La scuola è finita?

La scuola è finita?

di Maria Grazia Carnazzola

1 – La situazione

Ho modificato il titolo dell’Espresso del 6 giugno u.s “La scuola è finita – Abbandono degli studi, disagio, disuguaglianze territoriali in crescita”.

Dopo quasi due anni di scuola a singhiozzo tra presenza e distanza, possiamo sostenere che sono stati due anni perduti per l’apprendimento. Per i ragazzi, per i docenti, per l’istituzione, per il Paese. Qualcuno azzarda che la Dad fosse l’unica soluzione; qualcuno sostiene che è stato un fallimento, che bisognava fare qualcosa d’altro, ma non dice che cosa. Si continua a parlare dello stress dei giovani, dell’ansia legata alla valutazione degli esiti scolastici, spesso collegando questo stato di cose alla pandemia, alla limitazione della vita di relazione, al ritiro sociale che avrebbe portato con sé l’uso smodato dei social e delle tecnologie dell’informazione in generale. È senza dubbio un periodo non facile. Ma se andassimo a rivedere il report OCSE 2015 relativo al questionario “benessere degli adolescenti”, somministrato in occasione del test PISA per la rilevazione delle competenze in Scienze, Lettura e Matematica, vedremmo che i nostri quindicenni- già allora- erano mediamente meno soddisfatti della loro vita quotidiana rispetto ai loro coetanei del resto del mondo, facevano un uso smodato di internet e, questo è il punto, vivevano la scuola con molto stress ed erano in ansia per le interrogazioni- anche se ritenevano di aver studiato- per la paura di un voto negativo. Inquadriamo le situazioni nei giusti contesti, allora, per non scambiare i fatti con la loro narrazione. Questa che stiamo vivendo oggi tutti noi, e che tocca particolarmente gli adolescenti, è un’esperienza di cui si dovrà fare tesoro quando usciremo dalla pandemia, sapendo che le cose non torneranno esattamente come prima. Il futuro va pensato in termini di possibilità e non di probabilità, perchè il probabile è riferito a ciò che si conosce o si immagina di conoscere e il futuro, per definizione, è ciò che non si sa. Dovremo farne tesoro perché una società senza memoria è superficiale, si muove in un presente che sembra sospeso nel vuoto come se non avesse provenienza e neppure destinazione. Mentre sappiamo che è la nostra capacità di cambiare, tenendo conto del contesto e delle difficoltà senza farci travolgere, che ci permetterà di ricominciare. Senza memoria ci si trova a dover improvvisare per far fronte ai problemi, ma le soluzioni improvvisate non sono mai durature e i problemi si ripresentano con il peso delle mancate o inadeguate soluzioni. L’ambiguità delle politiche scolastiche e delle scelte che si operano, non solo in questo sfortunato periodo, fanno pensare alla sostanziale mancanza di un progetto per i giovani e per il loro affacciarsi al mondo del lavoro, quando assumeranno piena autonomia nei confronti del mondo adulto. La scolarizzazione nominale, che continua a produrre certificazioni corrispondenti a livelli elevati di competenza a cui non corrispondono livelli reali, produce aspettative sociali che, se non soddisfatte, possono trasformarsi in fattori patogeni dei comportamenti. Il bilanciamento del mercato del lavoro e sociale, a favore dei giovani, deve avvenire non solo attraverso la redistribuzione della ricchezza, ma soprattutto attraverso il bilanciamento delle opportunità, cominciando dalla scuola.

