Il bambino dal linguaggio ai fonemi

Il bambino dal linguaggio ai fonemi

di Pietro Boccia

Introduzione

Il linguaggio è, nel processo della comunicazione, uno strumento importante. Esso può essere umano oppure animale. Il termine è stato coniato, nel 1957, dal linguista Noam CHOMSKY in un saggio dal titolo Le strutture della sintassi. Il linguaggio umano è il segnale innegabilmente evidente della più alta conquista del pensiero. Esso trova la sua concreta esplicazione nella lingua e nella sua continua trasformazione. Alcune parole cadono in disuso e altre entrano, infatti, a far parte del vocabolario di una lingua.

Lo sviluppo del linguaggio verbale ha sicuramente un andamento regolare e non può prescindere dalla maturazione e dall’apprendimento. L’ambiente è, pertanto, importante per imparare a parlare.

Il linguista CHOMSKY, pur essendo il teorico della trasmissione genetica del linguaggio, ha sostenuto che è facile comprendere quanto le condizioni ambientali siano decisive per l’acquisizione della parola. I fattori ambientali non hanno soltanto la funzione di far acquisire a ognuno un vocabolario adeguato, ma anche quella di far sviluppare, attraverso regole didattiche e semantiche, quei principi linguistici, che sono determinati geneticamente. Anche la comunicazione non verbale ha la funzione di gestire facilmente le relazioni sociali. Essa è, a volte, un supporto del linguaggio e, altre volte, addirittura si sostituisce a esso. Ha, in ogni modo, nella maggior parte dei casi, anche la funzione di comunicare le emozioni.

La comunicazione non verbale non è, in ogni caso, un patrimonio soltanto umano. Essa, per gli animali, privi di linguaggio verbale, diventa, anzi, una peculiarità. Negli ultimi anni, gli etologi e gli psicologi hanno avuto un particolare interesse per lo studio della comunicazione animale.

L’essere umano resta indifeso, rispetto agli altri mammiferi, per un periodo maggiore. Nei primi mesi di vita il bambino dipende interamente dalla figura materna, che ne rappresenta tutta la realtà. Il suo mondo affettivo, essendo limitato ai soli bisogni innati, che devono, in ogni modo, essere soddisfatti, diventa la madre, fonte di ogni gratificazione. I bisogni sono dominati dal principio del piacere immediato.

Nei primi mesi di vita del bambino, instaurandosi un proficuo legame affettivo e di socializzazione con la madre, si sviluppa, pertanto, la comunicazione non verbale. L’uomo incomincia a comunicare all’atto del concepimento. All’atto della nascita, pur se il suo sistema nervoso è ancora immaturo, il neonato già possiede, perciò, una miriade di cellule cerebrali e di connessioni tra i neuroni, necessarie per camminare, per parlare, per percepire e per ricordare. Egli respira, si nutre, dorme, succhia, sbadiglia, strilla, deglutisce, sgambetta, piange: sono tutti momenti della sua comunicazione; il primo atto comunicativo rimane il vagito, che non solo è la prima espressione fonetica, ma anche il punto di partenza del linguaggio manifesto che appare al momento della respirazione polmonare.

Il neonato, nei primi giorni di vita e soprattutto quando deve soddisfare i suoi bisogni primari (fame, sete e sonno), spesso emette vagiti. Trascorsa tale fase (circa trenta giorni), egli incomincia a emettere i primi suoni gutturali, specialmente in concomitanza con gli stati gratificanti. Bisogna, in ogni caso, precisare che la comunicazione non verbale nel neonato si manifesta in due modi diversi: espressione non verbale e produzione delle vocali.

L’espressione non verbale si realizza con sorrisi, sguardi e gesti. Con il sorriso, il bambino trasmette agli altri un preciso segnale di emozioni positive (gioia, piacere e

tenerezza). Il sorriso può essere riflesso e sociale. Quello riflesso è espresso solo con i muscoli della bocca. Il neonato ancora non riesce a utilizzare i muscoli degli occhi. Il sorriso sociale si manifesta, invece, quando il neonato, armonizzando i muscoli della bocca e degli occhi, incomincia a rispondere sia alla voce umana sia ai volti familiari. L’altro strumento di espressione non verbale, nella primissima infanzia, è lo sguardo, che si fonda sui primi contatti e sugli scambi di informazioni.

