Dall’acquisizione della morfologia alla lettura

Il bambino dall’acquisizione della morfologia alla lettura come processo di percezione selettiva 

di Pietro Boccia

  La parte della grammatica o della linguistica che ha per oggetto lo studio della struttura grammaticale delle parole, fissandone l’attinenza al nome, al pronome, al verbo e all’aggettivo, è la morfologia.

  Le forme della flessione sono rappresentate dalla coniugazione per i verbi e dalla declinazione per i nomi. La morfologia analizza i meccanismi attraverso i quali le unità di significati semplici si organizzano in significati più complessi, vale a dire le parole.

  Bisogna in ogni modo considerare alcuni aspetti fondamentali della lingua, vale a dire:

  • il prefisso che è un morfema posto all’inizio di un lessema per cambiarne o definirne il significato;
  • il prefissoide che è un morfema avente funzione lessicale e derivazionale. Esso può, quindi, essere tanto un tema o radice quanto un vero e proprio prefisso;
  • la prefissazione, che è un processo morfologico riguardante il suffisso; – il suffisso che è un elemento posto alla fine di un tema. Esso può essere alterativo (diminutivi, accrescitivi, peggiorativi, vezzeggiativi e così via) o derivativo che si ha quando una parola nasce da un’altra in sostanziale continuità di senso. Il suffisso derivativo, in base alla classe di arrivo, si classifica in deaggettivale, deavverbiale, denominale, deverbale. I suffissi sono anche agentivi, strumentali e valutativi;
  • la suffissazione si ha quando un suffisso si aggiunge a una parola già compiuta, formando, per derivazione, una parola suffissata;
  • il suffissoide che è termine morfo, derivante spesso di lingua greca o latina con la stessa funzione del suffisso ma che ha in origine o al presente significato compiuto anche come parola autonoma.

  Nella grammatica tradizionale, la morfologia studia la forma delle parole, come la flessione e la derivazione. Nella linguistica moderna, la morfologia studia la struttura della parola e descrive le varie forme che le parole assumono, secondo le categorie di numero, di genere, di modo, di tempo e di persona. Essa è uno studio delle forme organizzate in sistema nel campo biologico, geografico, sociale e linguistico. In linguistica, la morfologia s’identifica con lo studio delle parti del discorso nella loro flessione, cioè nelle variazioni, cui vanno sottoposte secondo le diverse funzioni grammaticali. Essa si distingue dalla fonologia; quest’ultima è, infatti, lo studio esclusivo dei fonemi (ad esempio, fama, dal punto di vista della fonologia è parola composta di quattro elementi o fonemi, mentre dal punto di vista della morfologia è parola formata dall’elemento radicale fam-, depositario del significato, e dal morfema -a, che segnala il valore di singolare femminile).

  La morfologia si contraddistingue anche dal lessico e  dalla sintassi, perché questi ultimi prendono in considerazione la sostanza “dei significati e dei loro rapporti”, mentre la fonologia e la morfologia illustrano le possibilità di attuazione formale, a prescindere dal contenuto (i cosiddetti “elementi significanti”). Un nuovo approccio alla morfologia deriva da una corrente del generativismo di matrice chomskiana, detta morfologia distribuita. In linguistica, il termine grammatica generativa si attribuisce a un approccio della teoria della dimostrazione per lo studio della sintassi, solo in parte ispirato dalla teoria della grammatica formale e inaugurato da Noam CHOMSKY.

  La grammatica generativa è un insieme di regole che specifica o genera in modo ricorsivo (cioè per mezzo di un sistema di riscrittura) le formule, perfettamente modellate di un linguaggio. Tale definizione implica un gran numero di differenti approcci alla grammatica.

  Il termine grammatica generativa è anche largamente impiegato per fare riferimento alla scuola di linguistica, in cui la grammatica formale gioca un ruolo cruciale. Tale grammatica dovrebbe essere distinta da quella tradizionale, perché quest’ultima è fortemente prescrittiva e non descrittiva; non è matematicamente esplicita e ha, storicamente, analizzato un insieme relativamente ristretto di fenomeni sintattici. Quest’approccio teorico comprova che la produzione delle parole non risieda nella componente lessicale della lingua, ma accompagni le stesse regole sintattiche che sono alla base della formazione delle frasi.

  Le parti del discorso, nella lingua italiana, possono essere variabili (articolo, nome, aggettivo, pronome e verbo) e invariabili (preposizione, avverbio, congiunzione, interiezione).

– Articolo

  L’articolo è la parte del discorso variabile che immette all’interno di una frase un nome con il quale forma una unità; esso, tranne che per qualche caso, deve sempre seguire un nome. L’articolo dà informazioni con precisione sul genere e sul numero del nome che segue, specificando quando è femminile, maschile, singolare o plurale. Esso consente, infatti, di specificare quando ci riferiamo a una cosa o una persona, nota a chi ascolta e a chi parla.

  Nella lingua italiana si troviamo tre tipi di articoli (determinativo, indeterminativo, partitivo). Gli articoli determinativi si mettono davanti ad un nome per puntualizzare che ci si riferisce a una persona o una cosa ben definita.

