La comunicazione in famiglia

La comunicazione in famiglia

di Margherita Marzario

Abstract: L’articolo scandaglia i meccanismi profondi della comunicazione intrafamiliare evidenziando percorsi virtuosi e circoli viziosi.

Tra genitori e figli (nella famiglia in generale) non dovrebbe esistere la telecomunicazione ma la comunicazione, non dovrebbe esserci un filtro tra i legami ma un feltro dei legami, invece così non è.

“La comunicazione non è un dato, ma un miracolo. Ma un miracolo che accade e ci fa desiderare di poterlo ripetere” (dal pensiero del filosofo Paul Ricoeur): così dovrebbe essere la comunicazione nella coppia sino ad estendersi alla comunicazione familiare. La comunicazione è ciò che arriva nel profondo e fa sì che non si cada nello sprofondo e non si subisca un affondo.

In base al secondo assioma della comunicazione dello psicologo Paul Watzlawick, in ogni comunicazione c’è un aspetto di contenuto ed uno di relazione. Il contenuto è cosa si sta comunicando. La relazione esprime il tipo di rapporto che quella comunicazione sottende (il classico esempio è la frase “Chiudi la porta”, che esprime un contenuto, cioè la richiesta di chiudere la porta, che a seconda del tono pacato o aggressivo rivela due tipi di relazioni diverse con l’interlocutore). La relazione è essa stessa comunicazione; e solo una relazione forte e significativa può dar senso al contenuto. Curare una buona ed efficace comunicazione nella coppia è garantire quell’assistenza morale e materiale di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ. da cui discende pure l’assistenza morale che si deve ai figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.).

L’art. 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia disciplina l’ascolto dei bambini nei procedimenti. Non bisogna attendere un procedimento per riconoscere ad un bambino la possibilità di essere ascoltato perché ogni giorno è un “procedimento”. Ah, se si ascoltassero di più i bambini! Anzi basterebbe osservarli (dal mangiarsi le unghie all’avere uno sguardo perso) o dedicare loro il silenzio (lontani da telefonate o altra routine). Uno dei problemi di oggi, e causa di parte dei problemi di oggi, è la mancanza degli adulti: molti fanno come i bambini che vogliono tutto, subito e senza sforzi ignorando responsabilità (“rispondere”) e sacrificio (“fare cosa sacra”), che sono richiesti dalla vita. I bambini, che hanno il diritto di essere bambini, per essere tali e per crescere come tali, hanno bisogno di avere accanto e di fronte adulti con cui confrontarsi e scontrarsi, da imitare e da cui distaccarsi.

Lo psichiatra Federico Tonioni scrive: “Ci sono delle responsabilità, questo è fuori dubbio. Ma a fare mea culpa dovremmo essere tutti noi adulti, perché l’era digitale l’abbiamo inventata noi, e perché siamo noi i primi a mettere nelle mani dei bambini telefonini, videogiochi portatili, applicazioni e tutto quanto è possibile per distrarli, viaggiare in macchina in silenzio e stare tranquilli. Lo facciamo anche a casa, perché non esiste una baby-sitter più funzionale e a basso costo di questi strumenti”. Spesso sono i genitori a indurre i figli verso le dipendenze tecnologiche con abitudini sbagliate sin dai primi mesi di vita: far mangiare i piccoli davanti a tablet, farli addormentare con dispositivi accesi, fotografarli o filmarli in continuazione, farsi vedere nel manipolare frequentemente congegni elettronici e altro ancora. I bambini dell’era digitale non sono diversi dagli altri bambini di qualsiasi altra epoca: hanno bisogno di attenzione ed emozione, relazione e comunicazione. E l’amore genitoriale ha sempre comportato fatica anche interiore e impegno quotidiano e non c’è nessun surrogato che susciti gli stessi affetti ed effetti.

I genitori devono: avere fermezza, che non è imposizione ma essere sicuri e dare sicurezza, stabilità, fiducia. Chiarezza nella comunicazione, ovvero né paroloni né spiegazioni scientifiche né edulcorazioni ma precisione in quel che si dice, specchio di quello in cui si crede e che si persevera. Regole: evitare il “non si fa così, perché si fa proprio così o perché lo dico io”, ma “facciamo così perché è più opportuno, più giusto, più…”, per inculcare rispetto, reciprocità e responsabilità, per indurre anche a pensare, reagire, contraddire, per far abituare al no che esiste nella vita e nei rapporti interpersonali, altrimenti si arriva a conseguenze estreme quando non si riesce ad elaborare fallimenti o rifiuti da parte degli altri (come suicidi o violenze sulle donne). Autorità, che non è autarchia o autocrazia, “qui comando io, scelgo io per te, decido io perché sono tuo padre o tua madre”, ma rivelarsi co-autori della vita, spingere all’autonomia, promuovere la vita, come fanno materialmente i genitori quando spingono le carrozzine o i passeggini o i figli in bicicletta o sull’altalena. Rigore, che non è rigidità, ma una “riga” di valori da conseguire e valori da perseguire, indicare un orizzonte. Severità, che non è infliggere sevizie. Rimproverare, che non è maltrattare o umiliare o mettere in punizione, ma richiamare al vero e bello della vita per sé e per e con gli altri.

