Si parla sempre di scuola…

Si parla sempre di scuola (ora per esiti Invalsi, DAD e COVID)… ma la si conosce veramente?

di Francesco Lorusso

Tutti gli osservatori e gli esperti, in questi mesi estivi di pandemia, intervengono sistematicamente sulla scuola nella condivisa percezione che è in gioco il futuro della società italiana, della economia della sua tenuta sociale e culturale, di una adeguata formazione del futuro capitale umano.

Insieme alle preoccupazioni della riapertura a settembre,  la pubblicazione dei deprimenti esiti dell’Invalsi accelerano la responsabilità, di alcuni eminenti commentatori,  di analizzare/riflettere/ suggerire/esprimersi   sul “disastro antropologico” in atto, come acutamente definito da Chiara Saraceno, o su “l’incuria educativa ignorata delle classi dirigenti”  di Angelo Panebianco.

Dal mio punto di vista (educatore prima/docente dopo/infine preside) è interessante analizzare tali giudizi, e gli impianti culturali che li sottendono e la loro capacità di cogliere umori e influenzare l’opinione pubblica, al fine di verificare  la loro efficacia nell’interpretare i fenomeni in atto attraverso processi, criticità e  suggerimenti di soluzioni.

Quest’estate stimolo al dibattito sulle condizioni della scuola sono stati  i pessimi risultati dell’Indire che descrivono,  seppur con articolazioni differenti per aree territoriali e per ordini di scuola, una realtà estremamente preoccupante.

La maggiore attenzione è quindi concentrata sulla didattica a distanza. Pur consapevoli delle straordinarie potenzialità innovative delle tecnologie applicate alle dinamiche insegnamento/apprendimento, sono evidenti gli effetti deleteri della DAd dal punto di vista socio- relazionale, i risultati scadenti dei vari sondaggi sugli apprendimenti, la diffusa percezione dei giovani di aver perso e di continuare a perdere anni fondamentali della propria spensierata giovinezza. E di qui un accentuato bisogno di recuperare nella frenesia dionisiaca di movide notturne.

Riprendo uno schema di analisi di Joseph Covey, che nei suoi studi sulla leadership, al fine di ottimizzare l’utilizzo del tempo distingue tra dimensioni emergenti e dimensioni importanti. E applicandolo al complesso sistema scuola, pu  essere utile distinguere problematiche di fondo, criticità strutturali e problematiche (anche gravi come la pandemia)   emergenti. La pandemia come fenomeno emergente ha aggravato le criticità strutturali esistenti anche se qualche lato positivo pare affacciarsi pur nelle situazioni estreme: riscoperta di una centrale missione educativa da parte di molti docenti e spinte verso innovazione didattica tramite le nuove tecnologie.

É apprezzabile nell’analisi di Panebianco sul Corriere della Sera (20 luglio) la denuncia di irrilevanza e indifferenza  per la classe dirigente verso  l’impoverimento in corso del capitale umano a disposizione del paese, per cui per il bene comune e per il futuro sarebbe auspicabile una sorta di “gabinetto di guerra”ministeriale.   Invece, discutibili e ingenue le sue ricette di rilancio attraverso strategie meritocratiche . “Si ricorra a un sistema di incentivi e disincentivi: i professori con i migliori risultati in termini di preparazione degli studenti ottengano un (cospicuo) premio annuale aggiuntivo. Essi vengano anche premiati con cerimonie pubbliche nelle scuole di appartenenza: per rimarcare la differenza fra i bravi e gli altri e per costringere questi ultimi, se ne sono capaci, a darsi una mossa.” Anche il più ingenuo dirigente scolastico o membro del suo staff sa bene che questa sarebbe la migliore strategia per bloccare ogni tentativo di innovazione della scuola marginalizzando le eccellenze al pubblico ludibrio di maggioranze silenziose e rumorose, oltre che garantite dai sindacati.

Suggestiva  a pochi giorni di distanza sullo stesso quotidiano l’analisi di Galli della Loggia (Corriere della Sera del 25 luglio)  che fa risalire la crisi della scuola a quella ideologia sessantottina che nei decenni, svalutando l’ideologia e la cultura borghese con nozionismo poesie a memoria eccetera in nome di una visione inclusiva ed egualitaria (successo formativo per tutti) e di un vago modernismo continua a perseguire la demolizione del sistema di istruzione.

Analisi parziale che coglie per  alcuni aspetti reali e radici ideologiche di una generazione che motivata a rivoluzionare una “scuola selettiva e di classe”, non dimentichiamo Don Milani, ha creato le basi per quel diffuso qualunquismo deprofessionalizzato supportato da  visioni corporative e prestazioni minimo-sindacale, che imperano nelle scuole. In realtà nel mare magnum delle visioni e atteggiamenti di docenti e dirigenti c’è di tutto: da pochi motivati (eredi di una visione militante della scuola) a maggioranze spesso incolte, “realisticamente” prive di visioni e motivazioni ideali, aderenti a logiche di sopravvivenza coerenti prevalentemente alle sole procedure formali.

