Scuola, i conti con la realtà

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da la Repubblica

Proviamo, per una volta, a guardare in faccia la realtà della crisi che stiamo attraversando e a smetterla, soprattutto quando si parla della scuola, di cullarci in uno stupido e irrealistico ottimismo? Che senso ha continuare a cambiare idea ogni settimana, a promettere e a non poter poi rispettare la parola data, a chiudere e aprire e richiudere, affermando che non è a scuola che ci si infetta subito prima di affermare l’esatto contrario, e aggiungendo magari poi che basterebbe vaccinare gli insegnanti per risolvere il problema dei contagi? E i genitori degli studenti e delle studentesse quand’è che li si vaccina? E i loro zii? E i nonni? Per ora, le dosi di vaccino disponibili sono troppo poche. Per ora, le molteplici varianti del virus creano scompiglio e si stanno dimostrando devastanti. Per ora, passare il tempo a criticare la Dad – invece di ripensarla e strutturarla e renderla soprattutto accessibile a tutti e a tutte distribuendo tablet, computer e chiavette – non serve a nulla. Anzi. Litigi e polemiche impediscono solo di trovare soluzioni adeguate nell’attesa che un giorno, forse ancora lontano, tutto si rimetta a posto. Gli inglesi hanno un’espressione molto bella quando parlano di questo tipo di atteggiamenti: per loro si tratta di wishful thinking , letteralmente: “pensiero desideroso”. E, in genere, l’utilizzano quando si trovano confrontati a chi, negando l’evidenza, non riesce più a distinguere tra “ciò che vorrebbe” e “ciò che è”. Ma non è forse proprio questo che accade ormai da mesi in Italia ogniqualvolta si parla della scuola, si insiste sulla necessità di tornare in classe, si discute del bisogno che i ragazzi avrebbero di ascoltare dal vivo i propri professori, e si disserta sulla povertà della Dad?

Intendiamoci. Sono anch’io un’insegnante. E sono la prima a non poterne più della Dad, a essere stremata, a ritrovarmi la sera con il mal di testa o la nausea, e a sapere bene quanto dolore si nasconde dietro quei rettangoli neri di fronte ai quali faccio ore e ore di lezione ogni settimana. Ma forse è arrivato il momento, anche per me, di fare i conti con la realtà e mettere in fila la lista delle priorità senza perdermi in chiacchiere inutili. Se lo scopo è quello di ritrovare la vita di prima, dobbiamo innanzitutto uscire dalla crisi sanitaria. Il che non significa aspettare e arrendersi e rassegnarsi. Anzi. Si tratta di pretendere dal governo un piano vaccinale che permetta di arrivare a un’immunità di gregge prima dell’estate, ottenendo le dosi necessarie e organizzandone la somministrazione. Basta con tutti questi litigi tra governo e Regioni, docenti e studenti, politici e giornalisti. Basta con chi pontifica sull’importanza primordiale della scuola in presenza, senza magari mai averci insegnato e senza sapere cosa significhi fare cinque ore di seguito di lezione su Zoom, passando le notti a cercare tutorial per imparare a condividere video e diapositive, utilizzare Wooclap e Moodle, creare contenuti interattivi, usare Wooflash, Wiki e tanti altri strumenti che non solo permettono di non perdere il contatto con i ragazzi e le ragazze, ma che aiutano anche a stimolare la loro creatività e la loro autonomia riflessiva. Vi assicuro che, nonostante i miei ormai oltre 50 anni, e la mia assoluta ignoranza digitale, ce l’ho fatta pure io a cambiare radicalmente modo di insegnare, riuscendo nonostante la distanza, a imparare il nome dei miei oltre 150 studenti, anche se di molti di loro non abbia mai nemmeno visto il viso e mi sia dovuta accontentare del suono della voce. Mi piace la Dad? Ovviamente, no. E non vedo l’ora di ritrovarmi di nuovo in aula, sporcarmi di gesso mentre scrivo alla lavagna, camminare tra i banchi e cogliere le espressioni dei visi, percepire gli sguardi a tratti vuoti a tratti emozionati, cambiare il ritmo delle lezioni a seconda dell’attenzione generale. Ma per ora mi adatto e stringo i denti. E non è detto che tutto ciò che ho imparato nel frattempo non lo utilizzi poi anche quando ricomincerò a fare lezione in presenza. I nostri ragazzi sono nativi digitali, e sono abituati a restare con gli occhi sugli schermi dei cellulari o dei computer per ore e ore.

A loro non è la didattica in presenza che manca. A loro manca la vita e la gioia e le risate e le pacche sulla spalla e le sigarette fumate di nascosto e le merende condivise. Tutto quello che oggi non si può (e non deve) fare anche se ci si dovesse ritrovare tutti in classe. E poi forse, a molti di loro, manca pure la capacità di alcuni insegnanti di adattare la didattica alla situazione, ossia di essere elastici, ossia di essere veri insegnanti. Perché l’insegnamento è elasticità. Ma se i primi a non adattarci siamo noi, che cosa possiamo mai sperare di trasmettere ai nostri studenti?