Ipotesi Atto d’indirizzo rinnovo CCNL 2019-2021

Prime considerazioni sull’ipotesi di Atto d’indirizzo per il rinnovo del CCNL 2019-2021, con particolare riferimento alla dirigenza scolastica

Francesco G. Nuzzaci

1. A quanto al momento è dato di conoscere da indiscrezioni della stampa, la bozza dell’Atto d’indirizzo predisposta dal Ministro per la Funzione pubblica Brunetta riprende i contenuti delle Linee programmatiche presentate in Parlamento il 9 marzo u. s.; replicati nel Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale sottoscritto il giorno successivo, unitamente alla firma del presidente del Consiglio Mario Draghi, con CGIL, CISL, UIL in quanto confederazioni sindacali maggiormente rappresentative, così qualificate dalla dottrina perché aventi la capacità di influenzare l’assetto economico e sociale del Paese, ponendosi come stabili interlocutrici dei poteri pubblici. Che, dunque, astrattamente condividono che nel nuovo CCNL, sia di comparto che di area, dovranno figurare:

  1. a regime, per ogni pubblico dipendente, un aumento medio mensile di 107,00 euro al lordo degli oneri riflessi o lordo Stato; da cui sottrarre l’elemento perequativo per i redditi più bassi del personale non dirigenziale e l’indennità di vacanza contrattuale siccome anticipata e quindi riassorbibile nel nuovo contratto: alla fine sono circa 90 euro, che al netto in busta paga sono più o meno 50 euro (a occhio e croce 70-80 per i dirigenti scolastici);
  2. la valorizzazione “professionale” del lavoro pubblico, con un più celere sistema di reclutamento e improntato ad una maggiore razionalità, cui segue un aggiornamento continuo delle competenze, assurto a rango di diritto soggettivo, considerato “investimento organizzativo” e ad ogni effetto attività lavorativa;
  3. un ulteriore investimento con le necessarie risorse aggiuntive nella prossima legge di bilancio per il 2022, che tenga conto della revisione in atto – alla luce dei lavori delle commissioni paritetiche – dei profili professionali necessari ad accompagnare la transizione verso l’innovazione e la sostenibilità di tutte le attività delle pubbliche amministrazioni (istituzioni scolastiche incluse, ex art. 1, comma 2 del D. Lgs. 165/2001).
    E, quale corollario della rivisitazione dell’ordinamento professionale, vi è “anche la necessità della valorizzazione di specifiche professionalità non dirigenziali dotate di competenze e conoscenze specialistiche, nonché in grado di assumere responsabilità organizzative e professionali”; con la conseguente costituzione – non è chiarito se all’interno del comparto oppure della dirigenza – di un’area delle “alte professionalità” in cui collocare il personale apicale incaricato dell’esercizio di funzioni organizzative e gestionali, in possesso del titolo di studio universitario, di elevate capacità professionali, tecniche e organizzative, acquisite anche attraverso idonei percorsi formativi o appartenente ad albi. Dopodiché,rispetto a tale personale “il contratto potrà prevedere una struttura retributiva coerente con le funzioni e le responsabilità affidate”;
  4. la valorizzazione della produttività e una sua “valutazione oggettiva”, che però sia correlata alla specificità dei contesti e alle eterogeneità delle diverse pubbliche amministrazioni.
    Di conseguenza il trattamento economico accessorio sarà collegato alla “performance, sia essa organizzativa che individuale”, secondo criteri preordinati a garantire un’effettiva differenziazione dei giudizi valutativi individuali, con corrispondente diversificazione dei compensi, e puntualizzandosi che “la contrattazione integrativa è limitata alla definizione dei criteri di erogazione del trattamento economico”.
    Non verranno così corrisposti compensi accessori se non previa valutazione, “nell’ambito del sistema di valutazione definito dall’amministrazione”;
  5. la regolamentazione contrattuale flessibile del lavoro agile ed oltre la gestione dell’emergenza, che assicuri condizioni di lavoro trasparenti onde favorire “la produttività e l’orientamento ai risultati”, conciliando le esigenze dei lavoratori con le esigenze organizzative della PA. Andranno pertanto ridefiniti la tutela dei diritti sindacali, le relazioni sindacali e l’intero rapporto di lavoro (diritto alla disconnessione, fasce di contattabilità, formazione specifica, diritto alla protezione dei dati personali, permessi, assenze e ogni altro istituto del rapporto di lavoro).
    Ma si precisa che il lavoro agile è “una delle possibili modalità…in alternanza con il lavoro in presenza e in mansioni e processi di lavoro previamente individuati dalle amministrazioni, ove sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità”.
    Non è dunque un diritto soggettivo e la sua “progressiva introduzione” deve accompagnarsi alle necessarie misure di carattere organizzativo e di completamento della transizione digitale, con specifica attenzione alle azioni formative che dovranno affiancare il processo di cambiamento.;
  6. l’introduzione del welfare contrattuale, nelle forme di sostegno alla genitorialità, della previdenza complementare, in uno con la previsione di sistemi di premialità diretti al miglioramento dei servizi;
  7. e, a un tempo sua premessa e conseguenza, la rivisitazione delle relazioni sindacali, con riferimento all’Accordo europeo con le parti sociali del 21 dicembre 2015, “favorendo processi di dialogo costante” con l’introduzione di “strumenti innovativi di partecipazione organizzativa”.

