Uscire dal mare dell’ambiguità

Uscire dal mare dell’ambiguità

di Maria Grazia Carnazzola

1. Di nuovo a distanza?

Ed eccola di nuovo, la domanda che non ci fa stare tranquilli: a settembre attività in presenza o a distanza? Esattamente come lo scorso anno, senza che nel frattempo si sia definita una nuova struttura complessiva dell’insegnare/apprendere, un sistema di didattica integrata presenza/distanza che chiarisca quale tipo di scaffalding per l’apprendimento, quale modello di formazione – a cominciare dalla formazione degli insegnanti-, quali gli obiettivi, quali i percorsi e quali i risultati. Ci stiamo dimenticando che il compito fondativo della scuola, che fa parte del sistema educativo, è primariamente l’istruzione; questo la connota come istituzione sociale con caratteri specifici che la distinguono da altre esperienze culturali come la vita familiare, le attività connesse con avvenimenti culturali o le attività di animazione socioculturale… La scuola educa attraverso l’istruzione e contribuisce con la propria funzione specifica, che si concretizza attraverso la progettazione collegiale e la ricerca didattica, all’acquisizione dei linguaggi- naturali e specifici-, alla comprensione della realtà nel suo complesso, per l’accesso alla cultura come diritto. Possiamo dire che la scuola, ancora oggi, continua a rappresentare un importante percorso di umanizzazione culturale e gli insegnanti, quelli che lo sono di fatto e non solo di nome, sanno che nel loro lavoro occorrono ragionamenti a metà tra istruzione ed educazione, tra responsabilità specifiche e responsabilità trasversali.

2. Parole nuove, idee vecchie.

Lo scorso anno il Piano scuola 2020/2021. Quest’anno, fresco di presentazione, RiGenerazione Scuola-Piano per la transizione ecologica e culturale delle scuole, pensato nell’ambito dell’attuazione dell’Agenda 2030 dell’ONU, sullo sfondo il PNRR. Ho letto con attenzione il PNRR-Missione 4,5 Istruzione e ricerca, ma di questo non mi occuperò in questa sede. Ho visionato con altrettanta attenzione i materiali utilizzati per la presentazione del piano Rigenerazione scuola. Neanche di questo mi occuperò nel dettaglio, ma a entrambi farò riferimento per alcune riflessioni sullo stato attuale del mondo della formazione. Esattamente come lo scorso anno, così sembra a me, sono in primo piano gli aspetti istituzionali, organizzativi, gestionali…e come lo scorso anno nulla si dice di un progetto culturale che parta dal patrimonio conoscitivo e tecnico complessivo di cui la società dispone attualmente e sul quale riflettere, per individuare ciò che deve permanere e ciò che deve cambiare nel futuro prossimo e meno prossimo. Una scuola che meriti questo nome si occupa fisiologicamente del cosa insegnare, del come insegnarlo, monitorando e valutando gli esiti del proprio fare sul piano degli apprendimenti e delle prassi di insegnamento, per la necessaria retroazione. Non è ripetendo le stesse cose in contesti diversi e con formule diverse -inclusione, innovazione, digitalizzazione, transizione, cittadinanza…- che l’organizzazione istituzionale diventerà organizzazione culturale e poi “mentalità comune” della nazione. Così come non è imputando il basso livello di competenze, rilevato ancora una volta dalle prove INVALSI, all’attività scolastica svolta a distanza che si potrà cercare una via per il miglioramento del servizio scolastico nazionale. La qualità della nostra scuola rappresenta un problema non da ora. Già le ricerche IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) degli ’90 del secolo scorso avevano messo in evidenza che i risultati della scuola primaria erano comparativamente assai migliori rispetto a quelli della “scuola media”, mentre per le “Superiori” i risultati erano disastrosi sia comparativamente sia per il divario nord-sud. Situazione sovrapponibile a quella odierna. Va da sé che due anni di quasi nulla non possono che aver peggiorato la situazione. Credo sia il momento di affrontare la questione, che è davvero drammatica, lasciando sullo sfondo le sterili polemiche e i soliti dibattiti che non portano a nulla e che, se vanno nella direzione dell’interesse di qualcuno, non è certamente quello dei ragazzi e, quindi, della società tutta. Occorre contrastare, sulla base dei risultati oggettivi- siano essi dati o evidenze-, quella demagogia rappresentata da una pedagogia facilistica, qualunquista e forse un po’ corporativa. Aldo Visalberghi, in un discorso sulla necessità di procedere sulla base di dati oggettivi e con rigore scientifico, sosteneva non rispondente al vero “… il mito che i risultati educativi migliorano sistematicamente se si riducono il rapporto insegnanti allievi e la numerosità delle classi. Mezza dozzina di ricerche IEA hanno dimostrato che al di sotto dei venticinque allievi per classe, ulteriori riduzioni non comportano nessun vantaggio, talvolta svantaggi, nel rendimento degli allievi”. Oggi il problema sembra quello delle “classi pollaio” (orribile espressione che accomuna gli allievi ai polli). Quante sono percentualmente? Di quali ordini e gradi di scuola? Come si rileva comparativamente la caduta di rendimento e dei livelli di apprendimento? Con quali criteri, strumenti, metodologie? Personalmente ritengo che ci siano attività per le quali il piccolo gruppo sia utile e funzionale, per altre decisamente no; con i più piccoli classi ridotte sono necessarie; per i grandi, che dovrebbero aver raggiunto una sufficiente autonomia di lavoro e di comportamento, forse meno. Basterebbe rivedere il lavoro di David P. Ausubel. O vogliamo sostenere che non ci sono differenze tra i tempi e i modi di apprendimento di piccoli e di adolescenti?

Allora il problema vero è quello di ridisegnare strutturalmente il sistema scuola, tenendo conto delle criticità e delle opportunità, individuando con chiarezza percorsi e necessità, partendo dall’esistente per calibrare la misura dei cambiamenti da introdurre, monitorare, valutare e implementare. La scuola è un sistema e come ogni sistema può gestire una certa quantità di cambiamento in un tempo dato, tenendo conto di tutte le variabili in gioco e della naturale resistenza al cambiamento che ogni sistema manifesta.

3. Ridisegnare il sistema a cominciare dalla formazione degli insegnanti.

Le indagini di largo campione dovrebbero rappresentare l’occasione di analisi approfondite per individuare le possibili cause dei fenomeni che emergono. La sensazione è quella di una grande incertezza e ambiguità delle politiche scolastiche nel proporre interventi volti a incidere sulla cultura della scuola, per esempio attraverso la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti. Al di là dei periodici sussulti di entusiasmo per l’uno o l’altro tema che gode dell’attenzione del pubblico, emerge spesso da parte del Ministero una contraddittorietà nelle linee da perseguire: si conferma la centralità della formazione degli insegnanti e parallelamente si immettono nel sistema migliaia di persone di cui, fatti salvi i casi particolari, non è evidente né accertato di quali repertori conoscitivi o competenze professionali dispongano. Sappiamo che il bisogno di formazione di una categoria di lavoratori può essere inteso come carenza da superare rispetto a un modello dato, o come idealità da perseguire. Le idealità appartengono al livello nazionale e costituiscono le priorità del sistema; le carenze da superare – le criticità riportate nel RAV- appartengono al singolo istituto scolastico. Quali sono, allora, i bisogni formativi degli insegnanti, indipendentemente da come sono rilevati, quali quelli riferiti alle idealità e quali quelli riferiti alle criticità? Problema spinoso, mancando oltretutto un profilo professionale di riferimento che dia spessore alla consapevolezza individuale delle proprie carenze. Non è cosa da niente, perché ciò rende poco attendibili i metodi di rilevazione di tipo quantitativo dei bisogni: posso rispondere a una domanda volta a rilevare un mio bisogno solo se sono consapevole di quel bisogno. Altrimenti a determinare i “bisogni” sono le connotazioni delle identità collettive e i meccanismi di senso comune che influenzano e orientano i comportamenti professionali di un contesto dato. Attilio Monasta sosteneva che serve “una modalità di indagine mirante non solo a scoprire l’esistenza oggettiva del bisogno e a sollecitare la relativa domanda, ma soprattutto a facilitare la presa di coscienza soggettiva della esistenza di bisogni ignorati o mascherati”.