Bambini e ragazzi non hanno bisogno di sermoni, predicozzi, paternali, ma di pratica, pratiche, prassi e prassia, anche nell’educazione all’ascolto da cui deriva, poi, l’obbedienza (basti analizzare l’etimologia di “ascoltare” – che è la stessa di “auscultare” – e di “obbedire”, verbi che fanno riferimento ad una dimensione interiore e interpersonale). La vita in famiglia deve essere una sorta di apprendistato in cui mettere mano in tutto ciò che serve per acquisire le competenze essenziali ed esistenziali (nel Preambolo e nell’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si dice che “occorre” o si “deve” “preparare il fanciullo”). Il pedagogista Daniele Novara spiega: “La capacità d’ascolto, così come la intende e la pretende il genitore dei nostri tempi, risulta molto difficile sia ai bambini che ai ragazzi. Entrambi lontani dalla concentrazione necessaria per fare proprie spiegazioni, incitazioni, esortazioni e quant’altro. Il discorso di due, tre minuti rischia di creargli solo confusione. L’adolescente vive nel bisogno di sfuggire al controllo dei genitori e, anche per lui, l’ascolto è un’impresa al limite del possibile. Meglio essere pratici”.

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman precisa: “Il monologo è più sicuro di un dialogo. Impegnandosi in un dialogo, ciascuno di noi rischia di esporre la propria fiducia in se stesso ai capricci del destino, oppure al pericolo di perdere un confronto ed essere smentito. Sono tutte esperienze dannose per la stima di sé e per la pace spirituale, dunque sono di solito rigettate o possibilmente evitate. Piuttosto che affrontare gli azzardi del confronto, si preferisce quindi il monologo, che di solito va di pari passo con il negare diritto di parola a chi porta visioni e opinioni contrarie, che non vengono prese in considerazione seriamente”. I bambini vanno educati al dialogo per lo sviluppo armonico della personalità. Costruttive sono le esperienze artistiche e culturali, come si ricava dalla Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (atto non prescrittivo presentato a Bologna nel 2011), in particolare dall’art. 13: “I bambini hanno diritto […] a una cultura laica, nel rispetto di ogni identità e differenza”. L’assurdo della vita (o di quella che, spesso, è una “non vita”) familiare di oggi: si deve parlare di diritto per far valere quella che dovrebbe essere una situazione normale, fondamentale, vitale, come la relazione con entrambi i genitori e conseguentemente con i nonni.

“Asservito in questo modo a una dimostrazione, il povero dialogo si svolgeva ammanettato di fronte a un tribunale invisibile. Invece dev’essere una creatura allo stato brado, il dialogo, e le sue parti possono avere tutte torto o venirsi incontro sulla spinta di istinti, sentimenti altre variabili” (Erri De Luca in “La doppia vita dei numeri”). Nella coppia e in famiglia si recuperi il dialogo e non si arrivi in tribunale per guardarsi in faccia e non riconoscersi più. Nelle difficoltà bisogna trovare insieme un passaggio e sostenersi per passare dall’altra parte, soprattutto se vi sono i figli che aspettano e s’aspettano che vada così.

In quasi tutte le fonti normative, a cominciare dall’art. 29 della nostra Costituzione, la famiglia è definita “naturale”, che deriva da “nascere”. La famiglia di oggi deve recuperare questa naturalità o naturalezza (che può chiamarsi “ortopatia”) e chiedersi da dove la famiglia nasca e cosa e chi faccia nascere e, per questo, è necessario o può rendersi necessario il sostegno di qualcuno che, in passato, era insito nel parentado o nel rapporto di vicinato. «La cultura diffusa tenta di inquinare addirittura le sorgenti dell’autentica comprensione dell’uomo e della donna. La famiglia si alimenta proprio della bellezza antica e sempre nuova della relazione della donna con l’uomo, e ciò presuppone un processo complesso di mentalizzazione obiettiva del maschile e del femminile fortemente radicato nella corporeità e nell’organizzazione emotiva dell’uomo e della donna. Oltre ad un’ortodossia, un’ortoprassi, ci serve oggi anche un’ortopatia, ossia una rinnovata capacità di equilibrio emotivo e relazionale nelle persone e tra le persone che compongono il sistema familiare. L’ascolto attento e competente offerto nei consultori familiari può molto contribuire a riarticolare il discorso familiare e la conversazione tra i coniugi e genitori. Riabilitare il dono della parola ed aiutare a verbalizzare emozioni e valori è la strada maestra della consulenza familiare e l’inizio di ogni percorso autenticamente terapeutico» (dagli Atti del XVIII Convegno Nazionale della CFC “Il futuro nelle nostre radici”, presso l’Università Cattolica a Roma, 14 aprile 2018).

La comunicazione è un bisogno e un diritto, è determinante per l’essere persona tanto che per la tutela di coloro che hanno qualche difficoltà esiste la Carta dei diritti della comunicazione (1992) e di comunicazione si parla diffusamente nelle “Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza” (a cura dell’AICS, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, 2021) e precisamente  vi è scritto che “La comunicazione svolge un ruolo fondamentale nella crescita e nel corretto sviluppo psico-fisico dei minori fin dalla più tenera età” (punto 4.9 “Comunicazione”).

Come nei casi di afasia c’è il coinvolgimento dei familiari per aiutare la singola persona per aiutarla ad uscire da questo stato così la famiglia faccia di tutto per uscire dall’afasia in cui è caduta: si torni a parlare, dialogare, comunicare e anche a litigare perché significa che ci si guarda, ci si considera, si “con-fligge” ma ci si ritrova.