Il neonato, a circa otto mesi, usa lo sguardo per costringere, ad esempio, la madre a condividere o l’oggetto che egli stringe tra le mani oppure l’azione che è sul punto di compiere. Il neonato, in seguito, con lo sguardo pretende l’approvazione del suo operato o l’aiuto per completarlo.

Un altro mezzo di espressione non verbale è il gesto. La comunicazione gestuale è utilizzata dal neonato, quando vuole soprattutto indicare o chiedere degli oggetti. Anche il pianto è, per il neonato, un efficace mezzo di comunicazione non verbale. Esso è già, in verità, una forma «sofisticata» di comunicazione e, pertanto, il neonato, utilizzandolo, alterna pause ed espressioni sonore. Esistono vari tipi di pianto (di dolore, di rabbia, di sofferenza). Il pianto di dolore si distingue dagli altri, perché presenta una pausa alquanto lunga; quello di rabbia presenta una pausa più breve e quello di sofferenza è acuto o profondo.

Ogni mamma sa istintivamente distinguere perfettamente il tipo di pianto che manifesta il proprio neonato. Con il pianto è ormai sopraggiunta, nell’infanzia, la seconda fase di comunicazione non verbale: la produzione delle vocali. Tale tipo di comunicazione porta il neonato ad acquisire il linguaggio preverbale:

– la formazione dei suoni nella prima fase; – la lallazione nella seconda;
– il balbettio nella terza fase;
– l’imitazione dei fonemi nella quarta.

I suoni, che appaiono per prima, sono quelli gutturali; appena dopo compaiono i suoni labiali e dentali. Il bambino, dai quattro agli otto mesi, emette una molteplicità di suoni e sembra divertirsi a compiere veri e propri esercizi fonetici (balbettii, ecolalie). Egli, se stimolato dalla madre, s’impegna al massimo in tali attività e riesce anche a stabilire, con qualche suono articolato e con i sorrisi, un vero e proprio dialogo con gli altri oppure a esercitarsi tramite il variare della tonalità dei suoni con soliloqui. Il bambino, a circa un anno, dopo il lungo periodo della lallazione e del balbettio, incomincia a utilizzare i fonemi e i morfemi; i suoi enunciati sono, in tale fase, formati da una sola parola.

L’apparato fonatorio (cavità boccale, corde vocali, fosse nasali, labbra, laringe) si è formato. È da precisare che le parole si dividono in piene e funzionali. Le prime sono i nomi, i verbi, gli aggettivi e gli avverbi; le seconde sono rappresentate, invece, dagli articoli, dai pronomi, dalle preposizioni, dalle congiunzioni e dalle interazioni.

Ogni bambino incomincia a distinguere le une dalle altre, utilizzandole, intorno ai venti mesi. La prima parola che un bambino acquisisce, comprendendone anche il significato, è quella del “no”. Questo dimostra che egli, per prima cosa, interiorizza i divieti, imposti dalla madre o dal contesto in cui vive. Il bambino, in tale periodo, possiede già un linguaggio verbale. Il vocabolario e la sintassi sono i due elementi di una lingua che, non intervenendo disturbi e patologie, si sviluppano lentamente e gradualmente. La lingua è un insieme di fonemi (suoni, vocali e consonanti), che, uniti, costituiscono il morfema (la più piccola parte del linguaggio che ha un significato).

Il bambino, con i morfemi, già può incominciare a esprimere situazioni complesse; tuttavia, per comunicare con gli altri, dovrebbe acquisire non solo la capacità di comporre frasi, ma dovrebbe, per poterle organizzare in periodi logici, anche conoscere tutte le regole grammaticali e sintattiche della propria lingua. È, poi, indispensabile, per comprendere il significato di una parola e utilizzarla opportunamente nella struttura sintattica, l’acquisizione della semantica.

