Una storia italiana

Una storia italiana

di Maurizio Tiriticco

FIRENZE: era il 22 OTTOBRE del 1441, ben 580 anni fa! —- Leon Battista Alberti, con la collaborazione dei Provveditori dell’Università di Firenze e con il contributo di Piero di Cosimo de’ Medici, sull’esempio degli antichi ludi poetici nonché dei puys francesi e fiamminghi e dei concorsi tolosani e barcellonesi, organizza il cosiddetto Certame coronario. Si trattava di una pubblica gara, il cui intento era quello di dimostrare la piena dignità letteraria della lingua volgare, che poteva tranquillamente trattare anche argomenti di elevato interesse, che invece in genere venivano affrontati in latino, perché potessero essere letti dai dotti di altri Paesi europei. La gara aveva come premio una corona d’alloro in argento. Vi parteciparono noti letterati dell’epoca nonché rimatori popolari, che dovettero comporre testi sul tema intitolato LA VERA AMICIZIA. Il Certame si svolse nella cattedrale di Santa Maria del Fiore di Firenze e vi assistette un pubblico numeroso, nonché un gruppo di autorità civili e religiose della città. Tra i concorrenti vi fu Leonardo Dati, che presentò una scena divisa in tre parti:due in versi costruiti sugli esametri latini, la terza in strofe saffiche. Era il primo tentativo di riprodurre in volgare i metri classici. Alcuni esametri italiani furono composti dallo stesso Alberti. Però nessuno dei poeti fu premiato perché, in verità,nessuno aveva prodotto qualche cosa di buono e di nuovo. Il fatto che nessun premio fosse stato assegnato dimostra la diffidenza che ancora si aveva nei confronti della lingua volgare.

Un secondo certame fu indetto l’anno successivo, il 1442, avente come tema L’INVIDIA. Ma in realtà non se ne fece nulla. Infatti – come si può desumere dal codice Palatino 215 della Biblioteca Nazionale di Firenze – il premio fu consegnato dai dieci segretari apostolici di Eugenio IV alla chiesa dove si era svolta svolse la gara. Comunque,occorre sottolineare che la ripresa letteraria del volgare avvenne in primo luogo a Firenze, capitale, appunto, della letteratura volgare. Infatti poteva vantare una tradizione illustre e prestigiosa, che annoverava autori come Dante, Petrarca e Boccaccio. E proprio a questa tradizione i poeti della cerchia medicea – Lorenzo il Magnifico in testa – sirifecero, alla ricerca di modelli ispiratori. Un documento prezioso di questa attenzione alla tradizione volgare è la cosiddetta Raccolta Aragonese, antologia inviata nel 1476 da Lorenzo de’ Medici in dono a Federico d’Aragona. La lettera, che funge da prefazione, è firmata da Lorenzo, ma è quasi certo che si possa attribuire ad Agnolo Poliziano. Il volgare, man mano, cominciò ad acquisire la sua dignità letteraria anche a Ferrara, con Matteo Maria Boiardo e Pietro Bembo, e a Napoli, con Jacopo Sannazaro, Masuccio Salernitano e i poeti petrarchisti.

In seguito, nel corso dei secoli, questo volgare marciava, e come! Si arricchiva di nuovi vocaboli e di nuove strutture grammaticali. Ovviamente, grazie ai dotti e alle corti che li ospitavano. E forse le corti potevano anche comunicare e riconoscersi – se si può usare questa espressione – grazie ad una lingua condivisa e formale. In pieno Rinascimento nascevano grandi poemi, la Gerusalemme Liberata e l’Orlando Furioso, ambedue in versi endecasillabi in ottave: e la lingua? Il volgare! Questa la lingua delle corti e dei dotti. Ma i sudditi persistevano, ovviamente, nelle loro lingue di sempre, forse anche povere di strutture e di vocaboli che di fatto riflettevano anche la povertà culturale dei parlanti. E’noto come, ancora nel corso della prima mondiale, il soldato veneto e quello siciliano non si capivano! Tanta era ancora la forza dei dialetti.

Comunque questa nostra lingua oggi comune faceva lentamente il suo corso lungo i secoli e lungo la penisola finché, nei primi decenni del 1800, un certo Alessandro Manzoni riuscì a darle – e non senza difficoltà – la dignità che meritava. Ciò avvenne quando Don Lisander, volendo riscrivere i suoi Promessi Sposi al fine di adattare il più possibile la lingua da lui adottata al fiorentino, da lui considerato non un dialetto, bensì il più autentico modello della lingua italiana, andò a Firenze, dove scorre l’Arno “nelle cui acque – com’ebbe a dire – risciacquai i miei cenci”. O meglio volle rivisitare la lingua con cui aveva scritto il suo romanzo. La prima edizione milanese, la cosiddetta ventisettana era stata stampata a Milano a partire dal 1827 dall’editore Ferrario in tre volumi in tre anni; in tutto furono pubblicati circa mille volumi. Ma, dopo il “risciacquo nell’Arno” o meglio dopo l’edizione definitiva – siamo nel 1840 e il 1842 – la storia dei promessi sposi di una Lombardia occupata dagli Spagnoli divenne –potremmo dire – una storia italiana. E non fu un caso che i Promessi Sposi furono ben presto adottati nelle nostre scuole, come un modello di lingua. Comunque, accanto ai modelli classici di sempre, l’Odissea, l’Iliade, l’Eneide.

Tra i tanti romanzi storici, allora tanto in voga, è doveroso ricordare “La battaglia di Benevento”, di Francesco Domenico Guerrazzi, pubblicato nel 1827, “Ettore Fieramosca” o “La Disfida di Barletta”, di Massimo d’Azeglio, pubblicato nel 1833. E ciò non deve stupire! Sono gli anni del Risorgimento! Ed un popolo che è alla ricerca della sua unità, culturale e linguistica, non può non ricercare anche le sue radici unitarie, storiche e politiche Anche se, in effetti, la ricerca era guidata dalle cosiddette classi colte! Com’è noto, solo dopo la conquista dell’Unità Nazionale – e siamo nel 1870 – si cominciò a pensare anche ad una unificazione culturale e linguistica; anche adottando, a volte,le “buone maniere”! Basti pensare alla vera e propria “conquista militare” del Regno delle Due Sicilie, condotta dal generale sabaudo Enrico Cialdini. Nonché da Giuseppe Garibaldi.

Il resto è noto! L’Italia non era più solo un’espressione geografica, come aveva detto (almeno così sembra) il Barone di Metternich – che poi era anche conte e principe – il noto statista austriaco, uno dei protagonisti del Congresso di Vienna. L’Italia finalmente era diventata un Paese unito! Che doveva diventare anche Nazione! Dopo aver fatto l’Italia, occorreva fare anche gli Italiani, come ebbe a dire Massimo d’Azeglio. Ecco nascere l’istruzione elementare obbligatoria. Alludo alla legge Casati (1859) e alla legge Coppino (1877). E gli intellettuali, gli scrittori soprattutto, facevano la loro parte. Nel 1867 sono pubblicate le Memorie di un Italiano o le Confessioni di in ottuagenario di Niccolò Tommaseo. Insomma il Bel Paese dove tanti secoli prima il sì suonava non può smentire se stesso! E la lingua del sì cominciò a percorrere la sua lunga strada! Ed il percorso è oggi compiuto? Non saprei! Ma questa è un’altra storia!