2 – Un quadro di riferimento necessario

Indipendentemente dalla strutturazione dei percorsi di formazione/istruzione e dai contenuti effettivi, possiamo individuare nel disegno di un percorso educativo, a livello generale, quattro momenti tra loro interrelati e conseguenti. Ad esempio, la definizione di una prova di profitto non è solo un problema tecnico ma comporta risvolti di politica scolastica e produce sugli insegnanti, come tutti i sistemi di esame, una modifica della programmazione e della pratica didattica.

a)  Gli scopi – non attribuendo a questo termine un significato univoco né in relazione a percorsi e contenuti, né alla loro giustificazione culturale. Rispetto ai contenuti, gli scopi- finali o immediati- possono essere sociali, morali, religiosi, professionali, intellettuali, estetici…tra loro in accordo o in opposizione, in continuità o discontinuità; sono giustificati culturalmente da richieste ed esigenze sociali, psicologiche, pedagogiche… che possono escludersi o integrarsi. Il concetto di scopo educativo, pur nella problematicità della definizione, costituisce il momento essenziale dell’intero processo educativo. Pensare alla formazione dell’uomo che sarà, alle qualità e agli strumenti che dovrà possedere per affrontare il futuro, non può che stimolare riflessioni e produrre ipotesi, in un periodo non facile come quello che stiamo attraversando, da parte di tutti i settori tradizionalmente afferenti al dominio delle scienze dell’educazione, della pedagogia sperimentale, della tecnologia dell’istruzione, della docimologia, a cui oggi si aggiungono i contributi delle ricerche afferenti alle aree della sociologia, dell’antropologia, della linguistica, della scienza cognitiva, della psicologia dell’apprendimento, dell’informatica e della cibernetica. Dal dibattito nazionale sull’educazione provengono messaggi contradditori rispetto agli scopi da perseguire, sia in sede di politica scolastica sia in sede di ricerca. Spesso si assiste a interpretazioni diverse di problemi che, in un primo momento, avevano dato luogo a descrizioni simili. Mi chiedo se non si sia innescata una dinamica perversa per cui la scolarizzazione produce un aumento dell’insegnamento senza che da questo derivino benefici verificati dei repertori conoscitivi, delle capacità interpretative o di competenze professionali. E mi chiedo che significato abbiano ora concetti come “istruzione obbligatoria”, “diritto allo studio” e “istruzione di base”, un tempo collegati alla concezione democratica dell’uguaglianza delle opportunità educative. Il tempo della formazione scolastica è prezioso se viene impiegato per tramandare, conservandolo, il patrimonio di cultura delle generazioni precedenti quale premessa per sviluppi ulteriori; rappresenta uno spreco quando viene disperso per far compiere agli allievi esperienze ambigue.

b)  In funzione del raggiungimento degli scopi, si procede alla scelta degli strumenti: i contenuti di cultura, i sussidi e le tecnologie, scelta che tiene conto di mediazioni di carattere teorico, pedagogico e didattico- giustificata dalla tradizione o da esigenze psicopedagogiche. Succede, talvolta, che nella scelta degli strumenti si manifesti una forma di subalternità alle suggestioni di elementi che godono di una diffusa attenzione, come le tecnologie, le cui potenzialità non sono però interpretate in funzione dello specifico progetto formativo. Il testo “Imparare” di S. Dehaene, nella parte riferita ai quattro pilastri dell’apprendimento, può offrire un valido contributo all’approfondimento della questione.

c)  Gli strumenti educativi vengono organizzati a diversi livelli di complessità che va dall’organizzazione dei contesti di apprendimento, della lezione nelle diverse declinazioni, della sequenza degli interventi didattici disciplinari e della loro interazione/integrazione, del rapporto tra didattica generale e didattica speciale, del collegamento tra attività dell’insegnante e quella degli allievi, fino alla costruzione di un curriculum degli studi di qualsiasi tipologia di scuola. Il tipo di organizzazione è frutto di scelte riconducibili, in modo esclusivo o prevalente, alla tradizione o a teorie psicopedagogiche e didattiche presenti in modo più o meno esplicito nelle indicazioni a livello esteso (macrosistema) o a livello prossimo (microsistema). L’esigenza è quella di organizzare l’insegnamento a misura del gruppo di apprendimento; si pone così il problema del chi è il destinatario dell’insegnamento che vincola a sua volta l’aspetto del come insegnare.

