Troppo silenzio sul disegno di legge delega sulla disabilità

Troppo silenzio sul disegno di legge delega sulla disabilità
Vita del 08/11/2021

C’è silenzio. Non c’è dibattito. Eppure è un testo che intende modificare i pochi cardini normativi esistenti nell’ambito della disabilità. Questo vuole essere un piccolo contributo ad una discussione che purtroppo avrà, almeno secondo l’agenda politica, dei tempi molto ristretti dato che deve essere approvata entro la fine dell’anno incrociando la legge di stabilità e le altre riforme che hanno un analogo calendario.
Sta accadendo qualcosa di singolare attorno al disegno di legge delega sulla disabilità che il Governo ha approvato e che intende portare all’approvazione delle Camere entro la fine dell’anno. C’è silenzio. Non c’è dibattito. Eppure è un testo che intende modificare i pochi cardini normativi esistenti nell’ambito della disabilità. Ci si aspetterebbe quindi che – per dirla con le parole di Bruno Tescari – lasciare il certo per l’incerto inneschi perlomeno dubbi, in contrasto magari alle aspettative dei più o a certa narrativa.

Si tratta poi di una legge delega: pochi articoli che garantiscono l’opportunità al Governo di legiferare con un vaglio alle camere molto soft dei successivi decreti legislativi. Il Parlamento normalmente si riserva la possibilità di incidere sui criteri direttivi della delega in maniera profonda. È la dignità e il compito di quella istituzione. Una dialettica democratica. A questa però manca il dibattito della società civile che normalmente rifiuta che una riforma così ampia possa essere compiuta per delega, o per dirla in gergo meno tecnico: sulla fiducia.

Ciò che sorprende è, di nuovo, il silenzio delle forze politiche, di quelle sociali, dei media, degli opinion maker e delle organizzazioni di rappresentanza. Quel disegno di legge cambia i connotati dei diritti – quelli che ci sono – delle persone con disabilità e i meccanismi per accedervi. Comunque la si pensi, è indispensabile che se ne discuta.

Questo vuole essere un piccolo contributo ad una discussione che purtroppo avrà, almeno secondo l’agenda politica, dei tempi molto ristretti dato che deve essere approvata entro la fine dell’anno incrociando la legge di stabilità e le altre riforme che hanno un analogo calendario.

Il testo è composto da tre macro-ambiti: acquisire nella normativa italiana la definizione di disabilità, in attuazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD); la conseguente riforma dei criteri e delle modalità di riconoscimento di quella condizione in funzione di differenti livelli di prestazioni e servizi, dei diversi livelli di accesso ai diritti; l’istituzione del Garante dei diritti delle persone con disabilità.

La legge delega non include interventi su tutti gli altri diritti umani previsti dalla Convenzione ONU; non è certo quello che per mesi l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte andava annunciando come imminente: non è certo il Codice della disabilità. Né un testo unico.

Il cuore vero del testo è infatti rappresentato dalla riforma degli attuali criteri di accertamento dell’invalidità, dell’handicap e della disabilità, piuttosto che garantire complessivamente i diritti previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite. Quasi a conferma non è previsto un euro in più di spesa corrente, che conferma che le risorse dovrebbero essere riposizionate e non aumentate. Il criterio della revisione della spesa è quello di riformulare le griglie di accesso che oggi regolano gli emolumenti quali indennità di accompagnamento e pensione di invalidità, non ad esempio la ricostruzione della spesa basata sulla deistituzionalizzazione, concetto che neanche con la formulazione della segregazione appare mai nel testo di legge. Un principio invece cardine della CRPD e della Strategia dell’Unione Europea 2021-2030.

Ritorna poi il tema dell’accomodamento ragionevole che nella CRPD (Committee on the Rights of Persons with Disabilities) è una modalità con la quale si garantisce il pieno accesso ai diritti fondamentali. È ad esempio l’adattamento di un posto di lavoro con strumenti e strategie per garantire il diritto al lavoro in un luogo ordinario, non in un laboratorio protetto. È un approccio didattico inclusivo, non la riedizione della classe differenziale. È la previsione che l’assistenza necessaria sia garantita in modalità personalizzata e autodeterminata, non lo scarico sulla famiglia o su luoghi di contenzione. La linea sottile che distingue, non sembra essere tracciata in alcun modo. È qualcosa di differente da un diritto soggettivo, che comunque rimane; dovrebbe essere una marcia in più. E tuttavia nel testo proposto rimane l’impressione che il termine sia usato come alternativa possibile al diritto.