L’articolo (il) davanti alla parola giovane, fa, ad esempio, capire che non si tratta di un giovane qualunque ma di uno specifico.

  Gli articoli determinativi, poiché individuano qualcosa o qualcuno ben preciso, s’impiegano, per parlare di qualcosa o qualcuno, di cui già si è parlato. Perciò, quando se ne riparla, si adopera l’articolo determinativo (la) per riferirci a qualcosa che è già noto a chi ci ascolta. Gli articoli determinativi s’impiegano per designare un tipo di oggetti, una specie di esseri viventi, o per esprimere l’astratto; si usano per parlare di oggetti che ci appartengono strettamente; si utilizzano, inoltre, per fissare cose che sono uniche in natura o parti del corpo. I casi indicati in precedenza non contraddicono la regola dove si dice che gli articoli determinativi indicano cose o persone note a chi ascolta e a chi parla.

  La differenza è che in questi esse sono note perché fanno parte del bagaglio di conoscenze di chi parla e di chi ascolta. Gli articoli determinativi possono, poi, in specifici contesti, svolgere la funzione di un aggettivo dimostrativo, di un pronome dimostrativo, di un aggettivo indefinito. Essi hanno come genere (femminile e maschile) e come numero (singolare e plurale). Presentano, poi, differenti forme, in base alla lettera iniziale del nome, cui fanno riferimento:

  • davanti alle parole di genere maschile, che cominciano con una consonante s’impiega l’articolo (il) al singolare e l’articolo (i) al plurale;
  • davanti alle parole di genere maschile, che incominciano, però, per x, y, z e i gruppi gn, pn, ps, s + consonante, i + vocale, s’impiega l’articolo (lo) al singolare e l’articolo (gli) al plurale;
  • davanti alle parole di genere maschile che iniziano per vocale s’impiega l’articolo (l’) al singolare e l’articolo (gli) al plurale;
  • davanti alle parole maschili di origine straniera, che incominciano per h si adopera l’articolo (l’) al singolare e (gli) al plurale davanti a una h aspirata e (l’) al singolare e (i) al plurale davanti a una h non aspirata;
  • davanti alle parole di genere femminile, al singolare s’impiega l’articolo (l’) quando cominciano per vocale e l’articolo (la) quando incominciano per consonante; al plurale s’impiega l’articolo (le) in ambo i casi;
  • davanti alle parole femminili di origine straniera che incominciano per h, s’impiega l’articolo (la) al singolare e l’articolo (le) al plurale.

  Gli articoli indeterminativi si mettono davanti a un nome per designare che ci si riferisce a una persona o una cosa generica e indefinita. La funzione degli articoli indeterminativi è quella di immettere nel discorso un nome, di cui non si è parlato in precedenza.

  Gli articoli indeterminativi s’impiegano per parlare di qualcosa o qualcuno che é nominato per la prima volta; si adoperano quando non è necessario precisare la cosa o la persona, cui fanno riferimento, quando può essere una qualsiasi; s’impiegano per parlare di cose o persone delle quali non si desidera precisare o qualificare ulteriormente; talvolta, gli articoli indeterminativi s’impiegano per designare una categoria o una specie, equivalente a “ogni” o un singolo elemento di quella specie; nel linguaggio parlato, possono essere impiegati non solo per esprimere ammirazione e per esprimere una frase con senso superlativo ma anche per indicare approssimazione ed è equivalente a “pressappoco, circa”. Gli articoli indeterminativi hanno solamente il genere (femminile e maschile) e presentano differenti forme.

  Il plurale degli articoli indeterminativi è sostituito dall’articolo partitivo o da quello detto “articolo zero”, omettendolo. Davanti ai nomi di genere maschile al singolare che incominciano con una vocale (tranne i + vocale) e consonante s’impiega l’articolo (un).

  Davanti ai nomi, poi, di genere maschile al singolare che cominciano per x, y, z e i gruppi gn, pn, ps, s + consonante, i + vocale, s’impiega l’articolo (uno). Davanti ai nomi di genere femminile, al singolare s’impiega, infine, l’articolo (una) se cominciano per consonante; quando, invece, incominciano per vocale, l’articolo (una) può essere cambiato in (un’), anche se è frequente imbattersi nella forma senza apostrofo pure davanti a una vocale. Bisogna fare attenzione che l’articolo indeterminativo maschile (un) rappresenta una forma tronca e non è un’elisione; perciò, non è opportuno mai apostrofarlo.

  L’articolo indeterminativo femminile (un’) è, invece, un’elisione e si può apostrofare. L’articolo partitivo s’impiega per designare una parte o quantità indeterminata di un tutto, equivale a “un po’, alquanto “. Esso si struttura dall’unione della preposizione (di) con gli articoli determinativi. Bisogna, per impiegare la forma corretta dell’articolo partitivo, seguire le stesse regole che valgono per l’articolo determinativo. L’articolo partitivo non può essere impiegato con sostantivi che designano un singolo soggetto. Quindi, l’articolo partitivo deve essere impiegato solo con nomi che designano una massa. Infatti, non si può dire (passami un’acqua) ma solamente (passami dell’acqua).  L’articolo partitivo, al plurale, può essere impiegato come plurale dell’articolo indeterminativo ed equivale a “alcuni”, “alcune” o “qualche”. Esso, secondo alcuni studiosi, è considerato una forma non del tutto corretta perché riproduce una costruzione della lingua francese; perciò consigliano di impiegare al suo posto il nome da solo (o articolo zero).