Un bambino incomincia a sviluppare il proprio vocabolario:
– con l’acquisizione della prima parola, solo intorno ai dieci mesi;
– s’impossessa, a circa un anno, di tre parole;
– a un anno e mezzo acquisisce ventidue parole;
– a tre anni ormai possiede un vocabolario di 896 parole;
– a quattro anni il bambino, in generale, ha acquisito 1540 parole;
– a cinque anni possiede un vocabolario di 2072 parole;
– l’acquisizione del vocabolario ha un ritmo progressivo, che si conclude con 2562 parole intorno al sesto anno.
Il massimo dell’incremento delle parole che si apprendono, avviene normalmente dai due ai sei anni. Lo sviluppo del linguaggio e quello dell’intelligenza, in larga misura, s’influenzano reciprocamente. Intorno ai cinque anni, il piccolo dell’uomo, ormai impadronitosi dell’uso dei tempi verbali, delle proposizioni coordinate e subordinate, del plurale, è capace di costruire frasi articolate e complesse. Egli non si limita più a ripetere forme grammaticali apprese dagli adulti, ma, avendo acquisito alcune regole della sintassi, riesce a elaborare, combinando più frasi, autonomamente un vero e proprio discorso articolato.

La struttura della frase, sia formale, in cui le regole riguardano il suo aspetto esteriore, sia di senso, è una conquista lenta. Il bambino, inizialmente, deve acquisire la capacità di comporre i suoni, attraverso la fonologia; deve, poi, impossessarsi della struttura delle parole, attraverso la morfologia e, solo dopo tale iter, potrà acquisire il modo di organizzare sintatticamente le frasi.

Il bambino dal linguaggio telegrafico alla grammatica binaria

I bambini, fin dalla nascita, reagendo ad alcuni stimoli, emettono anche suoni vocalici. Questi possono essere di due tipi: il gemito, che dura per un breve periodo; il grido, che è ripetitivo e dura anche per alcuni minuti. Il bambino, quindi, non vocalizza soltanto quando piange. Le vocalizzazioni nei bambini non si manifestano con gli stessi suoni.

La maggioranza dei suoni è simile alla “a”. Alcuni bambini vocalizzano, utilizzando la “e” e addirittura riescono pure a inserire tra le vocali le produzioni foniche di qualche consonante come la “gh” o la “r”. La vocalizzazione è, quindi, una forma “sofisticata” di comunicazione. I bambini, che vocalizzano, durante i primi sei mesi di vita, sicuramente si trovano in uno stato di eccitazione sia per quello che vedono sia per quello che sentono.

Ogni bambino, in tale periodo, quando sente un suono o vede un volto, cessa di vocalizzare o di piangere, ma appena scompare l’uno o s’interrompe l’altro, ricomincia, per riprodurre il fenomeno, con più intensità a emettere vocalizzazioni e pianti. Un’altra forma “sofisticata” di comunicazione è, durante l’infanzia, il pianto.

Il neonato proclama la propria nascita con il vagito; in seguito annuncia, utilizzando il pianto (suo primo strumento di comunicazione vocale), alla madre e al mondo esterno tanto le proprie esigenze quanto i propri disappunti; con il passare dei mesi e anche

degli anni il pianto diventa, per il bambino, soprattutto una reazione interiore per comunicare sensazioni, emozioni e sentimenti. Normalmente si pensa che il pianto sia un fatto negativo, ma studi più approfonditi hanno dimostrato che esso è, in generale, lo strumento di comunicazione più efficace non solo tra il figlio e la madre, ma anche tra il bambino e il mondo circostante.

Il neonato, attraverso il pianto, reagisce agli stimoli esterni e si fa strada per maturare e crescere. Con gli strilli e il pianto egli riesce anche a operare dei controlli su ciò che gli accade e, nello stesso tempo, a ottenere delle risposte dalla madre e dagli adulti. Il bambino piange e, come per magia, compare la madre. L’arrivo della madre diventa, così, l’effetto del pianto e, di conseguenza, egli è incoraggiato a ripetere tale comportamento. Anche il pianto è, dunque, un eccezionale e “sofisticato” strumento di comunicazione.

