La generazione fortunata

La generazione fortunata

di Maria Grazia Carnazzola

Nel 2005 è uscito, per Longanesi- ad aprile la prima edizione, ad agosto la seconda- un libro intitolato La generazione fortunata” scritto da Serena Zoli. Prendo a prestito il titolo per dire, a mia volta, quello che è successo e sta succedendo a quella generazione definita fortunata- a cui appartengo- e per riflettere su quanto sta capitando a questa di generazione che è (o era?) la generazione del benessere, del tutto subito, del senza limiti né confini… che ad un tratto, si ritrova ad essere “poco fortunata”.

1. Quando i sogni non erano utopia.

Vado con ordine e comincio col dire che le generazioni misurano le età delle società- non le età della vita- e che gli stereotipi culturali che connotano giovani e vecchi, con cui identifichiamo futuro e passato, dimenticando però che si vive nel presente, non coincidono totalmente con l’anagrafe.

Nel libro c’è un proverbio magrebino che parla di utopia. “Nessuna carovana ha mai raggiunto l’utopia, però è l’utopia che fa andare le carovane”. Nell’utopia è insito il desiderio senza il quale non c’è il sogno che alimenta azioni e percorsi, già essi stessi sogno. È forse un sogno, quello che si fonda sulle attese, sulle priorità, sul desiderio e sulla giusta fatica quello che manca oggi ai nostri ragazzi?

Noi sogni ne avevamo tanti: grandi desideri a piccoli prezzi.

Siamo stati la generazione che ha goduto di una favorevole congiuntura storica ed economica che, prima di sfociare nel consumismo, ha permesso gradatamente di passare dalla povertà al benessere, dal rigore al facile, dal guadagnato al gratuito. È stato il tempo del presalario, dell’auto come bene per tutti, degli orizzonti che si aprivano, delle cose permesse… La generazione che poteva contare sulla solidità delle famiglie- indipendentemente dai motivi-; che poteva giocare nei prati e nei cortili per pomeriggi interi sbucciandosi i gomiti e le ginocchia senza controllo, se non il proprio; a riconoscere l’autorità di tutti gli adulti; a considerare la morte di vecchiaia come un fatto naturale; a pensare alla casa come un luogo con qualcuno dentro che si occupava di noi con semplicità, frugalità e senso del dovere, quando abbracciarsi era segno di affetto e non ostentazione. Tutti noi avevamo sempre qualcosa da sbrigare a beneficio di tutti, prima e dopo la scuola. E la scuola era “affar nostro”, erano responsabilità esclusivamente nostra i risultati di cui rispondevamo. Siamo stati testimoni della fiducia dei genitori nei confronti dei docenti e non è cosa da poco se pensiamo che i valori non si predicano ma si imparano dall’esempio. Eravamo una generazione convinta che i sogni fossero idee realizzabili, perché il progresso era continuo: “…in ciò che noi crediamo…vogliamo…faremo. Dio è risorto” cantava Guccini. E i sogni erano personali e collettivi. Era un mondo fondato -ancora- sulla parsimonia, sulla capacità di distinguere l’essenziale da quello che non lo è e ci veniva chiesto di comprendere che facile non è sinonimo di gratuito; porci delle mete e cercare di raggiungerle era normale così come era normale rinunciarvi sulla base di necessità reali che mettevano in fila e in scala i fatti, i sentimenti, i sogni: quelli personali e quelli collettivi. Sogni tutti orientati a un mondo migliore, sogni ottimistici sulle sorti dell’umanità. Col desiderio che i sogni personali e collettivi si avverassero, con un accento- e lo dico col senno di poi- che si è spostato gradatamente sui diritti a discapito dei doveri. Spostamento che qualche volta ci ha fatto confondere guadagnato con gratuito e, pur avendo ben chiaro che ogni prodotto si paga, non abbiamo considerato che se un prodotto non lo paghi, il prodotto sei tu. Forse è davvero un sogno, quello che si fonda sulle attese, sulle priorità, sul desiderio e sulla giusta fatica quello che manca ai nostri ragazzi. A sognare si impara.

2. Non siamo stati in grado di capire e di far capire…

Non abbiamo capito che i paradigmi che abbiamo utilizzato per descrivere e interpretare il cambiamento che avveniva sotto i nostri occhi e a cui partecipavamo quando cadevano i muri, si aprivano i confini, si modificavano gli stili di vita, non è compatibile con il processo di globalizzazione: non è possibile, contemporaneamente, l’apertura all’alterità e la conservazione della propria identità, o la medesima percezione della vita. Non abbiamo capito che la violenza non nasce solo dalla negatività- che genera reazione e difesa-, o dall’estraneo, ma si genera anche nella positività, può nascere dall’eguale: e non c’è polarizzazione tra giusto e sbagliato, tra positivo e negativo, tra amico e nemico, tra interno ed esterno, tra conosciuto ed estraneo. Nella società che via via diveniva più permissiva e pacificata, che non presupponeva ostilità, non abbiamo saputo cogliere quelle altre forme di violenza, di tipo non privativo ma saturativo, che ora riusciamo a vedere…. Lo testimoniano, in questa società della prestazione -ad esempio- i fenomeni legati alla sovrapproduzione e all’eccesso di informazione che frammenta sia la percezione sia l’economia e la struttura dell’attenzione. Abbiamo passato sotto silenzio l’idea che la gestione del tempo e dell’attenzione definita multitasking fosse un progresso della moderna società dell’informazione e del lavoro, mentre sappiamo che è una modalità largamente diffusa anche tra gli animali per la sopravvivenza; non abbiamo vigilato sul lento evolversi della società della prestazione verso la società del doping che ha trasformato l’essere umano in una macchina per massimizzare le prestazioni: ci siamo limitati a chiamare il doping cerebrale in un altro modo e a proibire l’uso delle sostanze, pur sapendo che la coesione sociale si basa sui costumi (mores) consolidati: le regole vengono dopo. Questo abbiamo fatto.