  L’articolo partitivo in alcuni casi è impiegato per diminuire d’intensità il significato di un sostantivo astratto in espressioni particolari. Esso al plurale si può omettere, quando il nome, al quale si riferisce, è un complemento diretto oppure quando il nome al quale si riferisce è un soggetto posposto al verbo. Si sceglie di sostituire l’articolo partitivo con “alcuni, alcune”, quando è inserito in un complemento indiretto ed è preceduto da una preposizione.

– Nome

  Il nome è la parte variabile del discorso che è utile a indicare persone, animali, cose, idee, concetti, stati d’animo, azioni e fatti. In base al significato i nomi possono essere:

  • propri, quelli che designano persone, animali o cose in modo individuale.
  • comuni, quelli che individuano persone, animali o cose in modo generico.
  • concreti, quelli che indicano persone, animali o cose reali che si possono cogliere attraverso i cinque sensi.
  • astratti, quelli che designano idee, concetti, sentimenti e tutto ciò che, in generale, non si può cogliere attraverso i cinque sensi.
  • individuali, quelli che individuano una singola persona, animale o cosa.
  • collettivi, quelli che indicano un insieme di persone, animali o cose della stessa specie o categoria.

 I nomi, in base al genere, possono essere maschili e femminili. La formazione del femminile consente di suddividere, poi, i nomi in:

  • mobili, quelli che procedono dal maschile al femminile mutando la desinenza o inserendo un suffisso;
  • indipendenti, quelli che hanno forme interamente diverse per il maschile e per il femminile;
  • di genere comune, quelli che hanno la stessa forma per il maschile e il femminile;
  • di genere promiscuo, quelli che hanno un’unica forma per designare sia il maschio sia la femmina dello stesso animale.

In base al numero, i nomi possono essere:

  • singolari, quelli che riconoscono una sola unità;
  • plurali, quelli che individuano più unità;
  • variabili, quelli che al plurale cambiano la desinenza;
  • invariabili, quelli che sono individuati come numero attraverso l’articolo perché hanno la stessa forma sia per il singolare sia per il plurale;
  • sovrabbondanti, quelli che hanno due plurali diversi sia di genere sia di significato. In base alla struttura i nomi possono essere:
  • primitivi, quelli formati solo da una radice e da una desinenza, che non derivano da altre parole;
  • derivati, quelli che derivano dai nomi primitivi con l’aggiunta di prefissi e suffissi, assumendo un significato del tutto diverso;
  • composti, quelli che si modellano dall’unione di due o più parole (terremoto, altoforno cassaforte). Molti nomi composti al plurale mutano solo la desinenza finale, come terremoto in terremoti; altri cambiano la desinenza di ambedue, come ad esempio caposaldo in capisaldi.
  • alterati, quelli che, con l’aggiunta di suffissi, trasformano il significato del nome da cui derivano.

  In base ai suffissi impiegati, i nomi alterati sono diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi, dispregiativi.

– Aggettivo

  L’aggettivo è la parte variabile del discorso che si congiunge al nome per qualificarlo o per determinarlo. Gli aggettivi si distinguono in qualificativi e determinativi. Quello qualificativo esprime una qualità del nome, cui si aggiunge. L’aggettivo, concordando con il nome nel genere e nel numero, si declina.

  Per la declinazione, l’aggettivo qualificativo si distingue in due classi:

  • la prima classe comprende gli aggettivi che hanno la desinenza o al singolare e i al plurale per il maschile, nonché a al singolare ed e al plurale per il femminile;
  • la seconda classe è costituita dagli aggettivi qualificativi con la desinenza e al singolare e i al plurale per tutti e due i generi.

 Solo l’aggettivo pari fa classe a sé ed è invariabile come i suoi derivati (dispari, impari). Nella formazione del plurale, gli aggettivi seguono normalmente le stesse regole dei sostantivi.

  I gradi dell’aggettivo qualificativo sono tre:

  • grado positivo, quando l’aggettivo esprime una semplice qualità; – grado comparativo, quando esprime un confronto tra due termini; – grado superlativo, quando esprime il grado massimo di una qualità.

  Il comparativo stabilisce un confronto di uguaglianza, di superiorità o d’inferiorità fra due termini.

  Si hanno dunque tre specie differenti di comparativo:

  • comparativo di uguaglianza, quando la qualità espressa dall’aggettivo è uguale nei due termini messi a confronto;
  • comparativo di maggioranza, quando la qualità espressa dall’aggettivo è posseduta in grado maggiore dal primo termine di paragone;
  • comparativo di minoranza, quando la qualità espressa dall’aggettivo è posseduta dal primo termine di paragone in grado minore.

  Nei comparativi di maggioranza o di minoranza, il secondo termine di paragone può essere retto dalla preposizione di oppure dalla congiunzione che.

