Sul dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche

Francesco G. Nuzzaci

1.  Con poco si campa, con niente si muore

Nonostante la Ragioneria generale dello Stato abbia provato fino all’ultimo a cassarlo, l’emendamento dei proponenti parlamentari è riuscito a tradursi nel comma 978, articolo 1 della legge 178 del 30 dicembre 2020 (legge di bilancio per il 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023); che per la perdurante emergenza pandemica prevede, limitatamente al solo anno scolastico 2021-2022, la riduzione da 600 a 500 alunni (ovvero da 400 a 300 nelle istituzioni scolastiche autonome situate in piccole isole, in comuni montani, in aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche) come parametro di riferimento per l’assegnazione alla scuola di un dirigente titolare e di un direttore dei servizi generali e amministrativi in via esclusiva; con il successivo comma 979 che quantifica le occorrenti risorse finanziarie in 13,61 milioni di euro per l’anno 2021 e in 27,32 milioni di euro per l’anno 2022.

Oggettivamente, appare una tra quello che lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio ha definito “un coacervo di misure senza disegno”, e in più per la scuola unanimemente stimate dai commentatori del tutto insufficienti. Vi è tuttavia da dire che dal primo settembre 2021 una cospicua parte delle circa quattrocento odierne istituzioni scolastiche c.d. sottodimensionate avrà un proprio dirigente e un proprio DSGA. E appare poco plausibile che questi, una volta immessi in ruolo, vengano retrocessi e restituiti alle rispettive graduatorie concorsuali allo spirare del 31 agosto 2022, con le relative sedi che ritornano amputate del soggetto apicale e del suo diretto collaboratore.

Perciò è ragionevole attendersi – e pretendersi – che, con tempi più distesi e attingendo dalle risorse del Recovery fund, il Governo – che dà continuamente mostra di ritenere prioritari gl’investimenti per un’istruzione di qualità e inclusiva –  si determini, nel conseguente Piano nazionale di ripresa e resilienza, a dotare tutte le istituzioni scolastiche di un’adeguata governance interna, in grado di presidiare con sistematicità i processi organizzativi funzionali allo scopo ad esse assegnato dalla legge: garantire la libertà d’insegnamento e il pluralismo culturale, che si sostanzino “nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della (di ogni) persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento” (art. 1, comma 2, D.P.R. 275/1999). E a dotarle dell’altrettanta reale capacità di un’efficace interlocuzione con la governance esterna, includente le altre istituzioni scolastiche secondo lo schema delle reti  e gli uffici periferici dell’Amministrazione, laddove esse “provvedono – devono provvedere – alla  definizione e alla realizzazione dell’offerta formativa nel rispetto delle funzioni delegate alla Regione e dei compiti e funzioni trasferite agli enti locali …”,  non meno a tal fine dovendo interagire “tra loro e con gli enti locali, promuovendo il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali e gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione” (comma 1).

2. Dimensionamento, perché e come

2.1. Leappena richiamate disposizioni dell’arcinoto D.P.R. 275/1999 compendiano il perché del dimensionamento – ottimale o adeguato, che dir si voglia – delle istituzioni scolastiche, nel loro inscindibile nesso autonomia e dirigenza statuito dalla fonte primaria costituita dalla legge delega 59/1997 nel suo articolo 21.

Qui tralasciando il secondo termine dell’endiadi, si ricorderà che il successivo D.P.R. 233/1998 ne ha prescritto, nel suo articolo 2, i requisiti entro i limiti minimo di 500 alunni (300 nelle zone in deroga, ante) e massimo di 900: sulla scorta di plurimi indici, quali la conformazione geografica dei luoghi, peculiari situazioni locali, tipologia dei settori d’istruzione compresi nell’istituzione scolastica, contesto socio-economicoculturale, organizzazione politico-amministrativa dei territori; e al riguardo anche prevedendo unificazioni sia in verticale (come istituti comprensivi nel primo ciclo o ipercomprensivi, nel mettere insieme scuole del primo e del secondo ciclo) che in orizzontale (all’occorrenza anche assemblando differenti tipi e indirizzi di studio del secondo ciclo).