d)  Il momento del controllo (monitoraggio, verifica, valutazione), strutturalmente connesso all’intero processo e alla fase della programmazione, è finalizzato ad accertare se e in quale misura l’organizzazione e gli strumenti scelti hanno permesso di raggiungere gli scopi proposti, per apportare gli eventuali necessari cambiamenti. La pratica valutativa è fonte di ansia e di stress anche per i docenti per molti motivi: la disomogeneità dei criteri tra colleghi, l’esigenza di non trasformare il voto in un giudizio sulla persona e di farlo comprendere, la contraddizione tra le insufficienze accertate e le ammissioni deliberate, la mancanza di una riflessione condivisa per la valutazione delle abilità trasversali o delle competenze … Credo veramente che gli insegnanti desiderino attribuire valutazioni positive agli studenti, almeno tanto quanto questi desiderino riceverle. Senza contare che il poter assegnare voti positivi riscontra positivamente le fatiche del proprio insegnare e riduce lo scoramento delle promozioni prive di giustificazione valutative. La decisione di conservare l’istituto della ripetenza, consentendo la promozione con delle insufficienze, rende indispensabile un articolato e rigoroso sistema di criteri, docimologicamente fondato, per la costruzione delle verifiche e per l’attribuzione della valutazione: come definire la sufficienza, come documentare i processi di miglioramento, come fissare obiettivi chiari in termini di risultati attesi.

Ho detto più sopra che la scuola non può permettersi di sprecare il tempo e l’intelligenza degli allievi e che l’attività educativa non può identificarsi con il consumo di tecnologie, altrimenti diventa un discorso ideologico alla cui luce leggere anche il dibattito sulla cosiddetta Dad. Sappiamo che le ideologie, nelle situazioni di disagio e di incertezza, orientano e giustificano gli atteggiamenti e i comportamenti favorendo associazioni con valori morali, culturali e scientifici già accreditati. Nell’ultimo periodo le ragioni di disagio nel campo dell’istruzione-formazione-educazione sono state molte: incertezze e contraddizioni nelle linee generali di indirizzo, nella definizione del ruolo sociale della scuola, nella precisazione degli ambiti e degli oggetti, nella scelta e gestione delle attività, nei criteri per la valutazione degli esiti.

3 – L’istruzione a distanza, formula didattica per un percorso continuo

Sono fermamente convinta, e lo ripeto spesso, che la scuola sia un bene pubblico che si fonda su un patto politico e sociale, sulla condivisione mediata di principi e di paradigmi che connotano un sistema da gestire su una linea di continuità dall’alternanza degli schieramenti di partito e dai ministri, fino che a che questi principi saranno proficuamente praticabili. La qualità di un sistema formativo, infatti, si valuta sulla capacità di raggiungere gli scopi che la società gli affida, nella sua capacità di essere veramente inclusivo a cominciare dal riequilibrio dei diritti degli studenti e degli insegnanti. Su questo aspetto ritengo che anche il mondo sindacale dovrebbe fare una seria riflessione. In questo periodo di protratta emergenza è necessario avere le idee chiare per non continuare a rincorrere mode e a farsi suggestionare da scelte che non portano a nulla se non ad aumentare la confusione. Siamo in un contesto di wide-learning all’interno del quale la scuola deve trovare, attraverso un attento sguardo pedagogico, il suo ruolo specifico di orientamento.

A settembre, pare si dovrebbe ritornare alle lezioni in presenza ma, pare, l’esperienza della Dad non sarà archiviata, anzi diventerà un aspetto da capitalizzare. L. Floridi sostiene che dopo la pandemia, il quarto aspetto necessario sarà quello dell’apprendimento on -life. Un percorso educativo di istruzione/formazione a distanza può essere tale solo per quello che riguarda l’aspetto spazio/temporale; gli aspetti relativi ai contenuti e all’impianto metodologico devono per forza di cose fare riferimento, invece, a esperti sia del settore disciplinare sia didattico, per salvaguardare gli aspetti cognitivi, affettivi e gestionali dell’insegnare e dell’apprendere. L’istruzione a distanza permette a ciascuno di gestire e monitorare in modo autonomo e flessibile le proprie attività, organizzando con flessibilità i tempi e modi dello studio. Gli aspetti cognitivo/affettivi del processo di insegnamento/apprendimento sono garantiti dal controllo che viene realizzato nel continuo feedback di informazioni che consentono a chi apprende una modifica o un consolidamento delle strategie utili per affrontare compiti nuovi; ai docenti il controllo suggerisce le variazioni/compensazioni da introdurre e da indicare, andando di fatto nella direzione della personalizzazione/individualizzazione e, quindi, dell’inclusione.