  Gli aggettivi qualificativi in una frase possono avere funzione attributiva, quando funzionano da attributo e predicativa quando hanno la funzione del predicato nominale.

 L’aggettivo qualificativo è sostantivato quando ha valore autonomo e non è accompagnato a un nome. Anche gli aggettivi qualificativi, come i nomi, possono trasformarsi con l’aggiunta di un suffisso, vale a dire: diminutivi; vezzeggiativi; accrescitivi; dispregiativi; peggiorativi. L’aggettivo determinativo è quello che, nei riguardi del nome, definisce il possesso, la posizione, la quantità o il numero; esso si distingue in possessivo, dimostrativo, numerale, indefinito.

  Gli aggettivi possessivi designano l’appartenenza di un oggetto (o di un essere) e, nello stesso tempo, il possessore; essi sono: mio – mia – miei – mie, tuo – tua – tuoi – tue, suo – sua – suoi – sue, nostro – nostra – nostri – nostre, vostro – vostra – vostri – vostre, loro – proprio – altrui. Gli aggettivi loro e altrui sono invariabili.

  L’aggettivo proprio è impiegato per rafforzare l’idea del possesso. Quello dimostrativo indica un soggetto o una cosa nel suo rapporto di vicinanza o di lontananza nello spazio e nel tempo. I più comuni sono: questo – questa – questi – queste, codesto – codesta codesti – codeste, quello (quel) – quella – quelli (quegli, quei) – quelle, stesso – stessa stessi – stesse, medesimo – medesima – medesimi -medesime. Altri aggettivi dimostrativi, con valore di qualità, sono: tale, quale, cotale, siffatto, cosiffatto.

  Gli aggettivi identificativi designano l’identità e l’uguaglianza tra persone o cose. Essi sono stesso e medesimo. Gli aggettivi indefiniti specificano una quantità o una qualità che sono riferite al nome e non definite con precisione. Essi sono tutto, alcuno, molto, tanto, ciascuno, poco, nessuno, altro, certo, parecchio, quanto, troppo, tale, vario, diverso, taluno, altrettanto.

  Gli aggettivi interrogativi danno vita a una domanda sulla qualità, la quantità o l’identità dei nomi, cui si espongono e sono impiegati sempre prima del nome; non sono mai preceduti dall’articolo. Gli aggettivi interrogativi possono essere adoperati sia in domande dirette sia in domande indirette. Gli aggettivi “che, quale e quanto”, utilizzati nelle interrogative, in precedenza, proposte, possono anche introdurre un’esclamazione. In questo caso sono detti aggettivi esclamativi.

  Gli aggettivi numerali designano la quantità degli esseri inanimati e animati, di cui si parla e indicano la serie naturale dei numeri cardinali o l’ordine di successione degli ordinali.

  I numeri cardinali sono formati da una serie compiuta dei numeri interi, come uno, due, tre e così via. Si suddividono, a loro volta, in:

  • unità (dall’uno al nove);
  • decine (dal dieci al novanta); –         centinaia (dal cento al novecento); –            migliaia (dal mille in su).

  I numeri cardinali sono scritti secondo i nove segni delle cifre arabe. Gli Arabi a loro volta avevano appreso questi segni dall’India. Prima delle cifre arabe erano impiegati i numeri romani (I, II, III e così via) per i numerali ordinali che designano l’ordine di successione di una serie e sono aggettivi variabili come i qualificativi della prima classe. I primi dieci numeri ordinali possiedono ciascuno una forma particolare che deriva dal latino, e sono: – (I) primo;

  • (II) secondo;
  • (III) terzo e così via.

  Gli ordinali che corrispondono ai cardinali undici e dodici hanno tre forme diverse:

  • undicesimo, undecimo, decimoprimo;
  • dodicesimo, duodecimo, decimosecondo.

I numeri ordinali che corrispondono ai cardinali dal tredici al diciannove hanno due forme:

  • tredicesimo, decimoterzo;
  • quattordicesimo, decimoquarto e così via.

  Le decine venti, trenta, quaranta e così via hanno pure due forme:

  • ventesimo, vigesimo;
  • trentesimo, trigesimo;
  • quarantesimo, quadragesimo e così via.

  Per indicare in cifre gli ordinali, s’impiegano i numeri romani, ma si possono anche utilizzare le cifre arabe con la desinenza del genere come esponente (1°, 2°… 10° rispettivamente 1^, 2^… 10^). Gli ordinali s’impiegano per indicare le divisioni di un’opera o il numero di una serie, di una fila e così via, come capitolo secondo, atto terzo, canto quinto, classe quinta, fila seconda (o seconda fila).

 Il numero  ordinale  solitamente  precede  il  sostantivo,  come  il  terzo  posto,  la settima sinfonia e così via. Ma si pospone nelle successioni di regnanti e di papi: Giulio II, Luigi XVIII; Giovanni XXIII. In questo caso si adoperano unicamente le cifre romane. Gli ordinali sono spesso sostantivati come è iscritto alla terza (classe). Sono, inoltre, impiegati nelle frazioni come due terzi, sette noni, cinque decimi e così via.

