Non accettarmi come sono

Non accettarmi come sono

di Maria Grazia Carnazzola

“Non accettarmi come sono” è il titolo del libro con il quale lo psicologo Reuven Feuerstein vuole sottolineare l’importanza di avere una visione ottimistica delle persone e della possibilità che ciascuno ha di modificarsi sotto il profilo cognitivo, emotivo e comportamentale. Se l’intelligenza, come sostiene, non è un dato immodificabile- pur considerando le situazioni personali oggettive- e se l’uomo ha una struttura modificabile, l’accettazione acritica delle “fragilità” diventa un’ingiustizia verso la persona e la qualità della sua vita futura. Chi è in situazione di fragilità ha il diritto di cambiare come chiunque altro: la paternalistica accettazione e la tolleranza di routine- che si fondano su una visione pessimistica dell’uomo- rappresentano un’ingiustizia che diventa l’alibi per l’emarginazione di fatto. Feuerstein era perfettamente cosciente dell’effetto che il titolo del suo libro poteva avere sui possibili lettori, ma era fermamente convinto del suo approccio perché, condivido, la disabilità non può oscurare l’individuo. Se non parliamo più di Matteo ma dell’alunno con ritardo cognitivo, o non parliamo di Giovanni ma dello studente autistico, creiamo stereotipi che vanno in senso contrario a quello dell’inclusione. Riprendendo il titolo, la sintesi potrebbe essere: non accettarmi come sono, ma rispettami per quello che sono.

2. Linclusione va progettata, pianificata, realizzata, valutata, implementata: le Linee Guida.

Recentemente sono stati resi pubblici, unitamente alle Linee Guida, i modelli per la redazione del PEI da utilizzare nella scuola dell’Infanzia, nella scuola Primaria, nella Secondaria di primo e di secondo grado, a partire dal giugno prossimo. Non intendo qui analizzare i modelli o le Linee Guida o altre fonti normative, anche se qualche accenno sarà inevitabile. Procederò ad una disamina, meno descrittiva e più problematizzante, del documento al cui interno ciascuna scuola può trovare elementi di positività e di criticità in relazione alle pratiche agite, alla cultura psico-pedagogica e alle pratiche già condivise. Il decreto interministeriale da una parte delinea i percorsi possibili per l’integrazione, dall’altra le azioni da compiere per individuare le risorse necessarie- e da richiedere- perché il processo di inclusione si possa realizzare appieno con la collaborazione di tutti.

• Nel testo sono evidenti:

-i riferimenti alla normativa, nazionale ed internazionale;
– il rimando ai raccordi necessari perchè il progetto di scuola, quelli degli altri Enti/Istituzioni, famiglie in primis, nella formalizzazione del PEI- che può essere lo strumento di integrazione tra istituzioni-, negli aspetti burocratici e di realizzazione, con chiara assunzione di responsabilità nell’interesse primario della persona con disabilità;
-il riferimento al modello bio-psico-sociale di funzionamento dell’ICF;
– lo strategico legame che deve esserci tra scuola e contesto territoriale, per la messa a sistema degli interventi, delle pratiche e dei monitoraggi, verifiche, valutazioni necessari per le eventuali riprogettazioni;
– per la prima volta, la presa in carico dell’orientamento e dell’accompagnamento al mondo del lavoro per gli studenti delle superiori.

• Rimangono in ombra le definizioni:

– degli standard per le azioni per l’inclusione e per il raccordo orientamento/inclusione;
– delle modalità per la formazione per tutti i docenti in ingresso e in itinere;
– di un chiaro quadro teorico di riferimento per la formazione degli insegnanti di sostegno;
– di un quadro di riferimento complessivo che coordini e valorizzi le diversità di cultura e di mission dei servizi coinvolti nella progettazione/realizzazione dei percorsi di inclusione, necessario per non continuare a muoversi nell’ottica dell’emergenza dello specifico problema da affrontare.

