, come si debba finire e come iniziare.