La scuola che vorrei

La scuola che vorrei
Un’ipotesi di riforma della scuola italiana per uscire dal cappio del neoliberismo

di Pietro Boccia

Con la caduta del muro di Berlino (1989), l’URSS e i suoi Paesi satelliti non solo si sono disgregati e tutte le ideologie della civiltà occidentale sono entrate in crisi, sconvolgendo le identità nazionali e individuali. I punti di riferimento sono stati smarriti. Il sistema mondiale è passato, in tal modo, dal bipolarismo (USA-URSS) a una forma di ordine globale e planetario del potere economico e politico. Tale processo ha innescato, creando nel mondo diverse aree calde, nuove tensioni. Si sono, così, dopo la disintegrazione del bipolarismo (USA-URSS) con la caduta del muro di Berlino, ravvivati, a livello mondiale, i nazionalismi; questi si distinguono in aree geografiche (area dell’Europa orientale, area africana e asiatica, area dell’Europa occidentale, sub-aree o regionalismi) e in ideologie che li animano. Tali nazionalismi rappresentano una miscela esplosiva non solo per motivi religiosi e culturali, ma anche etnici. Non solo i Paesi dell’est, ma anche le aree del sud del mondo sono entrate in conflitto con quelle del nord. Tali aree calde si sono, così, dislocate, dopo la caduta del muro di Berlino, altrove.

Tutto il mondo occidentale, allo smantellamento dell’Unione sovietica, poteva scegliere tra due percorsi, vale a dire seguitare a tutelare il welfare state, soprattutto con l’autogestione dell’economia, com’è avvenuto in Svezia con il “Fondo dei salari”, ideato dallo studioso Rudolf MEIDNER, oppure smantellare lo Stato sociale, com’è accaduto con Ronald REAGAN, negli Stati Uniti, e con Margaret THATCHER, in Inghilterra, e praticare una politica economica, eretta sul taglio dell’imposta sul reddito, sulla riduzione dei tassi d’interesse, sull’incremento delle spese militari e sull’aumento del deficit pubblico. Si è, purtroppo, seguita e ha vinto la seconda strada. Alla guida del potere in America e in Inghilterra si afferma, così, una politica fiscale anti-keynesiana, vicina al monetarismo di Milton FRIEDMAN. Intraprendendo la seconda strada, la sinistra, a livello mondiale, non riesce nemmeno a percepire la via di non ritorno che si stava imboccando e subisce una débâcle, che ancora oggi è all’ordine del giorno. La civiltà occidentale è entrata, in tal modo, in una profonda crisi.

La sfida alla complessità è, nella società attuale, irta di ostacoli e non è possibile intenderla né governarne gli sviluppi senza richiamarsi e farsi guidare dal metodo democratico e riformistico, l’unica prassi politica incardinata simultaneamente sulla libertà e sulla giustizia sociale (uguaglianza). Il metodo riformistico per governare i cambiamenti è un’arte difficile e, come tale, non può appartenere a chi per quasi un secolo non è riuscito nemmeno a cogliere la differenza tra democrazia e totalitarismo.

La democrazia, poi, non può essere considerata un valore come un altro; essa poggia soprattutto sulla libertà, anzi questa è il punto di partenza per fondare e per condividere tutti gli altri valori, che vivificano una comunità democratica. Tali valori (uguaglianza, giustizia, solidarietà. fratellanza, pace e così via), senza la libertà, non avrebbero consistenza. A che cosa, appunto, servirebbero la pace, l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà e così via, se fossero imposte?

La cultura, giacché è legata ai modelli di sviluppo delle società, certamente rischia, attraverso il processo di globalizzazione, di essere completamente emarginata. Di positivo, potrebbe esserci, tuttavia, per effetto dell’integrazione economica, sociale, politica e culturale, un’estesa partecipazione di persone, anche se indirettamente. Tutti dovrebbero, però, partecipare e non rinunciare ai diritti individuali e collettivi. Ognuno non solo è influenzato dagli avvenimenti dei contesti socio-culturali, in cui vive, ma anche dagli eventi che subiscono i soggetti con i quali non ha rapporti diretti, perché vivono in Paesi e ambienti lontani. L’aspetto (socio/politico) riguarda la nascita, a livello internazionale, di organizzazioni politiche (l’ONU, OCSE e così via) e sociali (OMS, UNESCO e così via).