Su questa base normativa, e in parallelo con la sopravvenuta riforma del Titolo V della

Costituzione nel 2001, di cui in prosieguo, hanno impattato le modifiche apportate negli anni 2008-2011 nel quadro di una più ampia razionalizzazione del sistema scolastico; non di certo intesa, e praticata, come sua migliore funzionalità, bensì come obolo, in termini di sottrazione di 85 milioni di euro, per concorrere alla diminuzione del deficit pubblico, atteso che poi in definitiva – come ebbe a dichiarare il ministro delle Finanze dell’epoca – “con la cultura non si mangia”.

Nella circoscritta materia che qui ne occupa, con il combinato disposto del D.L. 112/2008, e suo piano attuativo, e dell’art. 19 del D.L. 98/2011, convertito dalla legge 111/2011, si è proceduto a un forzoso accorpamento di scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado in istituti comprensivi aventi almeno 1000 alunni (senza alcun limite massimo, così come per il settore secondario superiore), ridotti a 500 nelle confermate zone in deroga; e si è disposto di non assegnare alle scuole con meno di 500 alunni (300 sempre per le zone in deroga) un dirigente titolare, quindi affidate in reggenza.

Di lì a breve, e in pejus, la legge 183/2011 (Legge di stabilità per il 2012) ha elevato il parametro minimo a 600 (400 per le consuete deroghe) e, dopo il dirigente, negando a queste scuole anche un DSGA titolare. Sicché, in definitiva, l’attuale legge di bilancio si limita a ripristinare – provvisoriamente– i parametri minimi 500/300, però mantenendo le scuole sotto tali soglie orfane dell’uno e dell’altro.   

2.2. Ma è unaprovvisorietà comunque scritta sulla cenere, poiché quando il Covid-19 avrà abbandonato la scena e si sarà riguadagnata la normalità, la complessa architettura del prefigurato sistema DIP-DAD da intervento di pronto soccorso dovrà elevarsi a connotazione strutturale, sì da non essere più proponibili istituzioni acefale nella figura di vertice e in quella preposta alla conduzione del servente apparato amministrativo, altrimenti detto Ufficio di segreteria. Quindi, dimensionamento come.

Indubbiamente, non esiste un’astratta dimensione di per sé ottimale delle istituzioni scolastiche, poiché – secondo una recente sentenza del TAR Lazio, n. 13687/2020, richiamante sul punto la coeva pronuncia del Consiglio di Stato, n. 1215/2020 – “i parametri normativi in materia sono tendenziali e flessibili, proprio per consentire un migliore adeguamento delle strutture scolastiche alle sempre cangianti e molteplici esigenze dell’utenza”,spettando “all’Amministrazione, nell’esercizio della propria discrezionalità, ragionevolmente adattarli alla situazione concreta nella cura dell’interesse pubblico ad essa affidato”.

E ragionevole ben potrebbe essere l’assunzione dei parametri medi di 500 alunni e di 300 nelle zone in deroga per la determinazione del numero complessivo delle istituzioni scolastiche nazionali.

Se non è verosimile far corrispondere le nuove istituzioni scolastiche, tutte per definizione normo-dimensionate, agli attuali quarantamila e più plessi scolastici o luoghi di erogazione del servizio, non potranno neanche tollerarsi mega-istituti che possono arrivare ai duemila studenti e a trecento e oltre tra docenti e personale ATA, naturaliter ingovernabili sui canonici  e compresenti versanti gestionale, dei rapporti con il territorio, educativo-didattico: sicché il nanismo delle une e il gigantismo delle altre darebbero corpo al medesimo singolare effetto di un’offerta formativa non rispondente ai reali bisogni delle studentesse e degli studenti.

3. Un percorso obbligato

Sempre sul come – e sul chi – deve procedere, occorre svincolarsi da quell’autentico garbuglio, ancor più rivelatosi nella persistente fase emergenziale, che radica nella pasticciata riforma del Titolo V, Parte seconda della Costituzione, con la sua confusiva distribuzione delle competenze di legislazione esclusiva e concorrente tra Stato, regioni e province autonome di Trento e di Bolzano. 

