«Solo il 12% dei figli si laurea se i genitori sono poco istruiti»

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da Il Sole 24 Ore

di Claudio Tucci

Per alcuni è l’onda lunga della “generazione 1000 euro”, con laureati, in discipline con poco appeal sul mercato, inchiodati in impieghi precari. Per altri, è la difficoltà economica, acuita dalla crisi. Per altri ancora, è la mela avvelenata della “scolarizzazione di massa”, dove a quella sfida di consentire a tutti, abbienti e non, di ambire ai livelli più elevati di istruzione non è poi corrisposto un forte orientamento e valorizzazione del merito, facendo così perdere di vista a tanti genitori, soprattutto quelli meno formati, e figli, i vantaggi, anche economici, del “pezzo di carta”. Fatto sta che quell’ascensore sociale, un mantra di tutti i ministri dell’Istruzione dagli anni ’70 in poi, si sta pericolosamente fermando.

Lo studio che l’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, rende noto domani, e poi il 4 marzo sul nuovo numero della rivista scientifica Sinappsi, parla da solo: appena il 12% dei giovani ha probabilità di arrivare alla laurea se i genitori posseggono la licenza media. Scendiamo al 6% se mamma e papà non hanno alcun titolo di studio. Se invece nella famiglia d’origine si è arrivati almeno al diploma, il 48% dei figli, quasi uno su due, può arrivare al titolo terziario. Se il ragazzo è più fortunato, e ha i genitori laureati, sale al 75% di probabilità di laurearsi anch’egli.

La ricerca ha preso in considerazione un campione di individui nati il 1977 e il 1986, quindi i “quarentenni” di oggi, il cuore della forza lavoro.

I dati trovano una conferma nell’ultima rilevazione Ocse (2018). Nel nostro Paese, tra i 25 e i 64 anni, appena il 30% ha completato il livello di studi secondario, l’8% quello universitario e il 62% quello elementare e medio inferiore. Questo significa che oltre 6 italiani su 10 hanno un livello di istruzione basso, e ciò ci colloca tra gli Stati meno istruiti. Tutto ciò ha un impatto diretto sul rendimento degli investimenti in istruzione, anch’esso tra i più bassi nell’area Ocse: i soggetti con titolo di studio universitario guadagnano in media solo il 40% in più rispetto a quelli con istruzione secondaria superiore, 20 punti in meno della media Ocse (60%), e siamo molto lontani da Germania e Francia.

Sul perché le famiglie meno istruite non trovano vantaggioso investire nel capitale umano dei propri figli il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, economista ed esperto di welfare e formazione, indica motivi economici (cali di reddito, sempre più famiglie con una sola entrata) e aspetti culturali, ma chiama in causa pure il sistema scolastico, «che va ricalibrato», puntando su «politiche pubbliche che incidano sulle disparità offrendo agli individui capaci e meritevoli, ma privi di mezzi le risorse necessarie a raggiungere un livello di istruzione adeguato».

Per Carmela Palumbo, dg dell’Usr Veneto, e 30 anni di esperienza ai vertici della scuola, dietro il disinvestimento delle famiglie nell’istruzione legge altre due ragioni: «In primo luogo, il sentimento di sfiducia circa lo scenario economico futuro del nostro Paese: uno scenario che non sembra promettere una fase espansiva – osserva -. E poi, si enfatizzano molto storie di successo individuale, numericamente esigue in realtà, che non appaiono costruite sulla competenza, ma su altri fattori quali ad esempio la notorietà sui social network». «Le famiglie oggi si sentono abbandonate dallo Stato – sottolinea Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle Associazioni Familiari -. La fatica di arrivare a fine mese, i costi troppo elevati di tasse e spese di formazione, e i dubbi sull’effettiva utilità a livello di carriera e di realizzazione economica sono alcuni dei motivi che influiscono nella scelta di tanti genitori». Chi ci prova spesso lascia in anticipo gli studi; la dispersione è al 13,5%, ed è destinata ad aumentare con la pandemia e l’abuso di Dad. La fotografia dell’Inapp sui quarantenni di oggi è preoccupante in un Paese già in affanno. Abbiamo circa 13 milioni di adulti con basso livello di istruzione (il 20% della popolazione adulta europea), 11 milioni tra i 16 e i 65 anni con difficoltà nelle “literary” (indagini Piaac); siamo in coda per laureati, 19,6%, contro una media Ue pari a un terzo (33,2%, dato Istat); e andiamo male quanto a giovani laureati Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics), peraltro le più ricercate nelle assunzioni: il 24,6% dei 25-34enni ha una laurea in queste materie tecnico-scientifiche (il 37,3% sono uomini, appena il 16,2% donne).

Le imprese sono preoccupate. «In Italia si avverte ancora poco la gravità di un ascensore sociale bloccato, che è anche il frutto di un mancato dialogo tra scuola e impresa – avverte Gianni Brugnoli, vice presidente di Confindustria per il Capitale umano -. Tanti giovanissimi spesso non conoscono le opportunità di lavoro che offrono le aziende del territorio. Ed è per questo che sia loro che le loro famiglie, specie se meno abbienti, non investono in istruzione: non vedono prospettive, finendo quasi sempre in quella trappola dei Neet che sarà ancora di più aggravata dalla pandemia. Dall’esperienza di Confindustria invece è evidente che gli strumenti per collegare l’istruzione all’occupabilità ci sono, a cominciare da un adeguato orientamento alle medie che poi diventa alternanza e apprendistato alle superiori, fino magari a un Its o un dottorato industriale. Questi strumenti di integrazione studio-lavoro vanno messi a sistema e diventare diritto di tutti: è quello che chiediamo al governo di fare, e presto».