2.  Affinché questi non restino uno sterile manifesto, al ministro Brunetta vanno significati alcuni ineludibili impegni, che in larga parte dovrà condividere con il ministro della Pubblica istruzione Patrizio Bianchi.

2.1. Deve preliminarmente integrare l’Atto d’indirizzo imponendo la stesura di una sorta di testo unico contrattuale, nel segno della sua chiarezza ed essenzialità, depurato da ridondanze e superfetazioni spesso del tutto improprie (uno degli esempi è quello della comunità educante), cassando la sbrigativa tecnica del faticoso –e foriero di conflitti interpretativi – richiamo a pregressi, anche risalenti, contratti e/o addirittura a circoscritte sessioni negoziali.

2.2. Deve poi, il ministro Brunetta, tener duro nella difesa delle innovazioni sulle quali le parti hanno pure formalmente convenuto, contrastando la tendenza delle sigle sindacali generaliste a tracimare dall’alveo perimetrato per invadere ambiti non di propria competenza,  riprovando ad annacquare i poteri della dirigenza, controparte datoriale, sull’organizzazione e sulla gestione del personale, approfittando della nuova versione ecumenica del non più arcigno ministro tornato dodici anni dopo alla titolarità della Pubblica Amministrazione.

In particolare, un suo impegno specifico attiene alla “valutazione oggettiva” della performance, sia organizzativa (riferita ai contributi recati a un più efficiente-efficace funzionamento della struttura) che individuale (che importa l’erogazione di compensi accessori e l’apertura a prospettive di carriera): decisamente indigeribile per coloro che, volendo dar mostra di contrastare una – presunta – filosofia tecnocratica e aziendalista della pubblica amministrazione, reitereranno la loro radicale cultura impiegatizia e massiva.

E un impegno ancora più pesante da onorare riguarda l’istituzionalizzazione delle alte professionalità o quadri intermedi o middle management. Ma in ordine al quale si parte con le mani legate dietro la schiena.

Perché si ha un bel dire che “la contrattazione integrativa è limitata alla definizione dei criteri di erogazione del trattamento economico”, quando poi si scrive che, a monte, il CCNL potrà provvedere una struttura retributiva coerente con le funzioni e le responsabilità affidate”.

Tradotto: se i sindacati non sono – e non lo saranno – d’accordo nel voler provvedere, non se ne farà nulla!

È pertanto necessario che nella versione finale dell’Atto d’indirizzo sia già presente un canovaccio sulle nuove figure professionali e ne preveda l’inserimento in una sezione del comparto. E poi si scriva che la loro retribuzione dovrà essere quantificata complessivamente in una misura non inferiore alla metà del differenziale retributivo tra i dirigenti e i dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell’ambito dei corrispondenti uffici (arg. ex art. 17, comma 1-bis del D. Lgs. 165/2001): per la scuola, tra il dirigente e i docenti.

2.3. Sempre nell’Atto d’indirizzo, qui completato dalle indicazioni del Ministero dell’istruzione, dovrà essere rivisto l’esorbitante apparato disciplinare che incide tutti i dirigenti pubblici: un’autentica ragnatela che s’interseca, sovrapponendovisi, alle disposizioni pubblicistiche a scatole cinesi e in cui è facile restare impigliati, laddove in particolare pare di capire che una recidiva generica può esporre al licenziamento il dirigente che sia incorso nel biennio in un’infrazione anche lieve.