Che i problemi siano seri e profondi, al di là dei risultati Invalsi e della DAd,  viene  osservato da Andrea  Gavosto e Barbara Romano (in “Scuola e Università” del20 luglio  ) :”chi era pessimista ha avuto ragione: nell!arco di due anni gli apprendimenti in italiano e matematica degli studenti hanno subito un tracollo, soprattutto alle superiori. La caduta è stata generalizzata, confermando i noti divari – geografici, culturali e di genere – del nostro sistema scolastico… Dopo 13 anni di istruzione, a ridosso della maturità, in media il 44 per cento gli studenti non raggiunge il livello di apprendimento considerato il traguardo minimo dalle Indicazioni nazionali per il curricolo in italiano e il 51 per cento in matematica… Le differenze territoriali sono esasperate, con regioni dove il 70 per cento e più degli studenti è sotto il livello minimo (Puglia, Sicilia, Calabria e Campania) con un ritardo medio di 49 punti rispetto al Nord: oltre tre anni di scuola secondo lo stesso Invalsi. Il termometro Invalsi non ci restituisce quest!anno una crepa congiunturale che si pu  rinsaldare a poco prezzo. Certifica l!aggravamento di un!inadeguatezza strutturale del nostro sistema educativo. Per provare a recuperare le perdite serviranno comunque anni di sforzi straordinari. Ma le condizioni per riuscirci sono un rinnovamento della didattica e nuovi criteri di selezione e formazione dei docenti”.

Rinnovamento della didattica e nuovi criteri di formazione dei docenti sono senz’altro due aspetti strutturalmente importanti, senza trascurare che docenti e didattica da sole non fanno la scuola se non c’è una struttura di leadership adeguata che ne governi efficacemente le manifestazioni e le articolazioni organizzative e didattiche

È interessante, inoltre,  Chiara Saraceno (La Stampa del 16 luglio), chissà perché sempre nelle settimane centrali di luglio, nella sua breve ma centrata riflessione sulla Stampa: “DAd il disastro antropologico”. Vengono messe a fuoco, sinteticamente ed efficacemente, voragini conoscitive e venir meno di interesse e fiducia, da parte dei giovani,  non contrastate  da serie strategie di contrasto. Ampliamento della dispersione, accanto a quella esplicita di una dispersione implicita (ma è fenomeno già pre COVID) . Ma ecco finalmente l’elemento centrale della sua analisi: “Non è tutta colpa della dad. Questa non ha fatto che esplicitare e rafforzare i problemi di una scuola troppo spesso incapace di coltivare l!interesse delle bambine/i e adolescenti e di contrastare le disuguaglianze nelle risorse nei contesti familiari sociali a motivo di una didattica ingessata (che nella dad si è spesso tradotta in una trasposizione online delle lezioni frontali) dove l!attenzione, doverosa, per i contenuti disciplinari non riesce a restituirne il senso e valore di comprensione del mondo e di scoperta del nuovo”. Finalmente emerge il concetto dell’interesse/disinteresse dei giovani e dell’incapacità della didattica di contrastare tale fenomeno anche se ad essere precisi la didattica e gli adulti più che contrastare dovrebbero proporre, in positivo modelli e idee letture della realtà da cui far emergere un senso vitale positivo. Perché i giovani, al di là delle culture giovanili (sballo e movida, sesso droga e rock and roll), cercano e se non trovano continuano a cercare anche dove c’è soltanto compagnia e vuoto.  E allora?

A osservare in modalità sistemica e con maggiore profondità i fenomeni in atto, la pandemia e i suoi effetti sulla organizzazione didattica e sulla condizione giovanile ha esaltato tre condizioni critiche e strutturali (pre pandemiche) del sistema formativo, solo di sfuggita e per aspetti parziali colte dagli eminenti osservatori citati.

1. Diffusa e predominante didattica impersonale centrata sulla classe  

Il nostro sistema scolastico è strutturato sulla classe, che contiene persone con storie ma soprattutto con livelli cognitivi e requisiti di apprendimento molto diversi. Con il paradosso fisiologico che, per lo più,  chi è demotivato per storia sociale o situazione cognitiva (che spesso si sovrappongono) continuerà a raccogliere esiti negativi. A poco valgono gli interventi di recupero attivati dalle scuole durante l’anno scolastico o a settembre. Per cui alla fine, ci si mette una mano sulla coscienza (quale coscienza?) e  si promuove col 6 politico. Ma talvolta anche le eccellenze pagano il prezzo della demotivazione non percependo adeguati stimoli ad andare avanti. È l’impianto classe, e forse anche l’idea o meglio l’ideologia dell’inclusione a tutti i costi (su questo aspetto coglie Della Loggia) a generare un appiattimento e una generalizzata demotivazione. Solo rarissime eccezioni di docenti, super motivati e super capaci riesce strabicamente  a intercettare e a rispondere  alle diversissime  esigenze e difficoltà presenti in un gruppo classe. Per cui bisognerebbe davvero ripensare l’impostazione organizzativa che flessibilmente dovrebbe adattarsi ad una reale personalizzazione, per gruppi classe e  gruppi di livello, come da tempo accade in sistemi più avanzati. Purtroppo pare che per noi il concetto ela struttura “classe” sia ipostatizzato come un assioma organizzativo e cognitivo incontrovertibile.