Il processo di globalizzazione è iniziato negli anni Ottanta del Novecento e oggi ha subito una forte accelerazione. In quegli anni, le spinte di liberalizzazione e di deregolamentazione, prima di tutto nel campo economico, hanno condotto, all’affermazione della concezione del neoliberismo e del capitalismo totalitario; quest’ultimo, dopo quello sperimentale (dal mondo classico al Settecento) e conflittuale (dalla prima rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino – 1989 -), è riuscito, eliminando, al suo interno la classe della borghesia illuminante e degli intellettuali della “coscienza infelice”, ad affermarsi e a diffondersi fino a diventare, annebbiando tutte le coscienze, una modalità naturale per tutti. In tal modo, i capitali e le merci, circolando liberamente, facilitano e favoriscono la formazione, a livello globale, di un unico mercato. In una simile situazione, le banche e le imprese finanziarie hanno acquisito, emarginando gli scambi culturali e le comunicazioni interpersonali, un ruolo preminente. I cambiamenti negli apparati degli scambi economici accentuano, invece, di eliminare, a livello mondiale, sperequazioni e contrasti tra gli uomini all’interno delle società. Circa un terzo di cittadini, infatti, nel mondo è costretto a vivere in totale povertà.

Il Pianeta è, tuttavia, bombardato da una quantità di informazioni. Questo non dovrebbe impedire di non vedere o di far finta di non percepire le condizioni di chi si trova immerso nell’indigenza e nell’iniquità. Molti sostengono che solo nel caso che gli uomini decidessero di impegnarsi, in modo originale, ad affrontare e a risolvere le difficoltà del mondo attuale, il mercato globale diventerebbe, per l’intera umanità, un’opportunità. Gli Stati, però, devono, per conseguire un tal esito, sostenere, tramite intese e accordi di collaborazione, il processo di globalizzazione con politiche appropriate.

“Se la globalizzazione non è riuscita – ha scritto Joseph E. STIGLITZ in La globalizzazione e i suoi oppositori – a ridurre la povertà, non è riuscita neppure ad assicurare la stabilità”; ha, invece, prodotto sia sul piano culturale sia su quello sociale e politico, conseguenze devastanti come l’omologazione mondiale dei mercati, dei valori sociali, delle culture e dei comportamenti, non riuscendo a determinare in modo uniforme la distribuzione delle ricchezze. Anzi, ha accentuato il divario tra i Paesi ricchi e le aree povere.

Oggi, nel mondo, il 18% della popolazione dispone dell’83% del reddito mondiale, mentre l’82% della restante popolazione deve accontentarsi del 17% del reddito). In un recente censimento della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) si sostiene addirittura che un miliardo e trecento milioni di persone non disponga, per la propria sopravvivenza, nemmeno di un dollaro al giorno. In tal modo, solo alcuni popoli e culture vivono e partecipano al processo di globalizzazione; altri popoli e culture sono, invece, costretti, giacché le loro società non riescono a tenere il passo delle nuove tecnologie e dell’economia mondiale, a vivere ai margini o a essere esclusi dai canali di comunicazione e dai mercati internazionali.

La civiltà occidentale e industriale, nonostante tali problemi, è stata, in ogni modo, protagonista di un progresso che ha radicalmente cambiato la qualità della vita di molti popoli. Ciò è avvenuto soprattutto per l’avvento della tecnologia informatica e digitale. Tutte le attività economiche devono utilizzare, per essere efficacemente presenti sul mercato, esperti nella raccolta e nell’elaborazione di informazioni. Si sono, perciò, nelle società attuali, formate le cosiddette élites delle reti informatiche.

Nel mondo della globalizzazione, dove si formano gerarchie tra chi rappresenta le élites globalizzate e quelli che sono costretti a vivere una localizzazione coatta, si produrrà normalmente un nuovo conflitto, perché i primi, vivendo nelle loro fortezze, non avranno alcun interesse per il territorio, e i secondi, pur non avendo, per il momento, alcuna possibilità di modificare la realtà, faranno pressione per migliorare la loro condizione di vita e per riuscire a entrare nel sistema. Attraverso il processo di globalizzazione, da un lato, è stato liberalizzato il capitale e, dall’altro, è stata asservita e condizionata la vita della maggior parte delle popolazioni, che vivono al Sud del Pianeta e di quelle nuove periferie che si trovano nelle aree marginali. Il denaro e il capitale sono, pertanto, oggi, diventati i veri soggetti liberi. Se una multinazionale decidesse di spostarsi, ad esempio, dall’Europa all’Asia, tantissime persone si troverebbero all’improvviso senza lavoro. Non si può assolutamente pensare, in tal caso, a politiche sociali dell’occupazione, perché, mentre il denaro e il capitale si trasferiscono alla velocità dei nuovi mezzi di comunicazione, gli uomini si spostano lentamente o sono costretti a vivere segregati nei loro territori.