Il bambino, a circa un anno, dopo il lungo periodo della lallazione e del balbettio, incomincia a utilizzare i fonemi e i morfemi; i suoi enunciati sono, in tale fase, formati da una sola parola. L’apparato fonatorio (cavità della bocca, corde vocali, fosse nasali, labbra, laringe) si è strutturato. E’ da precisare che le parole si dividono in piene e funzionali. Le prime sono i nomi, i verbi, gli aggettivi e gli avverbi; le seconde sono rappresentate, invece, dagli articoli, dai pronomi, dalle preposizioni, dalle congiunzioni e dalle interazioni. Ogni bambino incomincia a distinguere le une dalle altre, utilizzandole, intorno ai venti mesi.

La prima parola che un bambino acquisisce, comprendendone anche il significato, è quella del “no”. Questo sta a significare che egli, per prima cosa, interiorizza i divieti, imposti dalla madre o dal contesto in cui vive.

Il bambino, in tale periodo, possiede già un linguaggio verbale; egli per comunicare un significato utilizza i suoni. Il bambino ha, dunque, acquisito la parola/frase o l’olofrase. La parola/frase o l’olofrase è l’espressione di una sola parola; racchiude, però, il significato di un’intera frase. Il messaggio, nella fase della parola/frase o dell’olofrase, è più complesso dei suoi significati linguistici.

Il bambino normalmente combina la parola con elementi non verbali dell’ambiente in cui si trova. Solo così, egli riesce a formare una relazione semantica e a comunicare correttamente i suoi bisogni e, inoltre, a distinguere il significato referenziale da quello combinatorio delle parole. Per significato referenziale bisogna intendere quello che una parola, da sola, denota; il significato combinatorio è, al contrario, quello che una parola rappresenta, combinandosi con elementi non verbali. Al periodo olofrastico o della parola/frase dello sviluppo del linguaggio infantile, che si manifesta, in generale, nella prima metà del secondo anno di vita, subentra quello telegrafico o della grammatica binaria.

Verso il diciottesimo mese, nello sviluppo del linguaggio infantile, subentra gradualmente, allo stadio olofrastico o della parola/frase, quello della grammatica binaria o telegrafico. Tale fase è detta della grammatica binaria, perché il bambino acquisisce, in tale periodo, la capacità di associare due parole, come bere mamma, nanna bimbo e così via. Questo è un linguaggio, che viene detto anche telegrafico, perché privo di parole funzionali e, quindi, assomiglia a quello utilizzato per scrivere i telegrammi.

Il linguaggio della grammatica binaria, in ogni modo, anche se rispetto a quello dell’olofrase o della parola/frase è più articolato, è ancora distante dalle espressioni sintattiche della fase successiva.

Nella fase della grammatica binaria, in verità, le frasi possono assumere significati diversi. In esse a una sola struttura di superficie si può far corrispondere più strutture di senso. Ciò non avverrà più nel linguaggio degli adulti, dove la struttura formale e quella di senso tenderanno a coincidere. La caratteristica fondamentale del linguaggio telegrafico o della grammatica binaria è, inoltre, il fatto che il bambino nomini se stesso non in prima, ma in terza persona. Se si chiama Carlo dirà Carlo bere e non io bere. Il pronome personale “io” compare, intorno ai tre anni, vale a dire nella successiva fase dello sviluppo del linguaggio infantile.

Il vocabolario e la sintassi sono i due elementi di una lingua che, non intervenendo disturbi e patologie, si sviluppano lentamente e gradualmente. La lingua è un insieme di fonemi (suoni, vocali e consonanti), che, uniti, costituiscono il morfema (la più piccola parte del linguaggio che ha un significato). Il bambino, con i morfemi, già può incominciare a esprimere situazioni complesse; tuttavia, per comunicare con gli altri, dovrebbe acquisire non solo la capacità di comporre frasi, ma dovrebbe, per poterle organizzare in periodi logici, anche conoscere tutte le regole grammaticali e sintattiche della propria lingua. E’, poi, indispensabile, per comprendere il significato di una parola e utilizzarla opportunamente nella struttura sintattica, l’acquisizione della semantica.