È ben vero che vale per tutti i dirigenti, ma va considerato che l’infausta ricorrenza è di gran lunga più frequente per i dirigenti scolastici preposti in posizione apicale alla guida di pubbliche amministrazioni assai complesse, direttamente responsabili dei più eterogenei adempimenti sulle medesime gravanti e socialmente sovraesposti in un rapporto front-line con una pletora di soggetti, istituzionali e non, potenzialmente illimitati.

Dal lato attivo – qui vale per i dirigenti delle istituzioni scolastiche ed educative, i soli interessati al regime derogatorio del D. Lgs. 75/2017 – occorre prendere atto di una serie di ordinanze (nn. 20845/2019, 28111/2019, 3226/2019) nelle quali la Corte di cassazione ha richiamato il principio di diritto fissato dalla propria giurisprudenza in materia di sanzioni disciplinari irrogabili dal dirigente scolastico: fino alla sospensione dal servizio e dallo stipendio per non più di dieci giorni al personale ATA, siccome previste dal CCNL, ma non oltre la censura al personale docente – dovendo quindi nel caso rimettere gli atti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari – fino a quando non venga introdotta, dalla legge o dal CCNL, la fattispecie tipica della sospensione dal servizio e dallo stipendio per non più di dieci giorni, atteso che a tutt’oggi continuano ad applicarsi le norme contenute nel D. Lgs. 297/1994, c.d. testo unico della scuola, che contemplano – dopo l’avvertimento scritto e la censura – la sospensione dall’insegnamento “fino a un mese”, che non è ex litteris nella disponibilità del dirigente scolastico.

Al riguardo l’articolo 29 del nuovo CCNL del comparto Istruzione e Ricerca ha rinviato a una specifica sessione negoziale a livello nazionale la definizione della tipologia delle infrazioni disciplinari e delle relative sanzioni per il personale docente ed educativo, ma come sempre a futura memoria. Difatti, si sarebbe dovuta concludere entro il mese di luglio 2018. E invece, come del resto nel precedente CCNL, è anch’essa abortita, essendosi arrestata al primo e unico incontro del 18 dello stesso mese all’ARAN, al termine del quale le sigle sindacali di comparto firmatarie del CCNL licenziarono un comunicato per ribadire in via pregiudiziale “la totale indisponibilità a definire la materia qualora dovesse permanere il vincolo della legge Madia (id est: art. 55-bis, comma 9-quater del D. Lgs. 165/2001, come novellato dal D. Lgs. 75/2017), previsto peraltro solo nel comparto scuola, che assegna al dirigente scolastico la competenza ad irrogare la sanzione disciplinare fino a 10 giorni di sospensione, mentre in tutti gli altri comparti pubblici l’irrogazione di tale sanzione è affidata a un apposito ufficio per i procedimenti disciplinari”.

Dunque una conclamata situazione di stallo, essendosi loro consegnato un paralizzante potere di veto su una materia che pure è riservata alla legge.

Quindi dovrà esserci nella proposta contrattuale, così come formulata dall’ARAN, una sanzione autonoma o tipica della sospensione dall’insegnamento per non più di dieci giorni anche per i docenti, magari ritagliata dall’art. 494 del citato D. Lgs. 297/1994 (Sospensione dall’insegnamento o dall’ufficio fino a un mese). Oppure dovrà compiutamente provvedersi per legge, magari con il primo percorso normativo utile.

3. La bozza di Atto d’indirizzo disegna la “cornice negoziale generale” relativa ai rinnovi contrattuali del triennio 2019-2021, riguardante sia i comparti che le aree dirigenziali. I comitati di settore, compreso quello per Istruzione e Ricerca, la integreranno poi con i rispettivi indirizzi, “al fine di assicurare la salvaguardia delle specificità delle diverse amministrazioni e delle categorie di personale ivi comprese” (art. 41, comma 3 del D. Lgs. 165/2001).

Pertanto, oltre alle sanzioni disciplinari di cui poc’anzi si è discorso, il ministro Bianchi – che ha in mente una “scuola affettuosa”, capace di ricostruire la dimensione relazionale e cooperativa e la socialità, dopo anni d’individualismo spinto –  dovrà per intanto occuparsi di questioni più prosaiche.

