E’ almeno possibile una scuola, un dirigente?

Dopo le ultime esternazioni del ministro Bianchi

Francesco G. Nuzzaci

Liberi i, quasi tutti, compartecipanti all’incontro del 18 novembre con il ministro dell’Istruzione di enfatizzare la consueta – ma, ancora una volta, sterile negli effetti – sua disponibilità all’ascolto unitamente all’ impegno per far valere le ragioni della scuola.

Ma, arrivati al punto, l’eloquenza dei fatti testimonia che la sua – dichiarata –  forte volontà è inversamente proporzionale alla capacità d’incidere sul Governo, dal momento che quest’ultimo ha licenziato e trasmesso al Senato il disegno di legge di bilancio per il 2022 – dove si stanziano le risorse, il resto è acqua fresca – e in cui la scuola è sostanzialmente autofinanziata e il suo personale svilito: sia docenti e ATA, con stipendi che restano vergognosamente bassi; sia i dirigenti scolastici, sideralmente lontani dalle retribuzioni percepite dai colleghi (per modo di dire) di pari fascia nelle altre pubbliche amministrazioni, nonché dai collocati nella medesima area contrattuale Istruzione e Ricerca. Con in più il rischio di una guerra tra poveri per accedere ai quattro spiccioli previsti.

Stucchevole reiterazione di buoni propositi, dunque, sia pure attenuata dal suo gradevole eloquio emiliano-romagnolo.

Però una parola chiara sarebbe stata oltremodo gradita sull’astratta misura introdotta dal disegno di legge, essendo già finanziata e quindi priva di costi, almeno per tutto il 2022.

Ci riferiamo all’articolo 111, concernente l’assegnazione di un proprio dirigente e di un proprio direttore dei servizi generali e amministrativi (DSGA) a tutte le istituzioni scolastiche autonome che non abbiano meno di 500 alunni (300 nelle piccole isole, nei comuni montani o nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche), in deroga alla previsione ordinamentale dell’articolo 19, commi 5 e 5 ter del decreto legge 98/2011, che ne richiede rispettivamente un minimo di 600 e di 400. È una misura temporanea, limitata al solo anno scolastico 2022/2023, che proroga quella analoga statuita – e sterilizzata –  dall’articolo 1, commi 978 e 979, della legge di bilancio per il 2021, n. 178/2020, parimenti per il solo anno scolastico 2021/2022.

Si sarebbe quindi voluto sapere dal Signor Ministro se intanto intende replicare la disapplicazione in via interpretativa pure di quella che presumibilmente diverrà legge dello Stato; e continuare con l’affidamento in doppia reggenza, come colpevolmente avvenuto per il corrente anno scolastico, anche delle istituzioni scolastiche normo ri-dimensionate. Cioè se intende ripetere l’errore che riposerebbe sempre sul duplice fraintendimento, che su quei posti non potranno essere disposte immissioni in ruolo (“La norma non dispone l’incremento delle facoltà assunzionali e non dispone l’autorizzazione ad assumere a tempo indeterminato”, dice la Relazione tecnica nel puntualizzare ciò che dal testo normativo è con più nitida chiarezza evincibile); e che l’articolo 19 del D. Lgs. 165/2001 impone la durata degl’incarichi dirigenziali di almeno un triennio (il che è altrettanto vero).

Continuerebbe però a non considerare, come per la legge 178/2020, che l’attuazione della sua proroga può – e deve – essere soddisfatta semplicementesottoscrivendosi un contratto annuale con i soggetti presenti nella graduatoria dell’ultimo concorso a dirigente scolastico, nonché con quelli in ipotesi ancora figuranti nelle graduatorie regionali dei concorsi a DSGA o altrimenti ricorrendosi agli assistenti amministrativi facenti funzione. Diversamente non si vede come possa essere realizzata la volontà del Legislatore!