Un bambino incomincia a sviluppare il proprio vocabolario, con l’acquisizione della prima parola, solo intorno ai dieci mesi; s’impossessa, poi, a circa un anno, di tre parole; a un anno e mezzo acquisisce ventidue parole; a tre anni ormai possiede un vocabolario di ottocentonovantasei parole; a quattro anni il bambino, in generale, ha acquisito millecinquecentoquaranta parole; a cinque anni possiede un vocabolario di duemilasettantadue parole; l’acquisizione del vocabolario ha un ritmo progressivo, che si conclude con duemilacinquecentosessantadue parole intorno al sesto anno. Il massimo dell’incremento delle parole che si apprendono, avviene normalmente dai due ai sei anni.

Lo sviluppo del linguaggio e quello dell’intelligenza, in larga misura, s’influenzano reciprocamente. Intorno ai cinque anni, il piccolo dell’uomo, ormai impadronitosi dell’uso dei tempi verbali, delle proposizioni coordinate e subordinate, del plurale, è capace di costruire frasi articolate e complesse. Egli non si limita più a ripetere forme grammaticali apprese dagli adulti, ma, avendo acquisito alcune regole della sintassi, riesce a elaborare, combinando più frasi, autonomamente un vero e proprio discorso articolato.

La struttura della frase, sia formale, in cui le regole riguardano il suo aspetto esteriore, sia di senso, è una conquista lenta. Il bambino, inizialmente, deve acquisire la capacità di comporre i suoni, attraverso la fonologia; deve, poi, impossessarsi della struttura delle parole, attraverso la morfologia e, solo dopo tale iter, potrà acquisire il modo di organizzare sintatticamente le frasi.

Il bambino dal linguaggio ai fonemi

I due versanti del linguaggio sono la produzione (il pensiero che si traduce in suoni) e la comprensione (i suoni che si trasformano in pensiero). Il linguaggio può essere simbolico, strutturato e generativo. Il primo è costituito di parole che rappresentano le cose in modo arbitrario (la parola “telefono” non ha l’aspetto o l’odore di un telefono, lo rappresenta semplicemente).

La natura simbolica del linguaggio ci permette di comunicare su cose, azioni, eventi, sensazioni e idee.
Il linguaggio strutturato rappresenta un insieme di regole precise (grammatica) che governa il modo in cui si possono associare i simboli. Quello generativo è costituito da

regole che ci permettono di fondere le unità in modi potenzialmente infiniti (generando infiniti messaggi diversi).
Il linguaggio, poi, si struttura in unità fonemiche (suoni), morfemiche (parole e le parti delle parole che sono fornite di significato) e sintattiche (frasi e sintagmi). In verità, i fonemi sono le unità minime e distintive di suoni; essi possono corrispondere alle lettere ma non sono a esse riconducibili. Le regole fonologiche di una lingua prescrivono quali fonemi possono essere seguiti da altri (ad esempio, n non può essere seguita da b o p).

Le unità morfemiche (il morfema è l’unità linguistica minima che è dotata di significato) non sempre corrispondono alle parole; esse includono prefissi e suffissi. Le regole morfologiche stabiliscono, dunque, come i morfemi possono essere abbinati per formare le parole. Le unità morfemiche si suddividono in:

– morfemi lessicali (sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi);
– morfemi grammaticali liberi (parole a sé stanti che esprimono una relazione grammaticale, come articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni, verbi ausiliari);
– morfemi grammaticali, collegati a radici (particelle lessicali che veicolano informazioni circa il genere e il numero di sostantivi e aggettivi, come, ad esempio, bell- o, can-i, o tempi e persone dei verbi, come, ad esempio cen-iamo, parl-ava).
Le unità sintattiche (il sintagma è unità sintattica significativa e autonoma, come, ad esempio, soggetto, predicato, complemento). La sintassi (regole sintattiche) stabilisce in che modo bisogna unire le parole in sintagmi e frasi. Qualunque frase (proposizione) è sempre scomponibile in un sintagma nominale (soggetto) e uno verbale (predicato).

