Scuola, il dilemma della valutazione

da l’Unità

Scuola, il dilemma della valutazione

LA NORMA CONTENUTA NELLA LEGGE DI STABILITÀ PER LA QUALE L’ASSEGNAZIONE DI FONDI ALLE SCUOLE AVVERRÀ, DAL 2014,SULLA BASE DEI RISULTATI CHE ESSE HANNO CONSEGUITO STA DESTANDO UN ALLARME NON INGIUSTIFICATO.

Ci si chiede, infatti, a quale modello valutativo si farà riferimento, quali variabili saranno considerate ai fini della composizione del modello, quali conoscenze sostengano questa o quella interpretazione, quali procedure siano alla base della rilevazione dei dati e via discorrendo. Al momento, l’una cosa certa è che un sistema così poco conosciuto e devastato da scelte improvvisate sta diventando un terreno dominato, senza neanche la parvenza di un contrasto, dal condizionamento sociale. E in un quadro così dissestato il ricorso per i finanziamenti (non importa se su base premiale o su base compensativa) rischia di rafforzare ulteriormente proprio il condizionamento sociale, senza che ne derivino vantaggi apprezzabili sul versante della qualità del servizio. La valutazione è stata usata dai governi della Destra, e in modo non troppo dissimile, da quello dei tecnici, per esibire competenza in pratiche generalmente apprezzate a livello internazionale ed efficienza nell’eseguirle. Sulla falsariga dello strumentario e della metodologia di elaborazione dei dati utilizzati da organizzazioni come l’Ocse e la Iea per le loro indagini comparative, sono state introdotte prove a carattere nazionale per la valutazione del livello degli apprendimenti conseguiti dagli allievi. La responsabilità di tali operazioni è stata conferita all’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema d’istruzione e di formazione). A differenza, tuttavia, delle organizzazioni prima menzionate, è stato deciso di non procedere nelle rilevazioni per via campionaria, ma di sottoporre a prova l’universo degli allievi iscritti a una certa classe. Si è trattato di una scelta che ha destato preoccupazione e sospetto, non ingiustificati. Che bisogno c’è, infatti, di procedere a rilevazioni sull’intera popolazione, se lo scopo è quello di valutare il sistema? Peraltro, se anche l’intento fosse quello di valutare il funzionamento delle singole scuole, lo strumentario finora usato sarebbe stato del tutto inadeguato. Fra l’altro, i dati disponibili non si prestano al confronto dei risultati ottenuti in anni successivi. Oltre tutto, le rilevazioni campionarie costano molto meno e sono più attendibili, perché è certamente più agevole monitorare la rilevazione di una quantità relativamente limitata di dati campionari che la quantità molto maggiore che deriva da rilevazioni sull’universo. L’esperienza di questi anni ha mostrato che le condizioni di rilevazione sono molto diverse fra una scuola e l’altra, e spesso nelle classi di una medesima scuola. Che si sia trattato di esibizioni di efficienza è dimostrato anche dal fatto che nulla ha fatto seguito alle cosiddette valutazioni nazionali. Sono molti gli insegnanti che temono che la complessa macchina della valutazione sia stata messa in modo solo per esercitare un condizionamento sulla loro attività. Si aggiunga che l’attività valutativa mostra che con tutta evidenza si procede nelle operazioni all’insegna dell’improvvisazione. Per usare un linguaggio scolastico, tutto ciò che si sa fare è copiare da procedure e materiali internazionali, senza alcun apprezzabile sforzo di adeguamento alla realtà culturale e educativa del nostro Paese. Non solo. Altrove si stanno sviluppando e sperimentando procedure automatizzate in grado di fornire importanti flussi d’informazioni sullo sviluppo dei processi di apprendimento. In Italia, spiace doverlo constatare, non c’è alcun apprezzabile tentativo di definire una strumentazione originale, dalla quale possa derivare la conoscenza dei fenomeni educativi necessaria a sostenere l’attività del sistema ai diversi livelli in cui essa si manifesta, da quello immediatamente didattico a quello della decisione politica. La valutazione ha un senso se si compie all’interno di un rapporto di fiducia fra chi rileva i dati (i valutatori) e chi li fornisce (i soggetti da valutare). Questo rapporto di fiducia deve essere ricostruito. Si potrebbe incominciare con il sostituire le rilevazioni sull’universo con rilevazioni campionarie. Ma, parallelamente, occorre innovare profondamente le pratiche valutative e ridefinirne sostanzialmente gli intenti. Ciò comporta un rilevante impegno nella ricerca, che certamente non può essere richiesto ad una struttura di servizio com’è l’Invalsi. La questione deve essere affrontata in una prospettiva di promozione complessiva della ricerca educativa. Quanto agli oggetti della valutazione, non ci si può limitare a raccogliere, anno dopo anno, gli esiti della somministrazione di prove strutturate per stabilire quali siano stati i livelli di apprendimento conseguiti. Occorre usare la valutazione per ciò che realmente è, e cioè come una strategia conoscitiva volta ad analizzare i fenomeni per come appaiono al momento e per come si sono modificati e, presumibilmente, potranno modificarsi in tempi di qualche consistenza. C’è bisogno di riferire l’educazione scolastica (o esplicita, perché intenzionalmente rivolta al passaggio di conoscenze e valori fra le generazioni) alle condizioni di vita, e rilevare le interazioni che si stabiliscono fra educazione esplicita e implicita (acquisita cioè nelle condizioni quotidiane di esistenza). È evidente che l’educazione implicita sta esercitando una forte azione concorrenziale nei confronti di quella esplicita, e che da essa derivano molti dei fattori di crisi (per esempio quelli valoriali e motivazionali) che sono alla base delle difficoltà che le scuole si trovano ad affrontare. Sono fattori che incidono ampiamente sulle condizioni di apprendimento: per esempio, modificano i profili della competenza linguistica di bambini e ragazzi, con quel che ne consegue dal punto di vista cognitivo. Queste analisi, condotte su campioni adeguati, possono sostenere il lavoro delle scuole, fornendo riferimenti per le difficoltà da affrontare.