  Gli aggettivi numerali moltiplicativi hanno due forme (doppio e duplice) e possono essere infiniti. La forma doppio, triplo e così via s’impiega per designare quante volte una cosa è più grande di un’altra. La forma duplice, triplice e così via s’impiega per designare che una cosa è costituita da due o più parti o che serve per due o più impieghi o che ha due o più scopi.

  Gli aggettivi numerali distributivi sono locuzioni che designano in che modo più persone o cose sono suddivise o ordinate nello spazio e nel tempo.

  Gli aggettivi numerali frazionari sono costituiti dall’unione di un numero cardinale, che indica la parte, e di un numero ordinale.

  Gli aggettivi numerali collettivi designano un insieme numerico di persone, animali o cose (paio, coppia, dozzina, ventina, centinaio, migliaio e così via). Gli aggettivi entrambi, ambedue sono numerali collettivi ma con valore di sostantivo.

  Gli aggettivi indefiniti designano la qualità e la quantità in modo indeterminato. Le principali forme sono:

  • qualità (qualunque, qualsiasi, qualsivoglia, altro);
  • quantità (qualche, ogni, alcuno, ciascuno, taluno, nessuno, altro, poco, troppo, molto, alquanto, parecchio, tutto).

  Il superlativo esprime il grado massimo di una qualità, e si distingue in due tipi:

  • il superlativo assoluto, quando il massimo grado della qualità è espresso senza alcun paragone.
  • il superlativo relativo (di maggioranza e di minoranza), quando il massimo grado è espresso con un paragone. Il superlativo relativo si forma premettendo l’articolo al comparativo di maggioranza o di minoranza.

– Pronome

  Il pronome è una parola che sostituisce una parte del discorso (un nome, un aggettivo, un verbo, un altro pronome o un’intera frase). Il pronome può svolgere tre funzioni:

  • anaforica, quando il pronome prende il posto e segue un nome che si è nominato in precedenza, evitando così la ripetizione;
  • cataforica, quando il pronome sostituisce un nome non ancora nominato e lo precede anziché seguirlo.
  • designativa, quando il pronome fa le veci di un nome che non è presente nella frase, pur essendo parte attiva della situazione in cui si compie la comunicazione.

  Si hanno vari tipi di pronome, che, in base al loro significato, possono distinguersi in pronomi personali, possessivi, dimostrativi, indefiniti, relativi, interrogativi, esclamativi.

   Bisogna, per fare, poi, l’analisi grammaticale del pronome, distinguere:

  • il tipo (possessivo, dimostrativo, indefinito, relativo, doppio, interrogativo oesclamativo);
  • il genere (maschile o femminile);
  • il numero (singolare o plurale);
  • la funzione logica (soggetto o complemento); – la persona (prima, seconda o terza).

  I pronomi, in base al significato e alla funzione nella frase, si dividono in varie categorie, vale a dire personali (io, me, tu, lui, lei, noi, voi, loro), possessivi (mio, tuo, suo, nostro, vostro, loro), dimostrativi (questo, codesto, quello, stesso, medesimo), interrogativi (chi, che cosa, quando, che, come), esclamativi (chi, che cosa, quando, che, come), relativi (che, chi, il quale, la quale, i quali), indefiniti (qualcuno, qualche, nessuno, alcuni, alcuna).

– Verbo

  Il verbo è la parte variabile del discorso, che esprime, collocandole nel tempo, le informazioni sul soggetto. Esso (dal latino verbum, “parola”) indica un’azione che il soggetto svolge o subisce, l’esistenza o uno stato del soggetto, il rapporto tra il soggetto e il nome del predicato. Il verbo impiega desinenze diverse in base al numero del soggetto, che può essere singolare o plurale, a seconda che il soggetto cui si riferisce sia un singolo o una pluralità, e alla persona. Con riferimento alla persona se ne distinguono tre singolari (io, tu, egli/ella/esso) e tre plurali (noi, voi, essi/esse).

  I modi verbali specificano in che modo si presenta l’azione espressa dal verbo. Il modo indica, quindi, la modalità dell’azione o del modo di essere. I modi possono essere finiti (indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo) e indefiniti (infinito, participio, gerundio). Ci sono, poi, i tempi che indicano in quale momento si svolge l’azione o il modo di essere (presente, passato, futuro).

  Ogni modo verbale si articola in più tempi, vale a dire semplici, quelli formati da una sola voce verbale, e quelli composti, costituiti da due voci, di cui una è data dal verbo essere o avere, detti, in questa particolare funzione, ausiliari, e l’altra dal participio passato del verbo.

  I verbi possono essere transitivi e intransitivi. I primi esprimono un’azione che passa direttamente dal soggetto, che la compie su una persona, su un animale o su una cosa che ne completa il significato (complemento oggetto). I verbi intransitivi esprimono un’azione che passa indirettamente sul complemento. Le forme del verbo possono essere:

  • attive, quando il soggetto compie l’azione espressa dal verbo;
  • passive, quando il soggetto subisce l’azione espressa dal verbo.
  • riflessive, quando l’azione effettuata dal soggetto ricade sul soggetto stesso.   I verbi possono avere anche forme impersonali, quando sono espresse azioni svolte da un soggetto indeterminato. In tal caso sono impiegati solo in terza persona singolare.