Il sintagma nominale ha per testa un sostantivo o un pronome; quello verbale ha, al contrario, per testa un verbo. Il sintagma preposizionale ha, invece, per testa una preposizione che ne determina sia la subordinazione sintattica sia la funzione; quello aggettivale ha per testa un aggettivo. Infine il sintagma avverbiale ha per testa un avverbio.

Il linguaggio, nello svilupparsi, procede dal livello fonemico (appare la lallazione, ad esempio, la ripetizione di fonemi come “babababa”) a quello morfologico (le lallazioni sembrano sempre più alle parole) sino a quello sintattico (linguaggio telegrafico o dell’olofrase). A ogni stadio di sviluppo del linguaggio la comprensione precede la produzione. Al linguaggio, che è universale, subentra la lingua. Questa nasce, in origine, come un insieme di suoni (fonemi).

Nel passaggio dalla lingua parlata alla lingua scritta i suoni sono diventati segni, in altre parole combinazioni di lettere che costituiscono le parole.

La fonologia della lingua italiana è la scienza che studia:

– i fonemi, unità minime non ulteriormente analizzabili, che articolandosi costituiscono le parole;
– gli allofoni, vale a dire le diverse realizzazioni concrete che un fonema ha nella catena parlata, come varianti combinatorie.

Gli allofoni si distinguono in individuali, contestuali e geografici. Gli allofoni individuali sono dovuti alle proprietà fonatorie dei singoli parlanti. Quelli contestuali sono suoni la cui segmentazione è influenzata dai suoni circostanti. Gli allofoni geografici sono delle varianti che hanno una distribuzione delimitata a livello territoriale.

La fonologia è, quindi, la parte della grammatica che studia non solo i “suoni” (fonemi= da phoné, voce) ma anche il modo in cui essi, combinandosi tra loro, comunica

significati.
Per la fonologia le lettere dell’alfabeto riproducono un codice costituito da grafemi che rappresentano l’insieme dei suoni di una lingua.
Nella lingua italiana, le consonanti sono sedici, vale a dire B, b, bi – C, c, ci – D, d, di – F, f effe – G, g, gi – H, h, acca – L, l elle – M, m emme – N, n enne – P, p, pi – Q, q, qu – R, r erre – S, s esse – T – t, ti – V, v, vu / vi – Z, z zeta. Le vocali sono, invece, cinque, in altre parole A, a, a – E, e, e – I, i, i – O, o, o – U, u, u. Ci sono, in Italia, anche cinque lettere, che integrano il nostro alfabeto, sono: J, j, i lunga – K, k cappa – W, w doppia vu – X, x ics

– Y, y ipsilon/i greca.
Le consonanti, per essere pronunciate, devono essere seguite dalle vocali. Esse, secondo le modalità di articolazione, possono essere distinte in:
– occlusive, prodotte attraverso una momentanea occlusione del canale fonatorio, alla quale segue, con il passaggio dell’aria, una sorta di “esplosione” (p, b, t, d, k, ɡ);
– fricative, prodotte con una chiusura parziale dell’apparato fonatorio che al passaggio dell’aria provoca una specie di “frizione” (f, v, s, z);
– affricate, consonanti che cominciano con un’articolazione occlusiva e finiscono con un’articolazione fricativa (t, s, d, z);
– liquide (laterali e vibranti) riunite in consonanti. Quelle laterali sono prodotte con la lingua contro i denti e l’aria fuoriuscente dai due lati della lingua stessa (l, ʎ). Le vibranti sono, invece, prodotte mediante la vibrazione dell’apice della lingua sugli alveoli (r).
Le consonanti, possono, secondo il luogo di articolazione, avere suoni bilabiali, labiodentali, dentali, alveolari, prepalatali (o palatoalveolari), palatali e velari. Possono, poi, essere sorde o sonore. I suoni senza asterisco, per quanto riguarda la durata, possono essere sia scempi sia geminati (o doppi). I suoni con un asterisco possono, però, essere solo scempi, quelli con due asterischi solo doppi. Quello della lingua italiana è un “alfabeto fonetico”, perché a ogni segno corrisponde un suono (anche se non sempre in modo univoco).
Il digramma e il trigramma sono la successione di due o tre lettere che danno origine a un unico suono.
Nella lingua italiana ci sono digrammi e trigrammi.