3.1. La prima, senza girarci attorno, è la rivendicazione delle occorrenti risorse aggiuntive perché, dopo vent’anni, la dirigenza scolastica realizzi l’allineamento alla dirigenza amministrativa e tecnica di pari seconda fascia, con la completa perequazione della parte retributiva variabile e di risultato, atteso che con le generali risorse finanziarie disponibili, pari all’incremento omogeneo delle retribuzioni del 4,07%, in luogo di accorciarsi la forbice si allarga.

Servono, all’ingrosso, 200 milioni di euro annui lordo Stato a decorrere dal 2021, che aggiungano un netto mensile in busta paga di mille euro medi per ciascuno degli ottomila dirigenti scolastici.

3.2. Stanziate queste specifiche risorse, sarà possibile una seria – non simbolica – retribuzione di risultato, susseguente alla valutazione dirigenziale imposta dalla legge per tutti i dirigenti pubblici e tuttora disattesa per i figli di un dio minore, così come per tutti i soggetti che compongono la fantasiosa comunità educante: che si autodefinisce, e si pretende, autoconsistente e autoreferenziale, adusa a celebrare i riti di una democrazia scolastica quale fine in sé, ovvero libera di scegliersi i fini, sciolta da qualsivoglia vincolo che non sia quello che sovranamente si determini di autoimporsi; mentre essa è, giuridicamente, una pubblica amministrazione, deputata allo svolgimento di un pubblico servizio presidiato da solidi vincoli istituzionali e comprendenti l’esplicito obbligo di adottare, sottoponendovisi, “procedure e strumenti di verifica e valutazione della produttività scolastica e del raggiungimento degli obiettivi”, cui è preordinata – e in ciò garantita – la stessa “libertà d’insegnamento” (art. 21, comma 9, legge 59/1997): ben prima che si affacciassero sulla scena la performance del poi ibernato D. Lgs. 150/2009 e la non meno aborrita legge 107/2015, smontata pezzo dopo pezzo in abusivi tavoli negoziali.

Obbligo di valutazione, dunque. E non solo – quando lo sarà – per il dirigente scolastico.

Essendo ora una dichiarata voce d’investimento e non voce di costo, nessun ostacolo dovrebbe porsi per la valutazione del personale ATA, che può agevolmente essere condotta assumendo a canovaccio il – rivisitato – mansionario contrattuale.

Invece per i docenti occorre riprendere e portare a compimento la primigenia previsione del menzionato D. Lgs. 150/2009 sulla valutazione della performance, sia individuale che della struttura organizzativa, e sull’attribuzione di meriti e premi, dando seguito al decreto della Presidenza del Consiglio, di concerto con i ministri dell’Istruzione e delle Finanze, che detti i limiti e le modalità di applicazione dell’apposito dispositivo rispetto alla disciplina generare (art. 74, comma 4, decr. cit.): presumibilmente con riferimento implicito all’articolo 7, comma 2 del D. Lgs. 165/2001, c.d. testo unico del pubblico impiego, a tenore del quale “Le amministrazioni pubbliche garantiscono la libertà di insegnamento e l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca”.

Ma il coriaceo mantra della libertà d’insegnamento non può significare la sottrazione delle prestazioni professionali dei docenti a ogni forma di apprezzamento, in positivo o in negativo. Anche, e soprattutto, perché essa non si configura affatto come diritto soggettivo assoluto (ius excludendi alios), essendo all’opposto, per legge, qualificata in termini di funzione (art. 395, D. Lgs. 297/1994) e tale figurando nello stesso contratto collettivo nazionale di lavoro (art. 27 CCNL per il triennio 2016-2018), vale a dire come complesso di facoltà, che includono diritti e doveri, obbligatoriamente – e correttamente –  esercitabili per la realizzazione di un diritto altrui.

Per contro, non esiste – né la prevedeva il D. Lgs. 150/2009 – una norma speciale per la valutazione della dirigenza scolastica, non essendo in questione nessuna garanzia per la libertà d’insegnamento e di salvaguardia della “autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca”.

Necessita dunque, per l’unica dirigenza pubblica a non essere tuttora valutata, superare tutti i sofismi fin qui generosamente partoriti per eludere le stringenti prescrizioni di legge.