  I verbi, secondo gli aspetti, possono essere iterativi, incoativi, durativi, momentanei. L’aspetto verbale indica la dimensione temporale, che viene attribuita da chi parla all’azione espressa dal verbo, a prescindere dal tempo assoluto in cui è posta. Un’azione può, ad esempio, presentarsi a chi parla o chi scrive con differenti aspetti, cioè può avere una durata nel tempo o essere momentanea.

  Nella lingua italiana, si esprime l’aspetto dell’azione soltanto in due tempi, vale a dire nell’imperfetto e nel passato remoto. Le coniugazioni del verbo, nella lingua italiana, sono tre (are, ere, ire). La prima lettera della desinenza nelle coniugazioni è detta vocale tematica (a+re, e+re, i+re ).

– Avverbio

  L’avverbio è una parte del discorso invariabile e ha la funzione di un “modificatore semantico”. Viene impiegato per trasformare o determinare il significato di altre categorie grammaticali (tipicamente gli aggettivi ma anche altri avverbi) o addirittura di cambiare un’intera frase. Per la grammatica tradizionale, l’avverbio è il modificatore soprattutto del verbo. Esso modifica il significato secondo diversi aspetti, vale a dire:

  • avverbio di tempo, che fissa il momento in cui si svolge l’azione (ieri, oggi, frequentemente, subito, all’improvviso, per tempo, prima o poi, ancora, immediatamente, dopo);
  • avverbio di quantità, che esprime in maniera vaga una determinata misura (troppo, poco, assai, scarsamente, più, meno);
  • avverbio di luogo, che specifica il luogo in cui l’azione avviene (su, giù, sopra, sotto, davanti, indietro, destra, sinistra, qui, lì);
  • avverbio opinativo o di giudizio, che permette di valutare un fatto ed è di affermazione (certo, sicuro, indubbiamente), di negazione (no, né, nemmeno, neppure) o di dubbio (probabilmente, forse, chissà, magari).

   Gli avverbi, come gli aggettivi, hanno dei gradi comparativi:

  • di maggioranza, che si formano premettendo un più al grado positivo dell’avverbio;
  • di minoranza, che si formano come il primo, ma premettono un meno al posto di più; – di uguaglianza che premettono le parole tanto o così oppure pospongono come o quanto.

 Gli avverbi possono esprimere anche il grado superlativo assoluto che si forma aggiungendo il suffisso -issimo o -issimamente al grado positivo o relativo che si forma anteponendo al grado positivo la locuzione il più e posponendo il termine possibile. Anche gli avverbi sono soggetti ad alterazioni diminutive (bene/benino), vezzeggiative (male/maluccio), accrescitive (bene/benone), peggiorative (male/malaccio).

– Preposizione

  Le preposizioni, che dal latino “praeponere” significano “porre davanti”, sono, in grammatica, una parte invariabile del discorso che sono utili a costruire un legame fra parole e frasi, specificando un rapporto reciproco e la funzione sintattica della parola, locuzione o frase che segue. Le preposizioni sono suddivise dalla grammatica italiana in tre categorie, vale a dire:

  • proprie, che possono essere semplici (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra), e articolate quando a quelle semplici, escludendo tra e fra, si unisce un articolo determinativo; – improprie, quelle impiegate anche come nomi, aggettivi, avverbi o forme verbali, ad esempio gli avverbi (sopra, sotto, davanti, dietro, dentro, fuori, dopo e così via) e gli aggettivi (vicino, lontano, salvo, lungo e così via).
  • locuzioni prepositive, che sono quelle formate da più di una parola (a causa di, di fronte a, in compagnia di, per mezzo di).

  Le preposizioni articolate derivate da e di sono spesso usate con la funzione di articoli partitivi.

– Congiunzione

  Le congiunzioni sono la parte del discorso invariabile e servono a unire tra loro due sintagmi in una proposizione o due proposizioni in un periodo; esse possono trovarsi all’inizio delle frasi.

  Le congiunzioni si possono raggruppare in base alla loro forma o in base alla loro funzione. In base alla forma, si suddividono in semplici, quelle che sono costituite da una sola parola (e, o, non, ma, pure, mentre, come, che, se, anzi, però, anche), in composte, quando scaturiscono dalla fusione di più parole come cioè (ciò + è), affinché (a + fine + che), oppure (o + pure), perché (per + che), poiché (poi + che), appena (a + pena), eppure (e + pure), neanche (né + anche), e in locuzioni congiuntive, quando sono formate da gruppi di due o tre parole come anche se, dal momento che, ogni volta che.

 Le congiunzioni, in base alla funzione, si distinguono, poi, in coordinanti e subordinanti. Le prime coordinano le parole o proposizioni che si trovano sullo stesso piano logico e sintatticamente omogenee. Esse si distinguono in copulative positive, quelle che congiungono due elementi (e, anche, pure, inoltre, ancora, perfino, altresì) e in copulative negative quelle che non congiungono due elementi (né, neanche, neppure, nemmeno).