I digrammi sono:
– ci, gi + a, o, u (giubba, gialla, ciottolo);
– ch, gh, sc, + e, i (chela, ghiro, scelta, esci);
– gl+ i (fogli, agli);
– gn + a, e, i, o, u (agognato, bolognese, ogni, gnocco,
gnu). I trigrammi, invece, sono:
– sci + a, o, u (scialbo, sciolto, sciupio);
– gli (palatale) + a, e, o, u (paglia, soglie).
Il dittongo si forma dall’incontro di una vocale forte (a, e, o) + una vocale debole (i, u), entrambe pronunciabili con un’unica emissione di fiato. Esso è costituito da ià, iè, iò (fiàto, mièle, piòlo, fiùto), da uà, uè, uò (uguàle, guèrra, buòno), da ài, èi, òi (zàino, ebrèi, nòi), da àu, èu (pàusa, nèutro), da iù, uì, ùi (fiùme, guìda, intùito). Il trittongo è l’incontro di tre vocali (due deboli e una forte) che si pronunciano con una sola emissione di voce. Esso è costituito da iaì, ieì (ampliài, mièi, da uòi, uài (suòi, guài), da iuò (mariòlo).
Nella lingua italiana, l’ortografia è la parte della grammatica che studia i “segni” (grafemi – da gràpho, scrivo) di cui ci serviamo per scrivere correttamente i suoni. A volte, l’utilizzo degli accenti e degli apostrofi genera dubbi in chi si appresta a scrivere un testo. Se impieghiamo il computer, il dizionario ortografico del programma di

scrittura mostrerà e/o rettificherà meccanicamente quasi tutti gli errori. Quando, invece, si scrive a mano, si è capaci di distinguere l’accento acuto da quello grave o riconoscere le regole dell’elisione e del troncamento?
L’accento risulta, nella lingua italiana, come un accrescimento dell’intensità con cui è emessa una sillaba (sillaba tonica), facendo acquisirle in tal modo un rilievo maggiore rispetto alle altre sillabe della stessa parola. Ogni parola, infatti, si contraddistingue in base alla sillaba su cui viene posto l’accento. Le parole sono tronche o ossitone quando l’accento è posto sull’ultima sillaba, come fluidità. Quelle piane o parossitone hanno l’accento sulla penultima sillaba.

Le parole sdrucciole o proparossitone hanno l’accento sulla terzultima sillaba. Quelle bisdrucciole hanno l’accento posizionato sulla quartultima sillaba. Le parole trisdrucciole presentano l’accento sulla quintultima sillaba.

L’accento grafico può, in italiano, essere acuto ( ́) o grave (`). Quello acuto ( ́ ) è un segno diacritico ed è impiegato in molte lingue scritte moderne, soprattutto quelle fondate sull’alfabeto latino, cirillico e greco. L’accento grave ( ` ) è un segno diacritico che è impiegato nei sistemi ortografici, come quello italiano, greco, bretone, olandese, catalano, corso, francese, macedone, norvegese e cinese traslitterato. Nell’italiano di oggi, l’accento grafico è obbligatorio in pochi casi, come, ad esempio, per indicare il suono chiuso o aperto delle vocali e ed o (ésca per pescare o còlto per soggetto in possesso di cultura) oppure per specificare le parole omografe (accètta per accettare e accétta per la scure). Nella lingua italiana l’omografia (dal greco omós «uguale» e gráphō «scrivo»), è una forma di omonimia tra due o più espressioni che hanno significante identico sul piano grafico ma diverso sul piano fonico.

L’accento grafico è sempre obbligatorio sui monosillabi e polisillabi tronchi (come, ad esempio, ciò, giù, già, più, può, gioventù, affinché, però, virtù, comò), sui composti di tre, me, re, blu e su (trentatrè, vicerè, rossoblù, lassù) e sui monosillabi che hanno due significati diversi (tè e te; è ed e; dì e di; sì e si; sé – che non si accenta quando è seguito da stesso o medesimo – e se; né e ne; lì e li; là e la; dà e da; ché e che).