Il superamento dei conflitti armati s’intreccia, dunque, con il problema della pace e della tutela dei diritti individuali e collettivi. Non si può mai costruire, quando ai singoli uomini e ai popoli sono negati tali diritti, un ordine mondiale, basato sulla pace. I diritti individuali e collettivi devono, perciò, essere riconosciuti e garantiti, attraverso una forte e condivisa istituzione sopranazionale, dal diritto internazionale. Ciò, oggi, purtroppo, non è nemmeno più sufficiente, giacché è emersa, a livello internazionale, una nuova forma di conflitto armato, ovverosia il terrorismo. Le azioni terroristiche, imprevedibili e, a volte, immotivate, mettono in discussione non solo ogni possibilità di risolvere in maniera razionale le controversie tra le parti in conflitto, ma anche il processo di globalizzazione. I protagonisti di tali azioni sono, tuttavia, ricondotti al fenomeno della globalizzazione, perché sono identificabili e vivono nei non-luoghi, teorizzati dall’antropologo francese Marc AUGE’.

L’attacco dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers, vale a dire contro il simbolo delle moderne sofisticazioni tecniche, rappresentate da gigantesche costruzioni, ha, da un lato, segnalato l’esistenza di un nemico senza volto, che è difficile rintracciare e combattere, e, dall’altro, l’impossibilità di reagire, in maniera immediata, per trasformare l’angoscia dell’avvenire in forza positivamente propulsiva, affinché le società democratiche e non violente acquisiscano la sicurezza indispensabile per progettare e per costruire un futuro di pacifica convivenza.

L’umanità, per superare la condizione di una tale disumanizzante realtà, deve riappropriarsi del presente e, avvalendosi di un pessimismo solare e di un ottimismo crepuscolare, sottrarre il futuro al potere della tecnica e della finanza. Si deve andare, dunque, verso una globalizzazione non solo economica, ma anche culturale, sociale e politica, attraverso una mobilitazione globale, vista quest’ultima come una sequenza di veloci mutamenti sociali, costituito da tanti momenti differenti, che, pur diversificandosi analiticamente, potrebbero avvenire sia in una fase successiva sia contemporaneamente a livello empirico. Tali momenti possono essere i seguenti: stato d’integrazione, disgregazione o rottura, spostamento o sganciamento individuale, mobilitazione psicologica (ritirata o disponibilità), mobilitazione oggettiva, reintegrazione.

La concentrazione delle attività produttive in gruppi e mega/gruppi, la spietata concorrenza sul mercato mondiale e l’apertura di nuovi canali di comunicazione nei mercati internazionali stanno producendo la scomparsa dei confini e delle barriere nazionali.

Le reti informatiche, internet e i satelliti per le telecomunicazioni, permettendo alla conoscenza e all’informazione di diffondersi liberamente, non hanno alcun bisogno di confini territoriali e rappresentano i valori reali della globalizzazione. Il “villaggio globale” è, però, diventato un’invenzione per nascondere la realtà. Il capitale e l’impresa non possono essere più luoghi d’incontro dei soggetti del mercato: investitori e consumatori.

Le imprese globalizzate sono facilmente acquisite da grandi organizzazioni economiche senza patrie e, perciò, transnazionali. Tali organizzazioni realizzano, così, un’assoluta libertà di manovra, senza essere, a livello territoriale, vincolate e senza avere appartenenza culturale.

Il capitalismo totalitario, attraverso un’architettura globale, agisce, attraverso informazioni e dati, di cui entra in possesso quando noi con un clic diamo il consenso, sui comportamenti umani, asservendo l’anima per i credenti e la mente per tutti gli altri.

All’avvento della cultura neoliberista, dopo la caduta del muro di Berlino, l’Occidente è diventato preda della strategia del capitalismo finanziario e totalitario. Anche in Italia si è affermato fortemente il neoliberismo.

In tal modo, i partiti di centro-destra sono costretti a governare decisioni assunte dalla concentrazione capitalistico-finanziaria di destra, mentre quelli di centro-sinistra a governare e scimmiottare le decisioni che assume quella, che, grottescamente, si definisce di sinistra.