Lo impone l’articolo 25, comma 1 del D. Lgs. 165/2001, rubricato Dirigenti delle istituzioni scolastiche, statuendo che questi “rispondono, agli effetti dell’articolo 21, in ordine ai risultati”: quindi come tutti i dirigenti pubblici. E che la “specificità delle funzioni” di cui si deve tener conto, non vale certo a spostare la valutazione su versanti che non siano quelli tipici di tutte le dirigenze pubbliche, ovvero organizzativi e gestionali. Sicché – nel successivo comma 2 dell’articolo 25, citato – essa concerne la gestione unitaria dell’istituzione scolastica e della quale si ha la legale rappresentanza, con responsabilità della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. In concreto, spettano ai dirigenti scolastici autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane, nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, dovendo “in particolare … organizzare l’attività scolastica (con responsabilità esclusiva, giuridicamente esigibile) secondo criteri di efficienza e di efficacia formativa”: ciò è a dire che le prestazioni professionali-gestionali vanno correlate, anche per i dirigenti scolastici, alla performance dell’intera struttura organizzativa (D.Lgs. 150/2009, cit.).

Sicché, e a ben vedere, la specificità siccome riferita alla figura del dirigente scolastico è un pleonasmo, significando, alla fin fine, che la sua azione incrocia la presenza di soggetti che agiscono con larga discrezionalità tecnico-professionale – il che caratterizza non soltanto la scuola, ma anche altre amministrazioni pubbliche che erogano servizi alla persona – e l’esistenza di organi collegiali non meramente consultivi, bensì deliberanti, peraltro governati dal dirigente in posizione di primazia quale presidente, ovvero – nel Consiglio d’istituto – intestatario del potere di proposta; rispetto ai quali organi è doverosamente chiamato a realizzare un efficace raccordo perché possano al meglio esercitare le rispettive competenze.

Ha per converso, la specificità, una ragione giustificativa se riferita alle peculiarità dell’istituzione scolastica, una pubblica amministrazione molto particolare, non assimilabile a un ufficio amministrativo strutturalmente contrassegnato da procedure in prevalenza standardizzate, quanto piuttosto da quelli che sono stati definiti legami deboli o allentati, in cui l’interpretazione prevale sull’esecuzione. Per cui, nella valutazione del dirigente che la presiede, le priorità dovrebbero essere invertite, con il peso predominante che non può essere quello dei risultati, attingibili con strumenti eminentemente quantitativi (valutazione di prodotto), bensì dei comportamenti organizzativi, rilevabili con un sistema di indicatori e descrittori – formalizzati in anticipo – e la cui frequenza e intensità siano convenzionalmente stimate significative, in termini di causalità adeguata, salvo verifica e loro conseguenziale rimessa a punto (valutazione di processo).

Come che sia, non può oltremodo sopportarsi, perché lesiva della dignità professionale, l’umiliazione nel fungere da cavia a cervellotici iperconcettuosi caravanserragli escogitati dal Ministero, eternamente sperimentali e scientemente costruiti per farli fallire, perché aventi il duplice fine di legittimare a tempo indeterminato esperti o presunti tali – anche ex colleghi annidatisi nelle comode stanze di viale Trastevere, comprensibilmente  restii al rientro nell’anonimato della ben più faticosa e meno remunerata trincea – e nel contempo di suggellare con l’indelebile marchio di una dirigenza minor quella che, ipocritamente, si ammanta  di una sublime, ma inesistente, specificità.

E in proposito occorrerà ricordare al ministro Bianchi l’esistenza di quell’altro cimitero degli elefanti – sempre le sequenze contrattuali a futura memoria – che nel caso di specie è costituito dagli articoli 5, 7 e Dichiarazione congiunta n. 5 del CCNL di area; secondo cui, invadendosi la riserva di legge, la valutazione della dirigenza scolastica “sarà oggetto di uno specifico approfondimento” con i sindacati che la rappresentano. Sarà, perché l’approfondimento non è mai avvenuto: né durante i sei mesi precedenti la dichiarazione dell’emergenza sanitaria, né a tutt’oggi e avvalendosi delle strumentazioni telematiche con incontri in remoto.