L’accento grafico non si usa con una sola vocale, come, ad esempio, fu, me, mi, ti so, blu, tra, sto, ad eccezione di lì e là, qui e qua. L’accento è, spesso, impiegato, scorrettamente, al posto dell’apostrofo. I casi più diffusi, nell’italiano di oggi, sono la grafia pò al posto di quella corretta po’ (un po’); la grafia dì per la seconda persona dell’imperativo del verbo dire, al posto di quella corretta di’ (di’).

Nella lingua italiana, è presente anche l’elisione, che è la perdita sia fonetica sia grafica della vocale finale atona (non accentata) di una parola che è posta davanti alla vocale iniziale della parola che segue. Essa non obbedisce a regole fisse, perché se in alcuni casi è indicata come obbligatoria, normale o consueta, in altri casi è solo ritenuta possibile.

Con l’articolo lo e le preposizioni articolate che lo includono (dello, allo, dallo, nello, collo, sullo), nonché con l’aggettivo dimostrativo quello, l’elisione è obbligatoria. Con l’articolo la e le preposizioni articolate (della, alla, dalla, nella, colla, sulla) essa è generalmente ritenuta obbligatoria.

Il pronome una non si apostrofa mai. Invece con i suoi composti (come alcuna, ciascuna, qualcuna, nessuna e così via) alcune grammatiche considerano l’elisione obbligatoria. Il segno grafico che indica la caduta della vocale è l’apostrofo.

Il troncamento o l’apocope è, al contrario, la caduta dell’elemento fonico (vocale o sillaba) davanti alle parole che possono cominciare sia per consonante sia per vocale. Con tale segno viene eliminata una vocale o una sillaba e ciò può verificarsi davanti a una parola, che inizia per consonante o per vocale, senza impiegare l’apostrofo. Bisogna, per una corretta divisione in sillabe, padroneggiare le regole della sillabazione.

E’ necessario anche possedere una corretta punteggiatura (o interpunzione), che è un sottosistema di segni para/grafematici, impiegati in ortografia. Tale sottosistema contiene un insieme di segni (detti “segni interpuntivi”), utili a separare o a evidenziare parole, gruppi di parole e frasi.

Nella lingua italiana, i segni di punteggiatura sono:

– il punto (.) – Il punto fermo, detto anche semplicemente punto, è un segno d’interpunzione. Esso rappresenta una lunga pausa, come quelle del punto interrogativo e del punto esclamativo.
– la virgola (,) – La virgola è uno dei segni d’interpunzione più impiegati nella lingua italiana. È il segno di pausa più breve.

– lo spazio ( ) – Lo spazio è, in ortografia, un vuoto impiegato per separare sezioni di testo scritto.
– il punto e virgola (;) – Il punto e virgola è un segno d’interpunzione che è costituito dalla congiunzione di un punto e di una virgola, che sono posti graficamente in verticale l’uno sopra l’altro. Nella lettura, rassomiglia a una pausa meno lunga del punto fermo e quella più lunga della virgola.

– i due punti (:) – I due punti graficamente risultano una coppia di punti fermi posizionati verticalmente l’uno sull’altro.
– il punto esclamativo (!)- Il punto esclamativo, noto in passato anche come punto ammirativo, è uno dei diversi segni d’interpunzione impiegati nella scrittura e indica una pausa simile a quella del normale punto fermo.

– i puntini di sospensione (…) – I puntini di sospensione sono un segno di punteggiatura, formato graficamente da un gruppo di tre punti consecutivi, scritti in senso orizzontale.
– le virgolette («…» o “…” o ‘…’ o “…”) – Le virgolette sono un segno tipografico impiegato per caratterizzare una parola o una frase come citazione.

– la barra obliqua (/) – La barra obliqua (/), o sbarra, è un carattere tipografico.
– le parentesi (( )) – Le parentesi sono un insieme di simboli tipografici che servono a racchiudere altri caratteri.
– le lineette (-). Una lineetta è un segno ortografico. Sostituisce spesso le virgolette, soprattutto nei dialoghi.