M. Vichi, Il Brigante

Marco Vichi tra bene e male

di Antonio Stanca

Lo scrittore Marco Vichi è nato a Firenze nel 1957. Ha sessantaquattro anni e vive sulle Colline del Chianti. Ha iniziato a scrivere per giornali e riviste del posto, ha creato programmi per la radio finché nel 1999 non ha esordito nella narrativa prima con racconti comparsi su riviste e poi col romanzo L’inquilino. Nel 2002 ha iniziato la serie di romanzi polizieschi ambientati nella Firenze degli anni ’60 e interpretati dal commissario Bordelli. Avrebbe continuato con altri racconti e romanzi, si sarebbe dedicato al teatro, alla televisione e a laboratori di scrittura. Molti riconoscimenti avrebbe ottenuto, molto avrebbe fatto e continua a fare mosso dall’intento di portare sulla pagina, sulla scena, sullo schermo i problemi dell’animo umano, le sue pene, quelle venute dopo gravi situazioni, gravi azioni, quellediventate difficili da rimuovere. La vita da lui rappresentata avviene di nascosto, lontano dall’evidenza,è di persone che vivono di espedienti, di travagli, di clandestinità, che non fanno parte del processo, del movimento delle altre, che escluse sono dagli interessi, dalle intenzioni, dalle pratiche di queste. Una vita diversa da quanto si vede, si pensa, si dice è quella dei malfattori, degli incoscienti, un’opera che la rappresentaè quella del Vichi ma non in maniera esclusiva ché spazio c’è, nel suo narrare, anche per quanto non ècattiveria, crudeltà bensì rimorso, pentimento.

Un’ennesima prova di questa abile combinazione tra bene e male che lo scrittore sa compiere è il romanzo Il brigante, ristampato quest’anno dal Gruppo Editoriale GEDI. In precedenza l’opera aveva avuto, presso Guanda, due edizioni, una nel 2006 e l’altra, illustrata, nel 2015.

  Anche qui gli ambienti tendono ad essere cupi, misteriosi, i personaggi, i discorsi poco chiari, anche quila situazione è sospesa, percorsa da un senso di paura, di pericolo. In un passato piuttosto lontano, durante una notte di tempesta, tra la pioggia sempre più fitta e i tuoni sempre più vicini, in una taverna isolata, Tasso Morto, sulle colline intorno a Pistoia giunge un viandante solitario che cerca cibo per mangiare e un letto per dormire. Nel locale oltre all’oste ci sono tre avventori che intorno ad un tavolo sono intenti a parlare tra loro, a bere e a fumare. In disparte su una grossa panca c’è disteso, con addosso i vestiti, Frate Capestro, il brigante, un bandito crudele, sanguinario, il più pericoloso della zona. La stanza è riscaldata dal fuoco di un camino. Dopo aver mangiato il nuovo arrivato si unirà ai tre avventori e insieme, tra bevute e fumate, si lasceranno andare ai ricordi della loro vita, a quelli che più di tutti l’hanno segnata perché di vicende, azioni molto gravi, crudeli. Venivano tutti da famiglie povere, erano stati tutti vittime di disgrazie, di sventure e da qui, dai bisogni, dalle necessità più elementari erano stati spinti a compiere azioni malvagie, a praticare il male, adiventare cattivi. Ne avevano compiute di cattiverie, non ne avevano mai parlato ma ora sentivano quasi il dovere di farlo perché confessando le proprie colpe sembrava loro di potersene liberare. Si erano convinti che grave sarebbe stato se non si fosse mai saputo niente.

  Il romanzo contiene, quindi, i racconti che i quattro faranno dei propri peccati. A quelli si aggiungerà il racconto che Frate Capestro farà della sua vita, delle sue nefandezze che sono molto più gravi. Anche a lui sembrerà di poterle eliminare tramite la loro confessione.

  Tra tanto male il Vichi ha scoperto la via del bene, non ha lasciato impunite quelle colpe, le ha riscattate, le ha assolte. Ha fatto parlare di esse, ha fatto cercare una spiegazione. Vi erano state indotte quelle persone ed ora cercavano di essere capite, giustificate.

Ancora una volta lo scrittore è riuscito a far stare insieme il male col bene, a combinarli, a farli apparire come elementi, aspetti propri della vita anche se di una certa vita.