4 – Per concludere

Per chiudere, un accenno all’Esame di Stato, un problema scomodo che non viene approfondito, ma che si tratta in termini di attualità che “fa titolo”. Anche quest’anno si svolgerà solo in forma orale, come lo scorso anno. Forse non si poteva fare altrimenti, ma trovo fuorviante tutto quello che si dice su questo maxi-orale. Che non può essere maxi perché dura 60 minuti, esattamente come quando c’erano le prove scritte: i saluti, due parole di rassicurazione… e si parte. Presentazione dell’elaborato, poi le parti dei programmi svolte, i saluti… I ragazzi sanno bene come funziona, sanno che non è lo stesso dell’esame tradizionale, sanno che non tutti possono avere avuto lo stesso aiuto nella preparazione dell’argomento assegnato….Invece di dire loro che “Non è un esame di serie B”, dovremmo dire che cosa pensiamo di fare per dare loro quello che non hanno avuto, per una serie di motivi contingenti ma anche per la nostra incapacità di visione, uscendo dalla narrazione della gioventù negata, perché la gioventù non è solo un fatto biologico. Noi adulti sappiamo perfettamente che quello che non abbiamo dato, i ragazzi se lo dovranno cercare da soli, è questo il problema vero. Mi auguro che almeno quest’anno, dopo la pubblicazione degli esiti, non ci si limiti al riduttivo sguardo statistico- che B. Vertecchi considerava un aspetto del modalismo- perché, di nuovo, si ignorerebbero l’ampiezza e la dispersione delle variabili in gioco e si conferirebbe valore di modello esclusivamente agli aspetti formali. È difficile costruire modelli pedagogico-didattici partendo da fatti e notazioni marginali, anche se sono oggetto di una diffusa attenzione mediatica. Le indagini statistiche, quando sono serie ed effettuate su un vasto campione, dovrebbero portare ad analisi approfondite e non a sterili polemiche. Infatti, la valutazione è il concreto riscontro delle finalità culturali e sociali assegnate all’Istituzione Scuola e nelle pratiche valutative si rintracciano i dati distintivi dell’azione didattica e, più in generale, della qualità dell’istruzione. E’ un problema rilevante che rimanda a giudizi di valore di ordine filosofico, a consapevolezza storico-sociale, a valutazioni economiche che richiedono, qualche volta, di studiare sperimentalmente dei modelli di innovazione possibili da generalizzare con un impegno di spesa sostenibile. Da qui dovrebbero partire sia serie ricerche pedagogiche orientate alla conoscenza dei problemi dell’educazione- formazione- istruzione nei diversi contesti, sia un profondo cambiamento della strutturazione dei contenuti, delle modalità didattiche e di valutazione degli esiti. Così, forse, la scuola non finirà.

BIBLIOGRAFIA

B. Vertecchi, Decisione didattica e valutazione, La Nuova Italia, Firenze 1993;
M. Gattullo, Didattica e docimologia, Editore Armando Armando, Roma 1975;
Settimanale L’Espresso n.24, 6 giugno 2021;
S. Dehaene, Imparare-Il talento del cervello, la sfida delle macchine, Raffaello Cortina, Milano 2019; L. Floridi, La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina, Milano 2017;
L. Floridi, Pensare l’infosfera, Raffaello Cortina, Milano 2020.