2. Prevalente assenza (nei docenti in particolare delle secondaria )   di una autentica e responsabile competenza pedagogica relazionale e cultura della progettazione condivisa

È diffuso mediamente nell’impianto culturale e didattico dei docenti l’assenza di una reale cultura e pratica pedagogica: le diverse attività di formazione dei docenti a livello universitario e postuniversitario sono centrate sui contenuti disciplinari e spesso modo astratto sulle metodologie. Per cui un vero e proprio training per insegnare e rapportarsi agli alunni con le diverse tipologie di difficoltà e situazioni non viene attivato. Il docente impara a fare il docente (quando riesce) sulla pelle degli alunni. Un vero e fondato percorso di avvio richiederebbe oltre alle conoscenze disciplinari competenze relazionali, consapevolezza dei propri stili comunicativi e delle proprie fragilità. Al fine di affrontare l’arena dell’insegnamento liberi dei propri pregiudizi, meccanismi di difesa e tutte quegli ostacoli che impediscono di vedere l’altro per quello che è, per i suoi bisogni e per quella necessaria  responsabilità educativa da mettere in gioco. In un recente saggio sostenevo che bisognerebbe focalizzarsi certamente sulle soft skills partendo innanzitutto dagli adulti.

Inoltre, saltando su un altro aspetto importantissimo, nucleo fondamentale della struttura organizzativa didattica della  scuola (nessun commentatore vi si è soffermato ) è il consiglio di classe, accompagnato laddove funzionano da dipartimenti disciplinari e collegi dei docenti. È interessante vedere come molta cinematografia degli ultimi decenni ha descritto tragicomicamente le dinamiche (ahimè ricorrenti) dei consigli di classe caratterizzate spessissimo da conflitti, visioni divergenti, palcoscenici di sfoghi esistenziali, giochi di alleanze soprattutto laddove non ci sia da parte di qualcuno (e questo accade di rado per disposizione e vocazione naturali ) a mediare e a orientare in positivo gli incontri di programmazione. Caratteristica costante resta comunque l’impianto didattico  individualistico per cui ognuno al di là di accordi programmazioni formalmente condivise procede in completa autonomia. Con il rinforzo di quegli effetti devastanti evidenziati da Chiara Saraceno.

3. Prevalente impreparazione della dirigenza scolastica nell’attivare efficaci e competenti forme di leadership dei processi organizzativi ed educativi a fronte di un orientamento teso all’allinearsi a procedure e all’affrontare le continue emergenze che emergono nella quotidianità.

A tal proposito pu  essere interessante confrontarsi con le suggestive e pervicaci analisi di Michael Fullan, che, studiando a livello internazionale  le criticità dei sistemi di formazione,  schematizzando , definisce due tipologie di approcci alla leadership scolastica: corrispondenti ad un orientamento prevalentemente centrato sulle dimensioni di superficie e di “emergenza” (surfacers) piuttosto che alle dimensioni strutturali  “profonde e importanti” (nuancers).  L’approccio da surf , che risponde alle situazioni solo in superficie e con soluzioni tecniche, procedurali e burocratiche, non coglie i bisogni reali e le trasformazioni in atto. Cogliere e orientarsi nelle sfumature è una delle  caratteristiche principali di una forma di leadership che attraverso segni va alla radice dei problemi e delle criticità. Riprendendo la riflessione di Chiara Saraceno, come orientare e guidare docenti ed educatori a rispondere ai vuoti di interesse e di senso che allontanano le nuove generazioni dagli imprescindibili saperi. E ancor di più come motivare docenti spesso stanchi e demotivati a riscoprire passione e responsabilità  educativa; come infondere uno spirito di lavoro di gruppo, che superando egoismi e autoreferenzialità, attraverso l’esempio, il dialogo e l’ascolto attivo. Tali necessarie forme di leadership non si esprimono solo attraverso l’elaborazione di pur sapienti circolari e richiami agli adempimenti ma attraverso il mettersi in gioco, uscendo dalle presidenze e segreterie e (sporcandosi le mani)  rapportandosi con le persone, siano alunni genitori docenti,  nei luoghi delle dinamiche informali. Esercitando una reale autorevolezza documentata dalla testimonianza personale.

Concludendo, sarebbe opportuno se davvero ci si vuol assumere la responsabilità educativa per il futuro prossimo, riuscire a coniugare da parte dei decisori politici e degli operatori scolastici (dirigenti e Middle management) una focalizzazione sulle problematiche tecniche operative (riaperture orari sicurezza trasporti vaccinazioni) insieme a quelle tre dimensioni: personalizzazione e organizzazione flessibile delle classi, competenze relazionali dei docenti, leadership educativa e relazionale dei dirigenti e degli staff.