Orari mutevoli per una assenza costante

Orari mutevoli per una assenza costante

di Alessandra Condito

Nella giornata di ieri, la stessa in cui, a sera tarda, il governo decideva il posticipo della didattica in presenza dal 7 all’11 gennaio per le scuole superiori, pubblicavo sul sito della scuola questa immagine.

Salvador Dalí, La Persistenza della Memoria, 1931

Dovendo divulgare i nuovi orari in vigore dal 7 gennaio a seguito delle disposizioni prefettizie, la tela di Dalí mi sembrava particolarmente evocativa.

Non sono una esperta d’arte e non mi avventurerò in letture simboliche dell’opera, ma confesso che sono stata tentata di sottotitolare l’immagine con queste parole: orari mutevoli per una assenza costante.

Del resto non occorreva essere fini analisti per immaginare che, dopo il lavoro che ci ha visti impegnati, durante le festività natalizie, a riformulare gli orari di tutte le classi per contribuire alla riduzione della popolazione scolastica sui mezzi pubblici, tutto sarebbe stato, ancora una volta, posticipato se non addirittura reso completamente vano.

Sia ben chiaro, non è del lavoro svolto dalla scrivente, dallo staff e dalla commissione orario tra il Natale e il Capodanno che voglio parlare, né tanto meno lamentarmi. Lo troverei non solo superfluo ma addirittura immorale, in tempi in cui il personale sanitario è impegnato in turni massacranti e in giorni in cui il lavoro molti lo hanno perso o stanno per perderlo in via forse definitiva.

Ciò di cui voglio scrivere è altro. Vorrei, per un attimo, che si provasse a discutere intorno alla parola “progettazione”.

Una delle prime cose che ti insegnano, se si è fortunati, o che impari sul campo, quando ti occupi di formazione, indipendentemente dal ruolo, gestionale o di insegnamento, è la capacità di progettare.

Progettare significa avere ben chiara la finalità del tuo lavoro, saperla tradurre in obiettivi praticabili, definire le azioni utili al raggiungimento di quegli obiettivi, tenendo conto del contesto e dei vincoli dati, che, in quanto vincoli, non sono modificabili sulla base degli umori, delle convenienze o delle appartenenze.

Un’altra cosa su cui tutti i manuali di progettazione insistono è la flessibilità. Nessun progetto è scritto sulla pietra, ma può essere modificato sulla base di un costante monitoraggio e di eventuali eventi non prevedibili che rendano necessari interventi correttivi.

In ultimo, i bravi formatori ti ricordano che occorre fare una valutazione di impatto sulle scelte progettuali di cui ci si assume la responsabilità, siano esse ex ante o in itinere. 

Senza entrare nel merito di ogni indicatore di una buona progettazione, vorrei richiamare la vostra attenzione su alcuni di questi, per provare, attraverso di essi, a leggere ciò che sta accadendo intorno alla scuola, e di cui il rinvio della didattica in presenza all’11 gennaio, deciso questa notte e non ancora ufficialmente annunciato, è solo l’ultimo emblematico esempio.

In primis la finalità. Progettare significa avere ben chiara la meta. La meta è in sé qualcosa di ambizioso, l’aspirazione di arrivo dopo un lungo viaggio. Non è una fermata intermedia, non è la stazione di Benevento, con tutto il rispetto per Benevento o altro.

Ora la prima domanda è: siamo certi che in Italia la formazione sia una finalità condivisa dai nostri decisori politici, e non mi riferisco certo solo alla politica attuale. I dati sul livello di analfabetismo funzionale e di dispersione scolastica parlano, da anni, di una situazione drammatica che la situazione pandemica non potrà che peggiorare visibilmente.

La seconda domanda ruota intorno a un punto cardine della progettazione: il contesto. Siamo sicuri che chi ha il compito di fare progettazione scolastica sappia leggere e interpretare i dati di contesto, che per la scuola non significa solo il contesto interno (l’edifico, le misure delle aule e dei banchi, il numero di studenti) ma anche il contesto esterno (il territorio, la mobilità urbana ed extraurbana, i servizi, ma anche, nel nostro specifico, i livelli di contagio che alcune attività esterne alla scuola possono più o meno favorire)? 

La terza domanda è: la flessibilità significa saper cavalcare l’onda o saperla prevedere? Detto che, in senso letterale, non saprei fare né l’una né l’altra cosa, mi piace pensare che la flessibilità, in ambito organizzativo, abbia a che fare con un’azione di governo e di previsione, ovvero con la capacità di leggere attentamente i dati di processo e approvare, per tempo, le dovute modifiche al progetto iniziale.

Per/in tempo. In emergenza si interviene sul tempo, sperando che ce ne sia abbastanza per salvare vite umane e limitare il danno provocato dall’evento imprevisto e imprevedibile.

Quando lo stato di difficoltà diventa la norma, allora occorre prendere decisioni in tempo, comunicandole in tempo utile agli interessati.

Continuare a parlare e pensare la scuola in emergenza significa venir meno al dovere di progettarla, creando in chiunque la abiti, o aspiri ad abitarla, un senso di spaesamento e di sfiducia, se non, ancor più grave, un sentimento di perdita.

Quando perdiamo una cosa all’inizio ce ne rammarichiamo, ci arrabbiamo o ci disperiamo a seconda dell’indole. Dopo qualche tempo, quando capiamo che forse non la ritroveremo più, ci abituiamo alla sua assenza. In fondo ne possiamo anche fare a meno.

Ecco, in ultimo mi chiedo se chi è deputato a occuparsi di politica scolastica abbia pensato alla valutazione di impatto di questo modo di parlare (perché di questo temo si tratti, di parlare più che di progettare) di scuola. 

Stiamo attenti che non ci si abitui troppo all’assenza della scuola in presenza. Che non significa presenza ideologica a prescindere dai vincoli e dai dati di contesto. Significa presenza pensata e progettata, come forse saprebbe fare chi della scuola sente ancora la mancanza.