È perciòpienamente legittimo, e indilazionabile, pretendere che i dirigenti scolastici siano valutati in base alle generali coordinate prescritte dalla normativa primaria esistente, con gli aggiustamenti di stretta indispensabilità, appena sintetizzati: che dovranno integrare l’Atto d’indirizzo poi trasmesso all’ARAN dal ministro per la Pubblica Amministrazione.

3.3. Sempre al ministro Bianchi va chiesto l’inserimento specifico di una revisione della mobilità territoriale perché la sua attuale disciplina, pensata per le procedure di reclutamento regionale, non è più coerente con l’ultima procedura concorsuale, invece a carattere nazionale, che finora ha immesso in ruolo oltre 2.500 dirigenti scolastici e altri 1000 ne immetterà, la maggior parte dei quali fuori dalla propria regione. Il che ha scatenato una lotta fratricida all’interno della categoria e un alluvionale contenzioso che ha quasi sempre registrato la soccombenza dell’Amministrazione in giudizio.

Ma l’integrazione dell’Atto d’indirizzo dovrà prevedere anche la mobilità professionale, sia all’interno dell’articolata area dirigenziale Istruzione e Ricerca che verso le altre pubbliche amministrazioni statali, essendo questa un connotato costitutivo di ogni dirigenza statale (e la dirigenza scolastica è una dirigenza statale pleno iure: Corte dei conti, sezioni riunite, 02.04.2006 e 14.07.2010, in occasione delle certificazioni dei relativi contratti dell’ex area V; Consiglio di Stato, sez. II, parere 1021/2000 e Adunanza generale 09/1999 e 529/2003).  

Ciò vale tranne che non ostino disposizioni di legge che impongano una particolare qualifica di provenienza o il possesso di specifici titoli di studio e/o l’iscrizione ad albi professionali: come nel caso della dirigenza medica, l’unica che tecnicamente può dirsi specifica o professionale, poiché permane il compimento dell’atto medico, anche per i preposti alla guida di strutture dipartimentali complesse.

Non è però il caso della dirigenza scolastica, tipicamente generalista; che, combinandole in modo ottimale, “garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane (con i poteri del privato datore di lavoro), finanziarie, tecnologiche e materiali … svolgendo … compiti di direzione, gestione, organizzazione e coordinamento ed è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio” (art. 1, comma 78 della legge 107/2015, che riprende alla lettera l’art. 25 del D. Lgs. 165/2001).

Per conseguenza, le competenze richieste e accertate sono primariamente quelle in senso lato giuridiche e manageriali-organizzative, che s’innestano sulle competenze psico-pedagogiche e disciplinari della qualifica di provenienza: che di certo non valgono a sostenere che la funzione dirigenziale nelle istituzioni scolastiche sia una forma differenziata dell’unicità della funzione docente, secondo una stravagante teorizzazione risalente a mezzo secolo fa e che nella sostanza riemerge a cadenze periodiche.

Banalmente, il dirigente scolastico non insegna né svolge attività funzionali all’insegnamento, per contro intestate ad altri soggetti (vedasi art. 395 del D. Lgs. 297/1994, rubricato Funzione docente, seguito dall’art. 396 della distinta Funzione direttiva, ora funzione dirigenziale ex artt.5, 17, 21, 25 del D. Lgs. 165/2001).

Tal che non s’intravvedono le ragioni – s’intende, ragioni aventi un fondamento giuridico – per precludere ai dirigenti delle istituzioni scolastiche la possibilità, rispondendo ai vari interpelli, di chiedere un incarico nel MEF possedendo una laurea in materie economiche; o nel Ministero dei beni culturali essendo addottorati in discipline artistiche o letterarie o filosofiche; nel Ministero degli esteri o nel Ministero degli interni per chi voglia far valere la sua formazione giuridica; oppure, per chi abbia una formazione socio-psico-pedagogica, nel Ministero della salute o del lavoro e politiche sociali e/o in generale nelle strutture pubbliche dei servizi alla persona.

Potrebbe obiettarsi che difetta la reciprocità, nel senso che la dirigenza scolastica è impermeabile dall’esterno. Ma è un’obiezione priva di pregio per le ragioni appena esposte: sia sul piano logico che squisitamente giuridico, non sussistendo espressi divieti di legge a fungere da eccezione rispetto al principio della libera, strutturale, mobilità.