Non si tratta – giova rimarcarlo –  di immissioni in ruolo (o “ad assumere a tempo indeterminato”), bensì della stipula di un contratto temporaneo, precario che dir si voglia, di durata annuale; al termine del quale gl’interessati ritornerebbero nella posizione delle rispettive graduatorie concorsuali dei dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi generali e amministrativi in attesa di nomina nei ruoli: in fatto a immediato seguito, poiché ogni anno si liberano per pensionamenti dai 400 ai 500 posti, cifre superiori al numero delle istituzioni scolastiche che dovessero ritornare sottodimensionate. E con un non disprezzabile beneficio dei dirigenti scolastici vincitori dell’ultimo concorso ed esiliati per marchiani errori dell’Amministrazione, che – ancor più se corretta per tempo la disciplina della mobilità – potrebbero fare affidamento su circa ulteriori 400 sedi per guadagnare qualche opportunità di un meno remoto ricongiungimento alla famiglia.

Una volta e per intanto corrisposto all’imperio della legge, si pretenderebbe poi l’impegno, sempre del Signor Ministro, a rendere strutturale e quindi permanente, dall’1 settembre 2022, la previsione che nell’attuale disegno di legge è riproposta come temporanea, cristallizzandosi i parametri medi di 500 alunni e di 300 nelle zone in deroga. Non basta invece – perché sempre provvisoria resterebbe, sì da non consentire immissioni in ruolo – portare la durata della norma a un triennio, come ripetono alcune sigle sindacali, sempre nel presupposto che si legge nel citato articolo 19 del D. Lgs. 165/2001, ma il cui richiamo è qui del tutto inconferente, versandosi in una fattispecie affatto peculiare, rivestita del carattere di specialità.  

Il costo – qualora non si debba imputare alle ingenti risorse del PNRR – attinge all’inezia di 40,84 milioni annui: come a dire, un centesimo in un portafoglio di migliaia di euro. Che sarebbe ampiamente compensato dal beneficio di dotare queste istituzioni scolastiche di due figure di vertice (nei rispettivi settori) a pieno tempo, essenziali – così come lo sono un corpo docente e un personale ATA sufficienti nel numero e tutti appropriatamente qualificati – per realizzare quella scuola affettuosa che ricorre nelle teorizzazioni del professor Bianchi. Sempreché nelle teorizzazioni non si esaurisca.

Ed è più che lecito attendersi un  aliquid pluris, giusto se si vuole oltrepassare la soglia degli slogan, assumendo i nuovi predetti parametri medi per la determinazione del numero complessivo delle istituzioni scolastiche nazionali: ponendosi fine all’assurdità di mega-istituti che possono arrivare ai duemila studenti e a trecento e oltre tra docenti e personale ATA, naturaliter ingovernabili sotto il profilo gestionale, dei rapporti con il territorio, educativo-didattico; e del pari si deve porre fine a quelle scuole con meno di 500/300 alunni, e tra l’altro acefale delle due figure di vertice, il cui nanismo darebbe corpo a un’offerta formativa non rispondente ai reali bisogni delle studentesse e degli studenti.

Qui, è chiaro, si esce dal temporalmente circoscritto ambito del disegno di legge di bilancio, o almeno in parte e nell’immediato. Per cui può solo richiamarsi quanto in precedenti circostanze abbiamo scritto sul chi e sul come procedere per svincolarsi da quell’autentico garbuglio, ancor più rivelatosi nella fase emergenziale, che radica nella pasticciata riforma del Titolo V, Parte seconda della Costituzione, con la sua opaca distribuzione delle competenze di legislazione esclusiva e concorrente tra Stato, regioni e province autonome di Trento e di Bolzano; alla cui stregua spetta allo Stato la provvista del personale (dirigenti, docenti, ATA), mentre alle regioni e alle due province autonome è rimessa in via esclusiva l’organizzazione sui territori del servizio d’istruzione e d’istruzione e formazione professionale. E l’organizzazione include in primis il dimensionamento delle istituzioni scolastiche e formative.

Fondamentalmente e qui con sbrigativa sintesi, la soluzione consiste nel sussumere nei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP)), di esclusiva competenza del legislatore nazionale e non cedibili, l’ottimale dimensionamento delle istituzioni scolastiche, con la loro riconfigurazione sul territorio ad opera degli uffici scolastici regionali secondo i nuovi parametri ed entro le coordinate definite a monte da una legge dello Stato, ma potendo pure essere sufficiente la fonte regolamentare (secondo la Corte costituzionale, sentenza 200/2009), trattandosi di “creazione  di strutture organizzative omogenee” a garanzia della tenuta unitaria del sistema d’istruzione sull’intero territorio nazionale.