3. Che fare?

La società della prestazione, sia la prestazione agita o impedita, proprio perché connotata dall’attenzione diffusa e veloce, non riesce a strutturare, dare ritmo e forma alla confusione, genera noia e paura e porta all’esaurimento, separando e isolando ciascuno nella propria stanchezza. Che non è la stanchezza fisica del risultato, che riconcilia nella fatica con il mondo e sa distinguere quello che deve essere fatto da quello che può essere tralasciato, quello che deve essere ascoltato da quello che può essere ignorato. Per ascoltare bisogna sviluppare una capacità di attenzione profonda, prolungata e lenta che permetta anche di vedere per pensare, parlare, scrivere. Sappiamo che i luoghi comuni, anche quando sono paradossali, modellano il nostro pensare, il nostro dire e il nostro agire. Ho sentito adulti dire, e i ragazzi ripeterlo, che lo stato di cose generato dalla pandemia fa perdere agli adolescenti e ai giovani le loro “prime volte”. Ma se il primo bacio non lo si dà a 15 anni e lo dà l’anno successivo, a 16 è una seconda volta? Un adulto dovrebbe insegnare e curare questa capacità ri-flettere, cioè di guardare ancora, di ri-tornare su quello che si ascolta, con attenzione selettiva e approfondita: da qui si dovrebbe partire per aiutare i giovani a orientarsi. Ma per poterlo fare, gli adulti devono viversi e comportarsi da adulti nella fase della piena maturità. Così Benedetto Croce nel corso di una lezione “Si suol discorrere oggi, tra i tanti altri e gravi problemi che ci premono, del “ problema dei giovani”. Orbene, mi permetterete di dirvi che questo problema non esiste, perché la giovinezza è un fatto e non è un problema(…) i giovani non possono avere che altro fine di maturarsi a uomini, di preparare il loro avvenire di uomini”. Noi possiamo solo creare le condizioni più favorevoli alla loro maturazione, al cambiamento, ma toccherà a loro crescere e preparare il loro avvenire. Tocca tutti gli adulti e in particolare tocca a chi, istituzionalmente, si è assunto questo compito come professione. Per far questo la Scuola, comprendendo nel termine ogni Ente e Istituzione deputato alla formazione, dovrà cercare linguaggi e paradigmi che taglino trasversalmente gli ambiti separati dei saperi per riportarli a un condiviso orizzonte di senso sul quale costruire una solida- ma flessibile- conoscenza personale e sociale. Ma lo potrà fare solo se ricomincerà a chiamare i segmenti “segmenti” e non “bastoncini, per dirla con Lucio Russo. O, ancora, contrastando l’uso di un linguaggio vuoto di significati, fatto esclusivamente di metafore e di similitudini che alla lunga portano- come ha ampiamente sostenuto Orwell, a una rappresentazione del mondo confacente al senso comune dominante. Pensare, parlare e scrivere con chiarezza rappresentano il primo passo per contrastare l’inibizione e la massificazione del pensiero e dell’azione. Le tecnologie, la digitalizzazione non innovano nulla senza pensiero.

4. Conclusioni

Ritengo, e l’ho scritto spesso, che questa non sia una crisi personale o di qualche settore produttivo o sociale: è una crisi dell’intero sistema, una crisi globale e come tale la dobbiamo pensare e insegnare a pensarla perché, forse, la generazione nuova non potrà semplicemente prendere il posto della precedente, ma dovrà radicalmente modificare il modo di stare nel mondo. Penso sia doveroso che la generazione fortunata, quella che ha vissuto i primi “progressi” legati alla crescita economica, ma che sa com’era il mondo di prima, faccia con chi è arrivato dopo una riflessione seria su quello che sta succedendo, anche solo per chiedersi se la conoscenza di quanto è accaduto nel recentissimo passato possa essere di giovamento ai ragazzi nell’immaginare come potrebbe essere il domani, per fare in modo che i loro ideali non rimangano soltanto sogni.

BIBLIOGRAFIA

Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo srl, Milano 2017;

Gustavo Zagrebelsky, Senza adulti, Einaudi, Torino 2016;

Carlo Sini, Pratica del foglio mondo, CUEM, Milano 1994;

Benedetto Croce, Conversazione coi giovani- Scritti e discorsi politici, Laterza, Bari 1963;

Lucio Russo, Segmenti e bastoncini-Dove sta andando la scuola?, Universale Economica Feltrinelli/saggi, Milano 2016;