Di formazione, nominalmente, se ne è fatta molta e sugli argomenti più diversi: competenze, curricoli verticali, progettazione, valutazione, didattica innovativa, rubriche valutative, prove autentiche, certificazione, uso delle tecnologie e delle piattaforme… senza mai verificarne seriamente la ricaduta. Frequento molte persone di scuola, come formatore ma anche per altri motivi, e posso dire che navigano in un mare di ambiguità da cui è necessario uscire se si vuole intraprendere un percorso che porti davvero al miglioramento. Molti sono gli aspetti che andrebbero chiariti, a cominciare dalla conoscenza delle norme che spesso, anche se lette, non sono condivise sul piano culturale, politico, sociale e pedagogico, per arrivare a visioni unitarie che forniscano chiavi di lettura per un progetto formativo situato. Ce ne accorgiamo quando – ad esempio- parliamo del rapporto conoscenze/competenze o di disciplinarità/interdisciplinarità: a volte invece che all’unitarietà del sapere, certi percorsi portano ad accostamenti forzati ed estrinseci. Oppure quando si argomenta di prove autentiche, che dovrebbero permettere di rispondere a domande autentiche, per risolvere problemi reali. Ci siamo mai chiesti, ad esempio, quando una domanda è autentica?

Il discorso non è tecnico, come si potrebbe pensare, è un discorso politico: il rischio è quello di annunciare e intraprendere operazioni su vasta scala per la formazione/aggiornamento che producano un impatto bassissimo sul miglioramento reale del sistema. Un approccio unitario al problema, dovrebbe vedere il contributo della ricerca e dell’insegnamento superiore che si gioverebbero, a loro volta, di una proposta pedagogica forte e strutturale. M. Lipman sostiene che “Anziché offrire agli studenti universitari un corso di logica o un corso sul pensiero critico e un corso di biologia o di antropologia o di filosofia, ritengo più opportuno che frequentino un corso introduttivo sul ragionamento biologico, sul ragionamento antropologico o sul ragionamento filosofico affinchè le abilità logiche e i contenuti vengano fin dall’inizio presentati in maniera integrata”.:

Tornando alla centralità della formazione degli insegnanti per la qualità del servizio, formazione che deve declinarsi nei tre ambiti disciplinare, professionale e tecnico-operativo, provo a indicare, a titolo di esempio, alcuni aspetti di carattere generale che dovrebbero essere oggetto di approfondimento.

  • Conoscenza e risignificazione delle norme;
  • conoscenze/competenze;
  • disciplinarità/interdisciplinarità/transdisciplinarità;
  • curricoli verticali: progressività/continuità;
  • valutazione e retroazione;
  • trasversalità/disciplinarità;
  • digitalizzazione/processi cognitivi.