  Le congiunzioni disgiuntive sono quelle che uniscono due parole, mettendole in alternativa ed escludendone una (o, oppure, altrimenti, ovvero); quelle avversative che introducono un’opposizione (ma, tuttavia, però, pure, eppure, anzi, sì, nonostante, nondimeno, bensì, piuttosto, invece, mentre, se non che, al contrario, per altro, ciò nonostante).

  Le congiunzioni sì e anzi sono ormai d’impiego raro e introducono più una coordinazione sostitutiva che un’avversativa. Quelle conclusive introducono, poi, una conclusione (dunque, perciò, quindi, pertanto, allora, per cui, cosicché, inoltre, eppure, insomma, così).

 Le congiunzioni dichiarative (o esplicative) sono quelle che introducono una spiegazione, collegata a un’affermazione che le precede (infatti, difatti, invero, cioè, ossia, ovvero, vale a dire, in effetti, effettivamente, in realtà). Infine quelle correlative s’impiegano in coppia tra due proposizioni e mettono in corrispondenza due elementi (e… e, o… o, né… né, sia… sia, non solo… ma anche, ora… ora, tanto… quanto, tale… quale, così… come, come… così, sia che… sia che).

  Le congiunzioni subordinanti sono quelle che collegano due proposizioni mettendole su piani diversi come una proposizione principale, che regge il periodo, e una proposizione subordinata, che completa il significato della principale, ma ne dipende e non dà informazione senza di essa. Le congiunzioni possono essere:

  • causali quelle che introducono una subordinata causale (siccome, poiché, perché, in quanto che, giacché, dacché, dal momento che, per via che, visto che, dato che, come); – consecutive quelle che esprimono una conseguenza dell’avvenimento principale

(che, cosicché, tanto che, in modo che, così… che, tanto… che);

  • temporali quelle che introducono un’informazione di tipo temporale (quando, finché, fin quando, fintantoché, da, da che, da quando, dopo che, prima che, intanto che, non appena, ogni qual volta, ogni volta che, ora che, mentre);
  • concessive quelle che esprimono una concessione al verificarsi della principale

(anche se, anche quando, qualora, nonostante, benché, sebbene, quantunque); – condizionali quelle che esprimono una condizione (se, qualora, purché, a condizione che, a patto che, laddove);

  • modali quelle che introducono una modalità (come, come se, nel modo che);
  • avversative quelle che esprimono forme di avversità (mentre, quando);
  • eccettuative, esclusive, limitative (tranne che, fuorché, eccetto che, salvo che, a meno che, senza che, per quello che);
  • interrogative dirette (se, come, quando, quanto, perché);
  • comparative (come, così… come, più/meno… di come, più/meno… di quanto, più/meno/meglio/peggio… di quello [che], piuttosto che).

– Interiezione

  L’interiezione deriva dal latino interiectio e significa atto di gettare in mezzo; essa è un genere di parole invariabili con il valore di frase, che viene impiegata per esprimere emozioni o stati soggettivi del parlante. L’interiezione prende il significato dall’accento con cui si pronuncia.

 In base alla forma, le interiezioni si dividono in proprie o primarie, quando hanno soltanto funzione d’interiezione (ah!, eh!, oh!, boh!, ahimè!), in improprie o secondarie, quando contengono altre parti del discorso, impiegate come interiezione (zitto!, peccato!, cavolo!, mostro!) e in locuzioni interiettive, quando sono formate da gruppi di parole separate (mio Dio!, per amor del cielo!, porca miseria!, povero me!, al fuoco!, al ladro!).

La lettura come processo di percezione selettiva

Lo studio della lettura ha assunto, negli ultimi decenni del Novecento, uno status scientifico. Alcuni studiosi di psicologia hanno, infatti, riconosciuto che la ricerca sulle capacità del leggere un testo ha una forte valenza pratica. Lo esige la società complessa, soggetta a continui e veloci cambiamenti. Saper leggere non è, tuttavia, facile. Molte persone istruite sono pessimi lettori, altre leggono in maniera accettabile e soltanto pochissime sanno leggere correttamente.

La conoscenza dei meccanismi, che regolano la lettura, è, perciò, di fondamentale importanza, per aiutare chi, in tale campo, incontra difficoltà. Chi non sa leggere spesso non riesce nemmeno a comunicare con gli altri.

Saper leggere è, quindi, un’attività complessa, giacché chi si accinge alla lettura deve servirsi contemporaneamente di vari elementi (percezione visiva, capacità cognitive e linguistiche, abilità a discriminare le figure alfabetiche).

Nel processo della lettura si possono individuare tre fasi essenziali:

  • movimenti oculari;
  • trasformazione di un grafema in morfema; – memorizzazione.

Normalmente si pensa che la lettura di un testo avvenga con lo spostamento degli occhi da sinistra verso destra. L’occhio, durante la lettura, subisce, in realtà, degli spostamenti, ma questi sono provocati dai movimenti oculari. La prima azione del movimento oculare è la fissazione; la seconda è, invece, il movimento saccadico.

