L’insostenibile pesantezza dell’insegnare

L’insostenibile pesantezza dell’insegnare oggi

di Laura Bertocchi e Mario Maviglia [1]

Il lavoro dell’insegnante si è andato viepiù caratterizzando per un eccesso di faticosità. Sono vari i fattori che hanno determinato tale stato, anche se va detto che un certo livello di faticosità è insito in questa professione, come in tutte le professioni che trovano il loro fondamento nel rapporto con gli altri e sulla relazione. Nel caso specifico dell’insegnante gli “altri” sono costituiti in primo luogo da soggetti in fase di evoluzione (gli studenti), ma anche da altri adulti (colleghi, dirigenti, altro personale, genitori degli alunni). L’incontro con l’altro è sempre fonte di sollecitazioni, confronti, stimoli, ma anche di potenziali disagi, incomprensioni, ansie. Nel caso degli studenti, ad esempio, l’insegnante deve tenere continuamente aggiornata la sua preparazione professionale per meglio conoscere e decodificare i comportamenti e le caratteristiche degli allievi, ma nel contempo deve curare gli aspetti culturali, didattici e metodologici. È comunque fuori di dubbio che oggi il mestiere dell’insegnante presenta elementi di “pesantezza” una volta affatto sconosciuti. Ne analizziamo alcuni.

1. L’offerta formativa

La scuola ha perso quella centralità che aveva un tempo riguardo l’acquisizione di conoscenze e competenze. Oggi, accanto alla scuola, vi sono innumerevoli altre agenzie che diffondono dati, notizie, conoscenze con un ritmo molto più frenetico rispetto alla scuola e spesso in modo più accattivante. Se consideriamo l’acquisizione di mere conoscenze, in fondo i nostri studenti oggi potrebbero fare a meno di frequentare la scuola in quanto trovano in rete tutto ciò che è necessario sapere. Ovviamente queste conoscenze sono frammentarie, isolate, debordanti e infatti uno dei compiti principali che oggi il docente si trova ad affrontare (o che dovrebbe affrontare) non è tanto (o non solo) l’introduzione di nuovi contenuti, ma la loro organizzazione in una trama organica, in un orizzonte di senso. Non tutti i docenti sono preparati a questo, in quanto la loro formazione professionale è stata indirizzata più a fornire contenuti disciplinari che a offrire chiavi di lettura della realtà attraverso le discipline.

Nel corso degli anni la scuola è stata sempre più sollecitata a competere con le agenzie esterne (anche e soprattutto virtuali) nella trasmissione delle conoscenze piuttosto che nella loro organizzazione. Ne è scaturito un ampliamento dei curricula, quasi una superfetazione, che porta inevitabilmente a privilegiare l’aspetto trasmissivo del sapere piuttosto che quello costruttivo e cooperativo. Sembra essersi attenuato il dibattito di qualche anno fa sulla individuazione dei nuclei fondanti delle discipline come antidoto al sovraccarico contenutistico dei curricula. Forse le scuole sono ancora troppo piene di contenuti, ma povere di collegamenti tra contenuti. Questa crescita esponenziale dell’insieme delle conoscenze rischia di travolgere l’insegnante, in affanno nell’identificare i contenuti essenziali, irrinunciabili. La stessa sollecitazione (pur necessaria) a lavorare per competenze ha ancor più disorientato gli insegnanti, soprattutto se si considera che l’organizzazione didattica è rimasta frammentata per singole discipline e i momenti di condivisione e progettazione comune tra docenti sono decisamente insufficienti a garantire un dialogo costante tra docenti e dunque tra discipline. Di fatto molti docenti si sono rifugiati in forme di progettazione alquanto spurie, trasformando i vecchi obiettivi in competenze ma di fatto lasciando inalterato l’impianto complessivo della progettazione didattica e gli approcci metodologici. Emblematico appare, sotto questo profilo, lo scarso ricorso che si fa al lavoro cooperativo e di gruppo. Di fatto gli studenti italiani non sono in grado di lavorare in gruppo, come emerge anche indagini internazionali (OCSE-PISA, 2018), facendo sorgere il legittimo sospetto che la scuola tenda ad enfatizzare il lavoro individuale e la competizione (come probabilmente avviene tra i docenti).

A rendere più complessa la situazione si aggiunga che le classi, pur organizzate per fasce di età, sono diventate viepiù complesse e di difficile gestione anche sul piano didattico. A fronte di una continua sollecitazione ad operare in una dimensione di individualizzazione e personalizzazione gli insegnanti si trovano spesso a dover fare i conti con classi oltremodo numerose e con livelli di apprendimento degli studenti molto diversificati.