• Rimangono da approfondire alcuni aspetti (per evitare di fermarsi al mero adempimento):

– che la certificazione e la diagnosi funzionale (ora profilo di funzionamento) sono fattori di inclusione e non di discriminazione. Devono servire in primis al diretto interessato;
– che per una vera inclusione serve una scuola strutturalmente inclusiva, che sappia costruire senso di appartenenza, autonomie e fiducia che è il bene immateriale di cui c’è estrema necessità.
– che i nuovi modelli di PEI, e le nuove procedure indicate nel Decreto 182 del dicembre scorso, sono aspetti “tecnici” di cui occorre individuare- per praticarle- le logiche e le ragioni etico-sociali. Il pericolo è, ancora una volta, che ci si limiti agli adempimenti, cambiando le parole anziché le pratiche. Sappiamo che le “tecniche” e gli strumenti sono necessari, ma che non bastano.

3. Riflettere sulle parole e sulle pratiche.

Le parole non sono le pratiche. E ce ne stiamo rendendo sempre più conto, anche se dobbiamo riconoscere a J.L. Austin che con le parole si “fanno cose” a diversi livelli. E di parole nelle Linee Guida ce ne sono molte, tanto da farle assomigliare più a delle istruzioni per l’uso. Ma in questo momento forse va bene così, per riportare al centro il tema dell’inclusione.

La scuola, per vocazione, non può che essere inclusiva perché la sua mission è quella di contenere/ridurre i dislivelli culturali e sociali, promuovendo le diverse potenzialità degli individui, nell’ottica di quel Benessere Equo e Sostenibile (BES) a cui fa riferimento il testo del marzo 2013 del CNEL-ISTAT, considerato uno degli indicatori dello stato di salute di un Paese, oltre al Pil. L’inclusione presuppone la pluralità, quindi la differenza, che va accolta e non negata. Accogliere e vivere la differenza implica di riflettere sul passaggio dal rifiuto all’accettazione che è cosa molto diversa dall’indifferenza. Se, parafrasando Watzlawich, il rifiuto postula il riconoscimento mentre l’indifferenza lo nega, di quale inclusione e di quale appartenenza parleremmo? Partecipare non è sinonimo di sentirsi parte. Le conoscenze e la pluralità delle relazioni sono gli strumenti primari nel percorso di inclusione: ne teniamo conto quando pensiamo che il bambino, l’alunno, lo studente con disabilità “siano” dell’insegnante di sostegno? Gli studenti, tutti, fanno parte di una classe, affidata a un Consiglio che risponde del lavoro e degli esiti di tutti gli allievi. Il nodo fondamentale è quello della didattica strutturalmente inclusiva, centrata sui bisogni e sulle risorse personali, lavorando oltre che sul clima della classe, sulla relazione tra insegnare/apprendere: non si apprendono le discipline ma attraverso le discipline e si può insegnare bene senza che gli allievi apprendano. Il lavoro di ogni Consiglio di classe deve fondarsi su aspettative realistiche, integrato, pianificato/programmato cercando di immaginare ognuno nel mondo reale, nelle concrete situazioni esistenziali e come cittadino del futuro. L’obiettivo è anche quello di evitare/ridurre il rischio di patologie relazionali e di sottoutilizzazione sociale, di aumentare l’autoconsapevolezza e il senso di autoefficacia- che porta con sé la resilienza: di essere di supporto al progetto di vita.

4. Il PEI, strumento fondamentale di raccordo.

Il Piano Educativo individualizzato, così come viene presentato, dovrà permettere di convergere e di lavorare insieme- famiglia, scuola, servizi…- su obiettivi condivisi e per “risultati attesi” concretamente perseguibili e reciprocamente verificabili, nel rispetto dello specifico mandato istituzionale e della deontologia professionale. Riflettendo insieme sulla funzionalità/disfunzionalità delle relazioni, sulla composizione/scomposizione dei compiti, sull’analisi delle modalità decisionali e sull’assunzione delle responsabilità, partendo dal Profilo di funzionamento o, in sua assenza, dalla diagnosi funzionale.