Nell’ultimo decennio del Novecento, se alla guida della politica italiana ci fossero stati politici di spessore e non ragionieri, spacciatosi per economisti, si sarebbe sicuramente aperto un dibattito sul ruolo dell’Italia per l’occasione di diventare testa e guida dei popoli del mediterraneo oppure di decidere, com’è avvenuto acriticamente, ad accodarsi non all’Europa dei cittadini, prefigurata in precedenza, ma dei mercati e della finanza.

Agli inizi degli anni Novanta, in Italia, era presente un deficit economico del 7%; il 65% del prodotto interno lordo (PIL), gestito in maniera diretta o indiretta dallo Stato, aveva uno scopo sociale. Per entrare nell’Unione europea, secondo i parametri di Maastricht, bisognava privatizzare e ridurre il deficit dello Stato al 3%.

La politica di allora ragionieristica e non di spessore, invece di confrontarsi sui parametri, fa due devastanti interventi per l’Italia, vale a dire lo smantellamento delle imprese con le privatizzazioni (circa il 65% apparteneva direttamente e indirettamente al welfare state) e la disgregazione sociale con la riduzione del deficit dal 7% al 3%. Per quanto concerne le privatizzazioni non c’era efficienza allocativa. Questa “ha a che fare – sostiene Roberto FAZIOLI in Dalla proprietà alle regole – con la relazione fra prezzi e costi marginali di produzione: essa sarà massima quando i primi ricalcano i secondi, quando le quantità desiderate saranno pari a quelle offerte”.

Con l’algoritmo della riduzione del debito di quattro punti (dal 7% al 3%), per entrare in Europa, s’interviene:

  •  con il 2% di aumento delle tasse (dal 27% sino al 53%);
  •  con la percentuale dell’1,3% attraverso la diminuzione del costo della lira, attivando lo smembramento del ceto medio e, di conseguenza, permettendo l’arricchimento dei pochi e l’impoverimento di molti;
  •  con la percentuale dell’1,7% di taglio su ricerca e istruzione, vengono messe a repentaglio la cultura e la creazione, in Italia, di una futura classe dirigente.

Senza mettere al centro la palla della politica italiana, non ci potranno mai essere misure e interventi adeguati per far crescere il Paese e dare respiro alle nuove generazioni. Bisogna rompere la spirale e l’intreccio (solo i giovani possono farlo, perché non sono ancora socializzati al conformismo) tra la politica e il potere economico-capitalistico-finanziario. Dopo aver realizzato l’autonomia della politica, bisognerebbe intervenire non solo sulla riforma del mercato del lavoro, ma anche operare opportuni interventi su quelle politiche fiscali e previdenziali, che, in qualche modo, avrebbero lo scopo di ridurre le disuguaglianze sociali. Si migliorerebbero, di conseguenza, ridistribuendo adeguatamente la ricchezza, le condizioni di ognuno e di tutti.

Bisogna, per riscoprire l’orizzonte e ritrovare il cammino, liberare le energie di ogni singolo soggetto e arginare la cultura politica del neoliberismo. La libertà è un processo, che si attua e si afferma in maniera graduale. Attraverso tale processo, la successione dei fenomeni e degli avvenimenti, anche se naturali, ha una propria forza storica, perché la libertà è interiorizzata e rivissuta, come risultato proiettivo, prima dall’individuo e, poi, dalla società. Questa perenne attività dell’uomo, nel suo cammino, incontra, per forza di cose, il mondo naturale e sociale, che lo circonda e che diviene una sua parte integrante.

E’ chiaro che gli esseri umani sono, nella loro coscienza e nella loro individualità, diversi gli uni dagli altri; essi vivono la diversità nella misura in cui la coscienza è in grado di allargare o di restringere il campo di svolgimento della libertà.

Nei rapporti con la realtà oggettiva, l’uomo quanto più fortemente vive la sua volontà o libertà di azione tanto maggiormente comprende il mondo circostante come ostacolo o come risorsa per la sua stessa realizzazione. Il vincolo, posto all’individuo, è tutto ciò che non attiene alla sua volontà e alla sua libertà interiore.