2. A cosa serve oggi la scuola (e a cosa serve l’insegnante)

Abbiamo detto sopra che oggi i ragazzi possono acquisire una mole impressionante di dati, informazioni e conoscenze a prescindere dalla scuola: basta accendere un computer o utilizzare un telefonino; ma quando e dove hanno la possibilità di dare un senso a questa massa di dati? Quando possono sistematizzare le conoscenze in quadri di riferimento? Se non viene fatta questa operazione le nozioni rischiano di rimanere appiccicate alla memoria, senza connessioni tra loro, come una insalata mentale mal amalgamata. La scuola può aiutare lo studente in questo processo di sistematizzazione non solo attraverso l’intervento dell’insegnante, ma anche mediante la condivisione della vita scolastica con i compagni che consente di mettere a confronto opinioni, pensieri, idee e comportamenti diversi. È evidente che questo lavoro di trama e correlazione tra le conoscenze è molto più faticoso che non muoversi all’interno della singola disciplina in modo atomistico; appare oggettivamente più semplice definire un itinerario di presentazione dei contenuti tutto giocato all’interno della propria disciplina. Si può legittimamente obiettare che un proficuo dialogo tra discipline è possibile solo se ognuna di esse è conosciuta nelle sue strutture portanti, e questo giustifica l’attuale organizzazione didattica così fortemente basata sulle classi di concorso. In realtà l’aspetto più debole dell’attuale organizzazione didattica della scuola italiana (soprattutto della secondaria di 1° e 2° grado) è che non viene dato adeguato spazio a far incontrare le discipline attraverso progetti specifici che pongano gli studenti in situazioni di problem solving all’interno delle quali le ipotesi di soluzione fanno riferimento necessariamente a più discipline (come, peraltro, di solito avviene nella vita reale). Solo per questa esigenza basilare la scuola ha ancora senso, anche se tutto ciò presuppone una formazione diversa degli insegnanti che tenga insieme la visione disciplinare con una apertura interdisciplinare.

L’altra ragione risiede nel fatto che la scuola può essere, insieme alla famiglia, l’agenzia dove in modo più consapevole e strutturato può essere perseguito l’obiettivo di formare persone responsabili, solidali e democratiche. La scuola infatti è un contesto dove i ragazzi possono sperimentare e vivere in modo consapevole le regole della convivenza civile, se tutto ciò viene visto non come un adempimento burocratico da parte degli stessi operatori scolastici, ma come un obiettivo di forte rilevanza formativa e sociale. In fondo la stessa disciplina dell’educazione civica, recentemente introdotta nel nostro ordinamento scolastico con la legge 92/2019, va considerata soprattutto sotto questo profilo e non tanto come l’inserimento di nuovi contenuti di studio. Non è un caso che l’art. 1 specifica che “L’educazione civica contribuisce a formare cittadini responsabili e attivi e a promuovere la partecipazione piena e consapevole alla vita civica, culturale e sociale delle comunità, nel rispetto delle regole, dei diritti e dei doveri”. Ma anche in questo caso va ribadito che questi obiettivi sono perseguibili se la scuola in primo luogo si propone come luogo di esercizio della democrazia e della convivenza. La valenza formativa di questa “disciplina” di studio non sta tanto nei contenuti che veicola attraverso le 33 ore annuali previste (pur importanti), ma nella capacità degli insegnanti ad allestire contesti di apprendimento e di vita improntati ai principi enunciati dalla legge.

In questo caso la faticosità del fare scuola può derivare dal dover affermare valori e comportamenti non coerenti con quanto esposto sopra e non sempre presenti nelle comunità in cui si opera. Non si tratta di un confronto dialettico, ma spesso di una vera e propria contrapposizione.

3. La pedagogia, questa sconosciuta

            Dire che gli insegnanti devono saper insegnare è un pleonasmo. Il problema è che per lungo tempo si è creduto (e in parte si crede ancora adesso) che per saper insegnare occorra sapere, ossia conoscere la disciplina. E questo è lapalissianamente vero; ma il sapere disciplinare da solo non basta per produrre apprendimento. Eppure la formazione dei docenti (soprattutto nella scuola secondaria di 1° e 2° ciclo) è tutta orientata alla padronanza del sapere disciplinare, salvo l’infarinatura che viene data nell’ambito dei cd 24 CFU indispensabili per poter partecipare ai concorsi e insegnare. C’è da chiedersi, ad esempio, in quale momento del corso di studi universitario uno studente di matematica (o di qualsiasi altra disciplina) venga a contatto e possa fare un training specifico in materie quali didattica della disciplina, metodologia, aspetti psicopedagogici, teorie dell’apprendimento, valutazione ecc. Il futuro insegnante scoprirà direttamente nel lavoro d’aula che tutti questi aspetti sono indispensabili (insieme alla conoscenza disciplinare, ovviamente) per poter insegnare in modo adeguato, ma non ha gli strumenti professionali per gestirli in modo soddisfacente.