Non si vedono poi linee di indirizzo chiaro neanche sull’accesso ai diritti, al netto di ciò che è stato già riportato.

Permangono le commissioni mediche legali e le unità multidisciplinari valutative così come sono, nonostante la CRPD inviti ad un’evoluzione positiva in cui la persona sia messa nella condizione di descrivere sé stessa, le sue necessità e prospettive di vita, e le istituzioni pubbliche siano in grado di riconoscerle. Permane quindi l’esigenza di una valutazione di terzietà che si sostituisce al libero arbitrio delle persone invocato dalla CRPD, producendo per di più l’effetto di una de responsabilizzazione rispetto all’utilizzo corretto delle risorse pubbliche. È una concessione de facto, non un sostegno al pieno godimento dei diritti umani. Ma c’è di più: quell’esigenza è quella dei controlli, quelli tanto evocati oggi contro i poveri e fino a qualche anno fa contro i falsi invalidi. Tutta la polemica attorno al presunto utilizzo scorretto dei fondi pubblici destinati alla liberazione dallo stato di bisogno dei cittadini, rafforza e consolida una visione in contrasto a quella dei diritti umani, laddove si tutela anzitutto la spesa pubblica e chi la eroga, non chi ne fruisce e ne ha bisogno e diritto.

C’è poi la complessità del nostro sistema di valutazione che è suddiviso in base a diverse norme, ognuna delle quali prevede modalità e indirizzi diversi. Sia nel primo che nel secondo Programma d’azione del Governo per l’attuazione della CRPD, ormai purtroppo datati, si era giunti ad un punto di equilibrio molto importante: suddividere tra accesso a diritti di base e al progetto di vita. In sintesi, ci sono persone le cui condizioni determinano l’accesso ad una mera agevolazione fiscale o all’erogazione di un singolo emolumento, e persone, numero ben più ridotto, che invece hanno una traiettoria di vita che ha bisogno di sostegni di diversa natura affinché l’inclusione e la partecipazione siano reali. Tra queste ci sono ad esempio i minori con disabilità che secondo la CRPD sono doppiamente discriminati. L’assenza di tale definizione, ad esempio per i bambini, potremmo dire che produce un’ulteriore forma di discriminazione se messi in lista e in elenco con anziani non autosufficienti.

In ultimo, nei servizi è ormai acquisita l’esigenza di procedere a un percorso di presa in carico non solo e unicamente alla determinazione della soglia di accesso. Ciò che fanno invece le commissioni mediche e le unità valutative è la determinazione di chi può beneficiare di una prestazione o di un servizio. Quindi è necessario un processo di presa in carico, non una semplice visita di pochi minuti. Tornando alla questione del riconoscimento della condizione presentata dalla persona con disabilità, è chiaro che solo la complessità di processo è di garanzia minima che il riconoscimento sia effettivo.

Di fronte a questi e a tanti altri temi è difficile pensare che la discussione parlamentare strozzata con poche settimane di lavori possa essere esaustiva o perlomeno essere in grado di rappresentare tutte le contraddizioni possibili del testo. Sorge spontanea una domanda: perché un tempo così breve? Ciò che sappiamo è che la motivazione risiede nella scadenze del PNRR. Dopo un’attenta lettura dei documenti trasmessi dal Governo Italiano alla Commissione Europea e le risposte di quest’ultima, tutto sembra attestarsi su un equivoco facilmente affrontabile. Si tratta espressamente di volontà politica. Non si possono affrontare temi di questa portata con tempi così ristretti e con modalità così poco partecipative.

di Pietro Vittorio Barbieri,
presidente del Gruppo di studio sui diritti delle persone con disabilità del Cese, Comitato Economico e Sociale Europeo