Un nuovo indirizzo politico e la vecchia burocrazia

Un nuovo indirizzo politico e la vecchia burocrazia

di Gian Carlo Sacchi

Gli atti di indirizzo politico dei ministri dell’istruzione all’inizio del loro mandato non sono mai stati un capolavoro di originalità; le solite problematiche ancora non risolte, ereditate dai governi precedenti, che facilmente passeranno a quelli successivi, anche perché com’è noto le questioni scolastiche hanno tempi di maturazione piuttosto lunghi, soprattutto da un punto di vista del cambiamento culturale e di professionalità degli operatori, per cui gli interventi amministrativi che ne derivano spesso non producono gli effetti desiderati e quindi vengono presto archiviati.

L’atto recentemente emanato dal ministro Bianchi presenta invece una serie di interventi che non si limitano ad indicare l’orizzonte politico e le ricadute sull’amministrazione, ma entrano nella sfera di competenza di altri soggetti, a cominciare dai docenti, e prevedono alcuni risultati che avranno bisogno di passaggi legislativi. Sarà perché certe innovazioni erano già annunciate nel PNRR o seguono il tracciato dell’agenda 2030, o perché ungoverno che sembra più debole per l’eterogeneità della sua maggioranza politica finirà per fare più cose di altri, fatto sta che il ministro si accinge a sfornare una quasi riforma.

Tutti esordiscono  con l’intento di assicurare il diritto ad un’istruzione di qualità, ma in questo documento si indica anche il tipo di istituzione chiamata a soddisfarlo: quella cioè centrata sui giovani studenti e coerente con le loro inclinazioni, ma contemporaneamente in linea con le nuove competenze richieste dal mercato del lavoro. Se tali enunciazioni non devono essere soltanto delle finalità astratte, ma devono poter incidere sulla struttura attuale, il sistema necessita di un profondo cambiamento culturale, per quanto riguarda innanzitutto portare in primo piano l’approccio psicologico (iniziative calibrate ai bisogni degli studenti), spostando a funzione ancillare il lavoro sui contenuti. Una tale impostazione è stata ricercata in tutta l’ultima parte del secolo scorso nelle scuole di base, senza grande risultato se consideriamo i tassi di ripetenza e di abbandono.

Ripartire da qui per rendere più efficaci le azioni antidispersione, di cui dice di volersi occupare, per migliorare le funzioni di orientamento, ed in modo più specifico perché corrispondano alle esigenze del mondo produttivo. Se la scuola debba proprio andare in questa direzione forse dovremmo chiederlo agli italiani, come hanno fatto i finlandesi prima di innalzare l’obbligo scolastico a 18 anni, o se si debbano soltanto ammodernare i saperi per farli corrispondere alle aziende 4.0.

Al di la di un dibattito pubblico su questi grossi nodi, come realizzare tutto ciò se non attraverso un sistema che si rende più flessibile, che agisca sulla valutazione degli studenti, sulla riorganizzazione degli spazi e delle strutture, sulla formazione professionale del personale, sulla realizzazione dei “patti educativi di comunità” con il territorio. Qui bisogna dunque affrontare il tema della governance, che pur se non poteva essere sviluppato in un documento destinato all’amministrazione, data l’ambizione dello stesso, meritava almeno un’indicazione di insieme.

Infatti  ciò che viene detto sull’autonomia scolastica non cambia l’attuale quadro normativo e metterla in relazione con la valutazione risulta pleonastico, in quanto è sempre “funzionale”, anche se si parla di rilancio e sostegno, cioè limitata alle funzioni accordate dal DPR 275/1999 che restringe il campo rispetto alla legge 97/1997. Si prevede anche l’istituzione di una struttura consulenziale, forse perché ci sono scuole che ancora non la vogliono non la sanno usare, ma varrebbe la pena di offrire alle stesse la possibilità di sperimentare maggiore autonomia, conadeguati incentivi e relativa implementazione delle buone pratiche, come si richiede tra l’altro da parte di alcune regioni in base all’art. 116 della Costituzione.    

Nel documento viene annunciato a chiare lettere un “ripensamento dei tradizionali meccanismi di funzionamento della pubblica amministrazione” che però non vengono esplicitati se non per riaffermare la capacità amministrativa e gestionale del ministero e dei suoi uffici periferici. Ciò che sarebbe veramente necessario per raggiungere gli obiettivi indicati nell’atto politico è quel “governo multilivello” di cui si fa un vago cenno e lo si applica solo e in maniera tendente al centralismo nel coinvolgimento dei Comuni per la costruzione dei poli dell’infanzia e nell’integrazione dei sistemi educativi da zero a sei anni.

E’ su quel multilivello che andrebbe costruito il rapporto tra le autonomie scolastiche e quelle territoriali, per arrivare come dice il ministro ad un modello più partecipato.  Qui occorre capire se si vuole veramente un sistema aperto dove “le decisioni  politico-amministrative vengano confrontate e condivise con gli stakeholder pubblici e privati del territorio” o se per ragioni di efficienza si demandi alla digitalizzazione dei processi l’ennesimo tentativo dell’amministrazione di appropriarsene attraverso le note piattaforme, come ad esempio avviene per i bilanci degli istituti che sono controllati non più attraverso adempimenti burocraticima procedure informatiche pur sempre vincolanti.

Flessibilità e autonomia se si vuole veramente il “coinvolgimento costante delle comunità scolastiche”; non si devono più fare parti uguali per situazioni differenti, ma intervenire a supporto delle esigenze specifiche delle realtà locali, che servano anche a ridurre i divari territoriali in regime di sussidiarietà. Vanno responsabilizzate le regioni per quanto riguarda la costruzione della rete scolastica, a cominciare dalla eliminazione delle classi pollaio, al dimensionamento degli istituti, all’assegnazione del personale, all’edilizia, in relazione agli enti locali ed ai servizi alla persona, compresi quelli per la salute, così come andrebbe ripreso il piano per l’istruzione indicato nella legge sui piccoli comuni al fine di valorizzare le aree interne e favorire il ripopolamento di quelle zone che progressivamente scadono nel disagio economico e sociale.

Qui tornano alcune questioni che sono aperte fin dalla riforma del titolo quinto della Costituzione, che i ministeri hanno sempre boicottato e che una politica debole non ha mai avuto il coraggio di portare a termine così come era iniziata. Il ministro Bianchi sembra evocare sotto traccia quel dibattito e forse potrebbe essere il caso di riprenderlo in modo più esplicito, perché è chiaro che la direzione che sta prendendo l’atto politico non può realizzarsi compiutamente se non attraverso un sistema decentrato e fatto di autonomie locali, compresa dunque quella scolastica, che collaborano tra di loro.

Si può dire che il ministro Bianchi stia tentando di realizzare una riforma del sistema, che potrebbe fare capolino nel momento in cui l’opinione pubblica è concentrata sulle tante attenzioni organizzative richieste dalla pandemia e la politica potrebbe favorirla anche semplicemente non occupandosene. Un tentativo che ha un precedente illustre nel ministro Falcucci che tentò la riforma della scuola secondaria superiore per via amministrativa (la commissione Brocca) quando le proposte di legge dei partiti non riuscivano a trovare un’intesa. Il problema restano i tempi, molto stretti, anche per l’utilizzo dei fondi europei. E’ interessantevedere che questo atto di indirizzo venga previsto per l’anno in corso e si prolunghi nel triennio 2022-2024, un buon auspicio per il completamento della legislatura.