Limitando qui i riferimenti alla materia dell’istruzione e semplificando al massimo, spetta in via esclusiva allo Stato la provvista del personale (dirigenti, docenti, ATA), mentre le regioni e le menzionate due province autonome sono competenti nell’organizzazione sui territori del servizio d’istruzione e d’istruzione e formazione professionale. E l’organizzazione include primariamente il dimensionamento e/o la configurazione delle istituzioni scolastiche e formative.

Si sa però che, in luogo di un comportamento di “leale collaborazione” degli attori, si è prodotto un endemico e tuttora irrisolto conflitto, con la continua chiamata in causa della Corte costituzionale nel non agevole compito di dirimerlo.

Ne costituisce l’emblema la citata legge n. 183 del 12 novembre 2011, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2012); al cui esito, dopo le correzioni imposte dalla sentenza 200/09, seguita dalla conforme sentenza 92/11, a decorrere dall’anno scolastico 2012-2013 non possono (non potevano?) più essere assegnati un proprio dirigente e un proprio DSGA alle istituzioni scolastiche con meno di 600 alunni, ridotti a 400 nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche. Con il risultato di essere libere le regioni nel mantenere scuole inferiori a questi parametri, ma altrettanto libero lo Stato di negare loro il dirigente e il direttore dei servizi generali e amministrativi titolari!

Allora, per risolvere lo stallo essenzialmente dovuto all’inerte indifferenza delle regioni, e/o alle loro difficoltà di sottrarsi alle pressioni locali, spesso di segno contrapposto, dovrà giocoforza intervenire lo Stato con lo strumento normativo dei  livelli essenziali delle prestazioni (LEP), concernenti ”i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (Cost., art. 117, 2° comma, lett. m), anche in materia d’istruzione e formazione: rientranti nella sua potestà legislativa esclusiva e – diversamente dalle norme generali sull’istruzione – non cedibili, non figurando la fattispecie nelle previsioni del terzo comma dell’articolo 116.

Il punto di aggancio può rinvenirsi nel Capo III del D. Lgs. 226/05 (c.d. Riforma Moratti), che detta i livelli essenziali delle prestazioni, sia pure per i soli percorsi d’istruzione e formazione professionale (per la semplice ragione che per le scuole del primo ciclo e per il sistema dei licei vi era la copertura delle predette norme generali, anch’esse spettanti alla competenza esclusiva dello Stato).

In particolare, sull’abbrivo dell’articolo 21 (“Livelli essenziali delle strutture e dei relativi servizi”), può ben includersi expressis verbis il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche come imprescindibile elemento quali-quantitativo onde assicurare, anche per questo aspetto, la dimensione unitaria nazionale del sistema di istruzione e formazione, coniugando i principi di sussidiarietà e di differenziazione con quello coessenziale di adeguatezza.

E senza poi dimenticare ciò che ha statuito sempre la Corte costituzionale proprio nella sentenza 200/09: la stessa che, correggendo il Legislatore (legge 183/11: ante), ha riconosciuto alle regioni e province autonome di Trento e di Bolzano il potere esclusivo sull’organizzazione del servizio scolastico nei territori di pertinenza, ma nel contempo precisando che, al di là dei LEP, non è affatto precluso – anche nelle materie di competenza esclusiva delle regioni, quelle originarie e quelle eventualmente cedute – l’intervento statale nella “creazione di strutture organizzativeomogenee”, sempre al fine della salvaguardia dei livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Ciò in quanto “l’attività unificante dello Stato, in omaggio al principio cardine di unità e indivisibilità della Repubblica”, può ben dispiegarsi ad ampio (potenzialmente illimitato) spettro. E questo proprio in base al principio di sussidiarietà; che, con i complementari principi di differenziazione e di adeguatezza, risulta dotata di una ”attitudine anche ascensionale”, sì darendere legittima extrema ratio una “deroga al riparto delle competenze non solo legislative, ma pure amministrative”.   

Beninteso, se c’è la volontà politica.