            La mancanza di una robusta preparazione psicopedagogica e didattica determina un forte disagio nei docenti nella gestione della classe e nella cura dei processi di insegnamento-apprendimento. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che il lavoro del docente, malgrado quarant’anni di organi collegiali, di fatto si svolge in una dimensione solitaria, a tu per tu con la classe, come abbiamo osservato prima, si coglie ancor più il senso del disagio della faticosità magistrale.

4. L’incontro/scontro con i genitori

Molto tempo è passato dal DPR 416 del 1974 che ha istituito gli organi collegiali, con l’obiettivo di allargare la partecipazione anche delle famiglie alla vita della scuola.

Nel tempo l’interpretazione di questa partecipazione ha conosciuto una notevole evoluzione, sia in termini normativi che pedagogici, attraverso la valorizzazione dell’identità del singolo. L’introduzione poi dell’immagine di scuola-azienda, in cui gli studenti sono i “clienti” finali, ha segnato – spesso in maniera negativa – la relazione tra docenti e famiglie.

L’art. 2 dello Statuto delle studentesse e degli studenti (DPR 249/1998) sottolinea che essi hanno diritto ad una “formazione culturale e professionale qualificata che rispetti e valorizzi (…) l’identità di ciascuno” e che questa formazione di qualità è favorita dall’instaurarsi di un proficuo dialogo tra docenti e famiglie.

I problemi nascono però proprio da questa affermazione generalmente condivisa e condivisibile, almeno sulla carta. La difficoltà maggiore è nell’individuare le rispettive competenze e i limiti che ad esse si accompagnano.

Genitori sempre più colti ed istruiti talvolta fraintendono il senso della partecipazione, sconfinando in quelle che sono competenze di natura didattica – come la programmazione o le metodologie, esclusive del docente -, nell’attuazione della libertà di insegnamento prevista dall’art.33 della Costituzione e ripresa nel contratto della scuola.

Da parte dei docenti è necessaria grande chiarezza e trasparenza negli obiettivi, nei metodi, nelle valutazioni. Gli studenti e le loro famiglie devono essere resi edotti dei percorsi che ogni insegnante intende intraprendere.

Ma ovviamente questo non basta.

In una società come la nostra, in cui il fallimento è percepito solo come tale e mai come occasione di rilancio, forse la sfida più ardua che ogni insegnante si trova, prima o poi, ad affrontare è aiutare uno studente e la sua famiglia ad accettare che tutti abbiamo dei limiti e che la caduta può far parte del percorso. Per riuscirci sono necessarie grande empatia e la capacità, da parte del docente, di creare una relazione di fiducia. Obiettivo, quest’ultimo, reso ancor più difficile dalla scarsa considerazione che, spesso, il nostro Paese ha della scuola.

5. L’insegnante nella giungla della burocrazia

Da qualche decennio a questa parte, nella vita (lavorativa) di un docente c’è sempre meno scuola. Scuola intesa come insegnamento, relazione con i colleghi e gli studenti, approfondimento della propria disciplina e delle innovazioni metodologiche e pedagogiche.

Ed è un gran peccato, perché il cuore dell’insegnamento sta proprio in queste azioni.

Il pesante apparato burocratico che grava sulle istituzioni scolastiche appare già evidente dal proliferare di sigle incomprensibili a chiunque non appartenga al nostro mondo: PTOF, RAV, CLIL, PEI, PDP, PFP, BES, DSA, DAD, DDI… solo per citarne alcune. Naturalmente a queste sigle corrispondono decine di moduli da compilare, di format da riempire e di riunioni da fare.

La burocrazia non riesce ad essere al servizio della didattica e spesso ha perso la sua funzione precipua di rendere uniformi ed agili alcune procedure. Al contrario, spesso rigida e farraginosa, toglie efficacia ed efficienza.

Se una precisa e puntuale rendicontazione delle proprie azioni è fondamentale garanzia di trasparenza, la modalità con la quale la documentazione è concepita porta molto spesso i docenti ad una compilazione meccanica, burocratica e poco significativa, il cui intento è quello di liberarsi il più presto possibile di documenti percepiti come ingombranti e poco utili, per tornare a lavorare su ciò che conta davvero: la didattica.

Restando in tema di didattica, sarebbe auspicabile che anche la burocrazia riuscisse a concentrarsi sui nuclei essenziali, senza inutili ripetizioni e lungaggini.

