Una girandola infinita di andirivieni e balletti Sulla scuola l’incertezza regna sovrana

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da La Stampa

Avevamo un tempo, a gennaio, la certezza di tornare a scuola. Era così: arrivava la befana, si faceva il rito della calza, si mangiava a pranzo l’ultima fetta di panettone, si smontava l’albero di Natale e il presepe e il giorno dopo si tornava a scuola, per altri cinque mesi. Questa la certezza che per decenni ha regolato la nostra vita, e davamo per scontata.

Ora non si può dar nulla per scontato. Si tornerà o no a scuola? In certi posti sì e in altri no? Entrando alle otto o a mezzogiorno? il 50% sì e il 50% a casa, facendo i turni in quale modo? E si andrà in monopattino o in autobus con posti dimezzati? Uscendo alle due o alle sei di sera? Con le ore di lezione di quanti minuti? Regna sovrana l’incertezza.

La scuola è diventata il simbolo di una vita che torna normale o che invece si assesta su una abnormità intollerabile. Parrebbe che per il momento la normalità ce la possiamo scordare. Ma nessuno ce lo dice chiaramente, i nostri governanti si barcamenano decidendo all’ultimo o delegando. Certo è un messaggio arduo da comunicare alle famiglie: scusate, tenetevi i figli a casa un altro po’. Infatti il governo fino all’ultimo non lo ha fatto, un annuncio del genere. Fino all’ultimo ha affermato con caparbietà, per giorni, esattamente il contrario: le scuole

riapriranno regolarmente il 7 gennaio.

Palesemente inverosimile.

Palesemente in contrasto con l’opinione delle autorità sanitarie.

Ma non importa. Valeva l’annuncio perentorio, deciso e positivo: cascasse il mondo, io vi assicuro che i ragazzi torneranno a scuola dopo la Befana, com’è sempre stato. Sottomessaggio implicito: state tranquilli, non è successo niente, è solo una pandemia, tutto sotto controllo, stiamo lavorando per voi.

Ci sono, da sempre, parole che la politica non può dire. Pena l’impopolarità, la perdita del consenso, la sconfitta elettorale. Ora, in questo frangente pandemico, da qualche mese, ci sono due parole impronunciabili, che infatti il premier s’è ben guardato dal farsi scappare: lockdown e Didattica a distanza, Dad. Non gli convengono, sa che sono parole indigeste, e piuttosto di pronunciarle s’arrampica sui vetri. Al lockdown, il cui semplice suono ci è estraneo e ostile, ha abilmente sostituito il gioco dei colori. Geniale! Zona rossa equivale in pieno a un lockdown, ma evita la parola impronunciabile. In zona rossa sei chiuso e non puoi fare niente: ma non sei in lockdown. Così per la scuola. Se non si potrà tornare a scuola, meglio non dirlo esplicitamente. A scuola si torna: questo era importante annunciare e questo è stato annunciato, fino a poche ore fa. Se sarà vero e in quali modi e in quali tempi, poi si vedrà.

E ora il poi è arrivato. A due giorni dalla annunciata riapertura delle scuole, il governo corregge: si ricomincia il 7, sì, ma a distanza; si ritarda all’11, sì, ma in presenza. E poi l’11 ogni Regione deciderà per sé, se riaprire subito o più avanti. Chi apre solo le elementari, chi apre le superiori il 18, chi a fine mese, chi decide in seguito. Intanto, certi negozi aperti, altri chiusi; tutti aperti certi giorni, e in certi altri tutti chiusi; musei non si sa; lo sci riapre il 18, ma poi si vedrà: magari slitta…

Tutto questo per me è molto difficile. Mi fa girare la testa. Noi talpe abbiamo orizzonti campestri, ristretti; e una semplicità di vita, e di ragionamento, che non ci consente di capire certe giravolte. A noi ad esempio adesso viene una domanda sola, semplice e banale: ma a scuola si rischia di contagiarsi o no? E in quali altri luoghi? Nelle palestre e nei teatri sì, e nei negozi no?

Adesso ci sono i saldi, per esempio. Che sono, notoriamente, un’esca formidabile, un irresistibile invito a uscire di casa, che dunque innesca tutta una serie di gesti (rischiosi?) quali: andare in giro mescolandosi alla folla, entrare in decine di negozi e stare insieme ad altri a toccare oggetti e indumenti, infine pagare armeggiando con banconote o bancomat. Se ho ben capito, a scuola no ma nei negozi sì? E qui nella semplicità della mia mente si affaccia una possibile spiegazione: non sarà che c’entra il denaro? Le attività commerciali aperte e i centri di cultura, arte, studio e ricerca, chiusi?

La scuola è, anche, il simbolo di ciò che uno Stato può sacrificare abbastanza impunemente: non è produttiva, non è commercio, non è denaro. È solo cultura. Sì, d’accordo, è una «priorità», come i politici s’affannano a ribadire, è il futuro delle nuove generazioni, è investire in capitale umano… Ma sono solo parole: entità verbali, non concrete. Cose che poi alla fin fine si perdono in una nuvola di fumo: di fatto (almeno nell’immediato) non cambia niente, in termini di produzione e reddito, se i ragazzi vanno o non vanno a scuola. La scuola assomiglia terribilmente a cinema e teatro, ahimè: sacrificabili.

Proprio in queste ultime ore Francesco Boccia, il ministro per gli Affari Regionali, ha detto: le Regioni che decidono di tenere chiuse le scuole dovrebbero tener chiuse anche le altre attività.

Ha una sua logica. Lo so che è dura e che la pagheremmo cara, alcuni purtroppo più di altri, in termini economici, sociali, psicologici. Ma se fosse utile a dare una mazzata definitiva al virus, ne varrebbe la pena o no? Un altro mese o due di sacrifici, rinunce, perdite e sofferenza, ma poi liberi di ricominciare. In altri paesi europei lo stanno facendo…

Non so. Sarà che gli animali vanno in letargo. A loro sembra naturale fermarsi quando la terra gela e non produce più niente, ma si prepara a dare nuovi frutti. Non voglio farla facile: non siamo animali (anche se siamo temporaneamente talpe) e il letargo ci è oscuro. Ma mi pare che dovremmo avere un fine, chiaro, preciso e unico, invece di fare una girandola infinita di andirivieni e balletti. E il nostro fine chiaro dovrebbe essere: portare i contagi il più possibile vicino a zero.

Un nuovo lockdown? Se serve, che ce la dicano ancora, questa parola, senza paura. Ma a un patto: che sia un lockdown secco, totale, il più breve possibile, e che nel frattempo, mentre noi stiamo chiusi, la politica non vada affatto in letargo, ma faccia quel che avrebbe già dovuto fare e non ha fatto: in modo che quando ci risvegliamo, si abbiano gli strumenti idonei a non fare ripartire il virus e l’ennesimo vortice di chiusure, riaperture e richiusure. Un’ultima volta dentro la tana. E poi tutti fuori, a cercare di riprenderci, poco per volta, la vita. —