Diagnosi e progetto di intervento sono due facce della stessa medaglia; fare una diagnosi (o delineare un profilo) non significa stigmatizzare, ma guardare in profondità, oltre l’apparenza, per poter comprendere la persona e il senso che ciascuno dà a se stesso, alla propria vita e a quello che vuole essere. Non a caso si parla di diagnosi funzionale, non ci si limita alla diagnosi categoriale che rimanda al DSM-V e agli aspetti medico- organici. La diagnosi funzionale tiene conto dell’insieme delle relazioni dentro il contesto; le relazioni nascono dalla rappresentazione: se mi rappresento come “incapace” tenderò a leggere le situazioni con questa lente e sarà difficile dare un significato prospettico e costruttivo al progetto di vita e alle situazioni quotidiane. Non basta rimanere alla superficie, bisogna andare in profondità, guardare di nuovo con rispetto, parola che, come sappiamo, viene dal latino respicere che significa anche guardare ancora. È stata prevista una formazione riferita alle linee guida per tutto il personale della scuola. Mi piacerebbe che, prima degli aspetti tecnici riguardanti i nuovi modelli di PEI, si riflettesse su alcuni aspetti che costituiscono la base per qualsiasi azione di cambiamento, perché l’educazione esiste dentro una cultura, diceva Bruner, e in questa cultura bisogna operare, riflettendo insieme, nello specifico, su alcuni aspetti:

-le fragilità (disabilità, BES,DSA…) stanno dentro la complessità della società, della scuola, della famiglia;
-le fragilità non sono problemi in sé, ma pongono problemi; sono condizioni particolari in cui si trovano le persone per periodi più o meno lunghi;
-richiedono riconoscimento, “accoglienza”, rispetto, preparazione, responsabilità a cui la scuola dovrebbe rispondere alzando il livello di competenza didattica e non abbassando il livello delle richieste;
-il tema della dispersione e dell’orientamento sono strettamente collegati agli aspetti sopra indicati e rimandano alla necessità della formazione dei docenti e di tutto il personale della scuola, formazione che non può limitarsi alla necessaria conoscenza dei nuovi strumenti e delle nuove procedure, ma che deve partire, in ogni scuola, dalle pratiche agite per trovare un ponte tra quello che già si fa e quello che è richiesto di fare, lavorando tra manutenzione e innovazione, distinguendo il teorema dai corollari.

5. Per concludere.

Di qualsiasi argomento parliamo, c’è un tema generale, in questo caso l’inclusione di bambini, alunni, studenti, e ci sono altri temi che sono correlati come il numero dei posti di sostegno, la numerosità delle classi… aspetti egualmente importanti, ma che sono altro. Non si possono in continuazione sovrapporre le dimensioni, come qualche volta fanno gli specialisti della polemica: la polemica allarma e disorienta la società. Chi conosce la scuola sa perfettamente che il problema delle risorse, umane e strumentali, per accogliere e prendersi cura al meglio di tutte le diversità è centrale. Ma sa anche che il surplus di risorse crea problemi esattamente come la loro carenza. L’inclusione non può prescindere da una visione sistemica delle persone dentro i contesti dove la logica “dell’aggiungere”, da sola, non può funzionare. La direzione deve essere quella del miglioramento continuo per l’inclusività, sulla base di riflessioni condivise che rimandano al processo di autovalutazione e alla riprogettazione funzionale alle esigenze reali, anche in considerazione delle risorse professionali e di esperienze, tutte, presenti nella scuola, in famiglia, nel contesto sociale, negli altri Enti/Istituzioni.

BIBLIOGRAFIA

Feuerstein R., Non accettarmi come sono, RCS Libri e Grandi Opere S.p.A, Milano;
Watzlawitch P., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1971; Agenda Globale Onu per lo sviluppo sostenibile 2030;
Decreto Ministero Istruzione,29/12/2020 n. 182 e Linee Guida;
Austin J. L., Come fare cose con le parole, Marietti Editore, Bologna 2020
Bruner J., La cultura dell’educazione: nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano1997.