Il lettore, attraverso la fissazione, raccoglie le informazioni visive e, in tal modo, riesce a distinguere, in un contesto, una parte della figura o della parola; tramite il movimento saccadico stabilisce, poi, su quale parte della figura o della parola far cadere la fissazione (span percettivo). E’ naturalmente il cervello umano, che, unendo i vari dati delle fissazioni, ricostruisce globalmente le figure o le parole e permette la lettura.

I movimenti saccadici si possono, poi, suddividere in:

  • progressivi, che permettono di portare lo sguardo in avanti sul rigo di un testo; – regressivi, quelli che permettono, osservando lo stesso rigo di un testo, di ritornare      indietro;
  • di ritorno sono quei movimenti che rendono possibile, portando lo sguardo indietro,      ma in basso, di passare al rigo successivo del testo.

Il segmento di rigo di un testo che consente, tramite la fissazione, di vedere distintamente le informazioni necessarie per leggere è detto span percettivo. Questo è un segmento molto limitato, giacché al suo interno sono raccolte soltanto le lettere che sono fotografate dalla fovea (circa mm 0,5). Nella lettura è, perciò, possibile inquadrare pochissime immagini di lettere.

Sullo span percettivo, giacché le lettere in un rigo non sono mai isolate, ma sempre attigue, interferisce anche il fenomeno del mascheramento laterale. Questo fenomeno, specialmente quando l’immagine delle lettere attigue non cade al centro della fovea, rende maggiormente piccolo lo span percettivo. Ciò avviene giacché la vicinanza di tali lettere non ne permette una visione distinta e separata.

La percezione della lettura può, inoltre, essere:

  • discontinua, quando, esplorando un testo, se ne colgono soltanto frammenti; –        selettiva, quando, nel processo della lettura, il cervello sceglie solo le parti        fondamentali;
  • guidata, quando il cervello, nell’esplorazione di un testo, ne programma, in maniera  intelligente, la scelta delle parti, basandosi su tutti gli elementi conoscitivi già posseduti.

Il cervello opera, durante la lettura, in maniera logica. Esso, da un lato, mette insieme le immagini frammentate dei testi e, dall’altro, colma i vuoti che si producono a causa della selettività della percezione.

Il processo percettivo, essendo alquanto complicato, evidenzia spesso che sussiste una sostanziale differenza tra le informazioni che gli uomini percepiscono e i dati reali. Ognuno deve, per acquisire la capacità di leggere adeguatamente la realtà che lo circonda, saper individuare i principi che regolano il processo percettivo e, nello stesso tempo, sia controllarli consapevolmente sia utilizzarli efficacemente.

Le strategie di lettura, relative alle finalità e alle esigenze del lettore, sono tre:

  • lettura di consultazione, che consiste nello scorrere speditamente il testo per scorgere le informazioni e nel saltellare qua e là per acquisire un’idea generale. Si utilizzano, in genere, guide, saggi e manuali;
    • lettura orientativa, che consiste nel capire titoli, sottotitoli, inizio e fine dei paragrafi per dedurre il tema trattato;
    • lettura analitica o di approfondimento, che consiste nel leggere attentamente il testo e fare approfondimento, operando le seguenti operazioni: eseguire lo smontaggio del testo, cioè dividere in paragrafi e sottolineare; ricavare l’informazione principale di ciascun paragrafo; effettuare la nominalizzazione, cioè attribuire un titolo a ciascun paragrafo in base al contenuto.

Ogni testo, sia di ambito letterario sia di ambito non letterario, va ricondotto, in base al modo in cui è costruito e al suo contenuto, a una particolare tipologia. Gli studiosi sono soliti dividere i testi in cinque tipologie, vale a dire descrittivi, narrativi, espositivi, argomentativi, regolativi. Durante la lettura di un passo di un testo, il riconoscimento veloce della tipologia testuale semplifica considerevolmente la scelta della strategia da utilizzare per rispondere.

Gli elementi che bisogna facilmente individuare in un brano sono le informazioni specifiche, il senso globale e il significato di singole parti, nonché l’intenzione comunicativa dell’autore, lo scopo del testo e il genere cui esso appartiene. Le informazioni specifiche sono quelle di:

  • riconoscere una o più informazioni peculiari, presenti nel testo, e farlo in maniera        esplicita, vale a dire in forma letterale e in forma sinonimica;
  • specificare una o più informazioni che risultano presenti sia in forma verbale sia in      forma grafica;
  • prendere in considerazione fra più informazioni quella relativa alla domanda     specifica.

Il senso globale e il significato di singole parti devono, dunque, essere colte:

  1. con l’integrare o il collegare le informazioni che sono presenti nel testo e/o tratte

 dalle conoscenze personali;

  • con il cogliere rapporti di causa-effetto tra eventi o fenomeni anche distanti nel testo;
  • con il comprendere le informazioni implicite.

Ognuno, per cogliere l’intenzione comunicativa dell’autore, lo scopo del testo e il genere cui esso appartiene, deve:

  • riconoscere l’argomento principale di un testo;
  • capire le intenzioni, la visione dell’autore o lo scopo per cui il testo è stato scritto; – identificare la tesi che si propaga nel testo e le ragioni a supporto.