La scuola che vorrei in Italia

L’uomo vive nella e con la società; si trova collocato in sfere che non sono per niente isolate e indipendenti, ma che hanno fra loro un rapporto continuo di scambi e di interferenze; ciò avviene in un intreccio indeterminabile di azioni e di reazioni, di eventi e di riflessioni, che, partendo dalla sfera individuale, contribuisce non solo a far realizzare ogni soggetto nella propria attività, ma anche a far evolvere nuovi accadimenti. In questa valutazione della realtà umana, la volontà individuale e la libertà di azione hanno la stessa valenza. Sia nell’azione individuale sia in quella sociale o collettiva vige la libertà più completa; ciò avviene, perché la libertà di ognuno, giacché la società è nient’altro che emanazione individuale, si sposta interamente nel sociale. E’, in tal modo, che si può abbattere il neoliberismo e, di conseguenza, si possono realizzare le società libere e democratiche.

In questa prospettiva, la scuola, trasformata in scuola-azienda alla fine degli anni Novanta, dovrebbe essere ripensata. Uno Stato democratico, che opera per una società equa e giusta, oltre a demolire tutte le caste, deve cercare di abolire tutti i privilegi (pensioni d’oro, stipendi e liquidazioni milionarie in ogni ambiente) con la leva fiscale. Le istituzioni che hanno funzioni sociali, come, ad esempio, la sanità e la scuola, devono essere salvaguardate e non soggette a tagli indiscriminati. Non può una funzione sociale essere soggetta al mercato e non deve mai essere pensata come una prestazione che può andare a pareggio di bilancio.

Alla scuola italiana che è stata, negli ultimi anni, tradita e snaturata dalle forze economiche e politiche dominanti, deve essere, pertanto, restituita la funzione sociale. Non si può, attraverso la scuola, tutelare l’interesse pubblico, conseguendolo con riferimento alle prestazioni. In tal modo tale interesse si smonterebbe e si sostituirebbe con la commercializzazione di un servizio.

Con riferimento alla scuola, il diritto amministrativo prefigura che l’interesse pubblico deve manifestarsi tramite il diritto vissuto non come fine ma come strumento. Questo è un principio che nella seconda Repubblica é stato smontato meticolosamente. Trasformare, poi, la scuola in azienda ha l’indiscutibile significato di forgiare le strutture che hanno come fine predominante l’attuazione, in contrapposizione alla “produzione” di un sapere critico, del profitto economico. Ciò avverrebbe, inoltre, in un sistema di spietata concorrenza ed emarginando, in tal modo, socialmente, economicamente e culturalmente i soggetti più deboli e svantaggiati.

La scuola, nella storia, è stata, in realtà, caratterizzata da una traiettoria e da un percorso lineare di democratizzazione dell’educazione, dell’istruzione e della formazione, mettendo, al proprio interno, in moto i processi di:

  • educazione universale (nel Seicento, pedagogia di Amos COMENIO);
  • scolarizzazione (illuminismo, rivoluzione francese e istruzione pubblica con CONDORCET);
  • tendenza all’innalzamento dell’obbligo scolastico (legge Gabrio CASATI, in Italia, nel 1859 e così via);
  • tendenza all’unificazione dei sistemi educativi e formativi (riforma dei programmi “Brocca”, in Italia, 1992/1993);
  • tendenza all’individualizzazione e personalizzazione dell’insegnamento/apprendimento (riforma MORATTI, in Italia, nel 2003);
  • educazione permanente e inclusione (strategia di Lisbona, nel 2000, Europa/2020, nel 2010 e Agenda 2030, nel 2015).

Con l’istruzione permanente e l’inclusione, il processo di democratizzazione dell’educazione, dell’istruzione e della formazione dovrebbe entrare nella fase della massima espansione e realizzazione.

Oggi, a tale scopo, si deve, nella società globale e complessa, condividere ed edificare una scuola che, da un lato, sia adeguata a cogliere la realtà e a farla interpretare criticamente, e, dall’altro, aspiri a un presente proporzionato ai sogni delle nuove generazioni e che per loro immagini un futuro attendibile e verosimile. Una riforma, in tal senso, dovrebbe, allora, basarsi su alcune priorità, vale a dire:

  • riorganizzare la pubblica istruzione in una scuola non obbligatoria (nidi, micronidi e servizi educativi da tre a ventiquattro mesi, sezione primavera da ventiquattro a trentasei mesi), una scuola obbligatoria del primo ciclo (otto anni – scuola dell’infanzia e primaria), una scuola obbligatoria del secondo ciclo (cinque anni – scuola secondaria di primo grado e primo biennio della scuola secondaria di secondo grado) e una scuola secondaria di diritto/dovere all’istruzione del terzo ciclo (tre anni – secondo biennio e quinto anno della scuola secondaria di secondo grado). In tal modo l’obbligatorietà e la certificazione delle competenze avrebbero un’intrinseca e coerente logica;
  • abolire i carrozzoni ministeriali (i Dirigenti scolastici, i responsabili e gli Uffici degli ambiti scolastici provinciali), creando un diretto collegamento degli ambiti territoriali e delle reti di scuole con le Direzioni regionali e nazionali del Ministero della pubblica istruzione. L’autonomia delle istituzioni scolastiche e l’asfissia dirigenziale sono una contraddizione in termini;
  • introdurre l’elezione diretta e democratica di un Coordinatore educativo da parte del collegio dei docenti, perché la scuola dell’autonomia esige democrazia e partecipazione. Nello stesso tempo rafforzare e fortificare, per qualità professionali e competenze, il profilo del Direttore dei servizi generali e amministrativi (laurea in economia aziendale, giurisprudenza o equipollenti) per la governance giuridica-amministrativa delle scuole. Con la scelta dei Coordinatori da parte del collegio dei docenti si potrebbe non essere più costretti all’accorpamento delle istituzioni scolastiche, finalizzate, nel compromettere ogni forma di didattica e nel sottrarre sedi di scuole alle piccole comunità, al risparmio. Anzi, si riconoscerebbe, così, lo status delle scuole sia a rischio sia di eccellenza;
  • valorizzare il ruolo dei docenti sia riconoscendo l’insegnamento come una professione logorante e usurante sia equiparando i diritti e i doveri degli insegnanti italiani a quelli europei (compresi orario di lavoro e stipendio: in Germania, ad esempio, a fine carriera, i docenti percepiscono 80.378 euro annuali; invece, in Italia, a fine carriera, ne percepiscono annualmente appena 34.052);
  • abolire il finanziamento (223.000.000 euro) delle scuole paritarie e private, rispettando l’art. 33 della Costituzione che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”;
  • valorizzare e non abolire i titoli di studio. Il mercato e i poteri forti aspirano ad abolire i titoli di studio per emarginare le classi sociali più deboli;
  • far acquisire alle scuole la funzione di palestra della democrazia per costruire, attraverso una cittadinanza attiva, una società aperta e interculturale;
  • considerare gli studenti come soggetti di diritto e di doveri verso il mondo sociale e immaginare la scuola come un bene pubblico e condiviso. La scuola, in tutte le società democratiche, svolge, infatti, una funzione sociale;
  • introdurre nella scuola primaria insegnanti per aree disciplinari. Non è umanamente immaginabile che un solo insegnante possa svolgere il ruolo di tuttologo;
  • prevedere che ogni docente di una classe di concorso (ad esempio A019 – Filosofia e Storia) sia, dopo che la scuola si sia dato un rigoroso ed equilibrato regolamento, assegnato a un’aula. Gli studenti dovrebbero, in tal modo, scegliere responsabilmente e liberamente l’aula da frequentare. Il docente sarebbe, così, costretto a formarsi e qualificarsi continuamente; in verità, bisogna attrezzarsi culturalmente e professionalmente perché ormai si sta andando verso questa prospettiva. Gli insegnanti, a livello globale, devono prendere coscienza e rendersi conto del rischio, che, nel futuro, le scuole saranno costrette ad essere, nella società totalitaria e neoliberista, controllate dalle piattaforme online. Oggi le imprese globalizzate sono i colossi delle reti informatiche (Google, Facebook, Amazon e Microsoft). Questi hanno, come sostiene Shoshana ZUBOFF in Il capitalismo della sorveglianza, costruiti sistemi per trasformare i comportamenti umani attraverso attività pervasive, messe in atto dal capitalismo totalitario, non sfruttando più soltanto la natura, come avveniva con la fase del capitalismo dialettico, ma, con i mezzi tecnologici, anche l’essere umano, asservendone l’anima e la mente.
  • abolire l’insegnamento delle discipline opzionali e a scelta individuale. Gli studenti che intendono liberamente usufruirne dovrebbero con rette mensili pagarsi tali insegnamenti;
  • aspirare, infine, a un Ministero dell’istruzione che si convertisse in un Dicastero delle future generazioni per una crescita intelligente e pubblica.

La scuola, in tal modo, potrebbe diventare un concreto luogo di formazione ricorrente e continua di tutti i cittadini ad acquisire conoscenze appropriate, per interpretare la società complessa, e a conseguire competenze adeguate, per governarne, in maniera autonoma e responsabile, i processi.