In questo senso, i dirigenti scolastici possono alleviare, almeno in parte, l’appesantimento burocratico, individuando le articolazioni del Collegio Docenti più adeguate a discutere determinati progetti, rimodulando quelle che si rivelano superflue, favorendo la predisposizione e la diffusione di indicazioni e format che guidino alla compilazione di pochi e fondamentali documenti.

La speranza è che il tanto auspicato snellimento burocratico diventi prima o poi realtà, permettendo a tutti i docenti di concentrarsi con rinnovato entusiasmo sulla didattica e su quello è il cuore e il fine ultimo del nostro lavoro: garantire il successo formativo ad ogni studente.

6. La DaD

La scuola italiana, con tutti i suoi ritardi e le sue arretratezze, è stata investita dalla pandemia come un treno lanciato a folle velocità e tutto ciò su cui per anni si è tergiversato, come l’adeguamento delle dotazioni tecnologiche e delle competenze informatiche dei docenti, è diventato un’urgenza indifferibile.

In linea generale la scuola ha retto il colpo e docenti insospettabili, che sino al giorno prima guardavano con diffidenza anche il registro elettronico, sono oggi perfettamente capaci di destreggiarsi tra Meet, Classroom, Youtube, moduli Google e quant’altro. Al di là dei mezzi, però, ciò da cui è più difficile separarsi sono modalità e metodologie tradizionali.

26 febbraio 2020: da un giorno all’altro ci siamo trovati confinati in casa ed è stato necessario reinventarsi un modo nuovo di fare scuola.  La DAD – didattica a distanza – ha avuto il grande pregio di continuare a garantire il diritto all’istruzione anche durante la pandemia, cosa impensabile anche solo 20 anni fa.

In questi dieci mesi siamo passati da periodi di didattica interamente a distanza, ad altri di alternanza presenza-distanza. Abbiamo monitorato la risposta degli studenti, rivedendo e ricalibrando in continuazione orari, pause e riduzioni, cercando sempre la soluzione più accettabile. Questo, per un docente, significa modificare costantemente la propria programmazione, rivedendo obiettivi e scelte didattiche. È pur vero che la flessibilità guida da sempre il nostro lavoro, ma oggi, la continua mutevolezza di un orizzonte a cui non eravamo abituati rende tutto più complesso.

Attraverso lo schermo, siamo entrati nel quotidiano di tante famiglie e loro nel nostro. Perché la DAD significa anche fermarsi davanti ad un computer, mentre tutto intorno a te continua a muoversi. Durante il lockdown tutti i componenti della famiglia erano a casa, con le diverse esigenze di ognuno, gli spazi ristretti, i rumori, le connessioni che talvolta saltano. Questo è vero per tutti, anche per i docenti che, nei loro spazi intimi, forse diventano meno istituzionali. Ho imparato che entrare così nella vita dei miei studenti va fatto in punta di piedi, con delicatezza, senza giudizio e pregiudizio, perché non tutte le famiglie sono uguali ma, certo, nessuna è perfetta.

La sfida più ardua è stata proprio questa: riuscire a ricreare una relazione significativa, fatta di vero interesse e fiducia, anche a distanza. Farsi presenza dove c’è assenza.

Responsabilizzare ognuno di loro, cercando di insegnare che certamente da casa è più facile copiare, barare, nascondersi dietro alla scusa di una connessione che funziona male è l’impegno di ogni giorno, così come capire – noi e loro – che la valutazione, soprattutto in itinere, non è fine a se stessa, non è un premio o una punizione, ma ci aiuta a fare il punto della situazione, ad individuare ciò che è stato compreso e interiorizzato o, al contrario, ciò che non ha funzionato per trovare soluzioni migliori. E che allora la DAD sia almeno l’occasione tanto auspicata per rivedere il valore fondamentale della valutazione.

Conclusioni

Ci sembra che gli elementi descritti sopra definiscano la fatica dell’insegnare. Oggi i docenti sono chiamati a interpretare in maniera sempre nuova problemi antichi: in primo luogo quelli dei processi di apprendimento e di socializzazione, e questo può creare fatica e ansia. Non dobbiamo trascurare che nell’azione educativa occorre lavorare non solo sugli oggetti culturali (le discipline, i contenuti d’insegnamento), ma anche sui soggetti, sulle persone, sulle loro modalità di porsi nei confronti degli oggetti, della realtà, della conoscenza. Ed è forse questo l’aspetto più faticoso, ma anche più affascinante, di questo mestiere.


[1] L’impostazione complessiva dell’articolo è stata condivisa dagli autori; nello specifico M. Maviglia, già dirigente tecnico, ha scritto i paragrafi 1-2-3, L. Bertocchi, docente scuola secondaria 2° grado, i paragrafi 4-5-6.