Per uscire dall’ambiguità, per analizzare bisogni e progettare interventi, il primo passaggio è quello di affrontare il tema delle trasversalità: gli aspetti strumentali (compreso l’utilizzo delle tecnologie e delle piattaforme), relazionali e sociali, metacognitivi e culturali afferenti alle diverse discipline, in modo integrato e non sommativo. Trasversalità che vanno interpretate poi a livello disciplinare, sottolineando la centralità delle discipline stesse, dei punti di vista disciplinari e dello sguardo storico/epistemologico all’insegnamento. Andrebbe affrontato l’approccio cognitivo all’insegnamento (altrimenti che senso ha parlare di concetti, di mappe, di pensiero critico, di imparare a imparare…), così come l’approccio funzionale ai saperi per una didattica disciplinare intenzionale e consapevole. Per costruire un curricolo progressivo- che permetta anche di accogliere e pianificare le discontinuità- le discipline vanno pensate come strutture implementabili progressivamente. Parallelamente, il sistema concettuale dell’allievo e il suo apprendimento, vanno pensati come un insieme di processi dinamici in progressivo sviluppo: ampliamento, approfondimento e non solo di semplice accumulo. È evidente, allora, che gli esiti delle prove INVALSI dell’anno in corso non sono riconducibili solo a quella che viene definita “didattica a distanza” e non saranno le liturgiche microanalisi delle cause, che ogni anno vengono condotte per spiegarli, a fornire risposte soddisfacenti o a limitare l’abbandono scolastico. Umberto Margiotta aveva visto lungo quando sosteneva che un modello di formazione, qualunque esso sia, deve sforzarsi di rimettersi in discussione proprio come modello, oltre che come conferma tecnica di teorizzazioni già avvenute. Ma pare che la politica scolastica continui sulla linea della tecnicalità, con progetti nazionali, comitati scientifici, piani di formazione delle cui ricadute poco si sa o si vuole sapere. Sono curiosa di vedere come le scuole attueranno la “transizione ecologica e culturale”. Ecologia significa ricerca di un equilibrio; le culture non sono qualcosa di cristallizzato, per cui è possibile transitare dall’una all’altra, come da una stanza ad un’altra, cambiando le parole e i discorsi. Sono un intreccio di sapere saputo e di sapere vissuto che, incrociandosi, permettono di dare senso e significato a ciò che via via accade e ci accade.

4. I fatti e le narrazioni.

Il PNRR, missioni 4 e 5- pagg. 185/245, parte con l’elenco delle criticità del sistema Istruzione e Ricerca. I problemi sono più o meno gli stessi di quelli elencati in molti documenti, a partire dalla fine degli anni 1980; lo stesso per gli assi a cui fanno riferimento gli obiettivi della missione. È prevista una riforma del sistema di reclutamento e di formazione dei docenti- da avviare nel 2021 e concludere nel 2022- ma parallelamente è prevista l’assunzione di un numero considerevole di docenti secondo le “vecchie” regole. Pare si confermi la prassi, da parte del Parlamento, delle consuete strategie-tampone che certamente non vanno nel verso della costruzione- sperimentazione-implementazione di modelli di una diversa cultura scolastica, che veda la ricerca didattica agganciata ai nuovi saperi e alle nuove esperienze professionali.

Non basta parlare di rigenerazione o di transizione. Non serve osannare o condannare la didattica a distanza. Serve prendere atto che in questo momento storico attività in presenza e a distanza dovranno essere integrate per cercare di comprendere quello che sta accadendo ora e prefigurare scenari possibili: la pandemia “accade” e non bastano i mantra scaramantici. La modalità di integrazione dipende da molti fattori che riguardano contemporaneamente i docenti, gli allievi, il contesto. Per questo il modello e la logica di utilizzo e di formazione non possono essere lineari né definitivi. La domanda è sempre la stessa: quale scuola e quali processi di insegnamento apprendimento? Scegliere uno strumento non è solo un fatto tecnico, ma filosofico e pedagogico, perché si va a incidere sui processi cognitivi, indirizzando il pensiero e influendo sulla psicologia sociale. Mc. Luhan sosteneva che il mezzo è il messaggio; le piattaforme veicolano messaggi, ponendo problemi etici ma anche legali, e i docenti devono fare attenzione a come i contenuti possono arrivare agli allievi. Ecco che torna il problema della formazione dei docenti la cui cultura di base è fondamentale, così come lo è la cultura di cittadinanza perché si è cittadini responsabili prima che professionisti.

BIBLIOGRAFIA

Monasta A., Progettista di formazione, Carocci 2000;
Lipman M., Educare al pensiero, Vita e pensiero 2015;
Margiotta U., Teoria della formazione, Carocci Editore-Studi superiori,2015; Sini C., Teoria e pratica del Foglio- Mondo, Jaca Book 1997;
Ausubel D.P., Educazione e processi cognitivi, Franco Angeli 1991;
Diamond J., Collasso: come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi 2005; Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 2021;
Presentazione dei Risultati delle Prove INVALSI 2021- 14 luglio 2021.