Per la scuola ci vuole una rivoluzione copernicana che metta finalmente al centro gli studenti (e non i precari)

da il Corriere della Sera

di Marco Ricucci*

Mentre per le maestre esiste ormai da vent’anni una laurea dedicata, per i professori no. Il governo vuole riformare il sistema di formazione iniziale, ma ci vorrà coraggio per vincere le tante resistenze del mondo della scuola e dell’università

Quando ci si ritrova, in una delle tante o poche «ore buche», in sala professori di una qualunque scuola dello Stivale, da Trieste in giù, come diceva la compianta Raffaella Carrà, per rompere il ghiaccio, ci si chiede: «Sei di ruolo? O supplente? Sei entrato con il concorso, la SISS e il TFA, o il FIT?». Questi acronimi nascondono le «scuole degli aspiranti docenti», che nel corso degli ultimi venti anni si sono susseguite senza di fatto trovare una formula condivisa e stabile per formare in maniera adeguata i professori della scuola media e superiore. Se infatti per diventare maestro (qualche caso) o maestra (la quasi totalità) vi è un percorso ben strutturato di cinque anni, cioè la Facoltà di Scienze della Formazione Primaria, non è così per chi vuole insegnare negli ordini e gradi successivi. Un tentativo maldestro era previsto nella cosiddetta Buona Scuola di Renzi, che nel 2015 si era inventato un complicato marchingegno denominato FIT (Formazione Iniziale Tirocinio), che alla fine non è mai entrato in vigore: si trattava di tre anni, di matrice teorico-pratica da svolgere dopo 5 anni di università (3+2)!

Cosa è rimasto del FIT ai nostri giorni? Il «pezzetto» sopravvissuto alla scure del Ministro Bussetti, si chiama in gergo 24 CFU/CFA come è previsto dal D.Lgs. 59/2017 attuativo della Buona Scuola della legge 107/2015: si tratta di crediti, in discipline «antropo-psico-pedagogiche» e in metodologie e tecnologie didattiche. La definizione è di per sé sconcertante oltre che difficilmente pronunciabile, ma ha ancora un prezzo calmierato per le gli atenei pubblici, che possono «offrirlo solo» al prezzo massimo di 500 euro.

C’è chi evoca ancora i PAS, altra ennesima sigla che sciolta suona: Percorsi Abilitanti Speciali, che si erano svolti a metà degli anni Duemila, per i precari storici, che o non avevano passato l’ultimo concorso ordinario svoltosi nel 1999/2000 oppure non erano riusciti a entrare nella SISS (Scuola di Specializzazione Insegnamento Secondario), superando un test di ingresso altamente selettivo.

Che ci rimane da dire di fronte a questa cronistoria così desolante, e necessariamente semplificata? Col senno di poi, una risposta possibile è data dai risultati degli INVALSI e dai docenti di materie scientifiche bocciati all’ultimo concorso, ma la situazione è più proteiforme. Nemmeno l’ultimo libro della coppia Mastrocola-Ricolfi pare centrare la questione centralissima della formazione iniziale degli aspiranti docenti (nonché del reclutamento): Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo). Ci focalizziamo sempre sulle nostre allieve e sui nostri allievi, che diventano, nella propaganda della «scuola-che-non-funziona», il capro espiatorio di un sistema politico-accademico-sindacale che non vuole oppure non può funzionare così e così. La scuola non può essere trattata come un ammortizzatore sociale del precariato intellettuale…

Ci vuole coraggio, e anche tanto, per fare una rivoluzione copernicana in cui al centro sia veramente il sole dell’apprendimento e la luna dell’insegnamento, in quanto la scuola non è più la fonte unica della formazione e dell’istruzione, anzi non ha quasi più nemmeno tale ruolo nella società liquida e ipertecnologica e globale: spesso diventa una sorta di agenzia educativa, peraltro mal finanziata. Il poeta latino Orazio ricordava il suo maestro plagosus Orbilus, che con la frusta gli aveva fatto studiare la lingua latina e la letteratura, e così aveva, in un certo senso, contribuito a renderlo un grande poeta. Oggi le cose sono più complicate, però l’acquisizione delle competenze, disciplinari, pedagogiche, didattiche, psicologiche, metodologiche, tecnologiche e riflessive a cui i futuri docenti dovranno essere formati sono un punto fondante per un rinnovamento reale della scuola italiana. Non è un caso che si stiano svolgendo da settembre 2021 alcuni incontri tra il Ministro dell’Istruzione Bianchi e la Ministra della Ricerca e Università Messa. Ce la faranno a delineare un percorso serio, strutturato, stabile e condiviso per la formazione iniziale dei docenti? Con la scusa degli obblighi europei imposti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza…

Prima di tutto, sarebbe utile, come i «Discorsi demolitori» di Protagora, vincere le resistenze di gran parte del mondo accademico, che è ancora convinto che sapere i contenuti implica già saperli trasmettere: basterebbe andare a zonzo per alcuni siti di vari dipartimenti per constatare che chi insegna «didattica di….», non ha messo mai piede in una scuola! Nemmeno in gioventù, prima di essere incardinato nell’olimpo della ricerca. Sarà dunque questa la volta buona, o assisteremo all’ennesimo parto di una delle sigle prima menzionate? In una scena di un vecchio film in bianco e nero , «Totò al giro d’Italia» del 1948, un passante – Renato- chiede: “Lei è granoso?”. Il prof. Casamandrei, interpretato da Totò, risponde: «No, veramente io sono professore!». I miei «predecessori», a parità di stipendi sempre bassi, rispetto ad esempio alle media europea, avevano il lusso di poter essere e fare il professore, insegnando e non essendo «soffocati» dalla burocrazia, come lo siamo noi, «vittime», per certi versi, di una scuola che ancora deve trovare, nel terzo millennio, una propria identità e vocazione. I docenti dovrebbero imparare a interrogarsi su questo, prima di lamentarsi.

*professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano