I test INVALSI

I test Invalsi
Dibattito nell’era del complottismo

di Francesco Scoppetta

«Gli uccelli non sono reali, ma droni spia» recitano enormi cartelloni pubblicitari apparsi di recente a Pittsburgh, Memphis e Los Angeles. In realtà Birds Aren’t Real è nato come presa in giro dei veri complottisti. E’ stato ideato come parodia della disinformazione, anche se con un effetto paradossale il movimento sta guadagnando seguaci che credono realmente nel suo ironico e folle manifesto.

Essendo mia intenzione di parlare delle prove Invalsi nella scuola, questa premessa sul “complottismo” mi appare necessaria così come un’altra che è la seguente. Il meglio è nemico del bene, in Italia più che altrove. Talvolta nella vita quotidiana abbiamo necessità di essere pragmatici più che “scientifici” per soddisfare esigenze urgenti. Per esempio ho bisogno di sapere i mq della mia abitazione e non ho sotto mano la planimetria. Posso ricorrere a misurazioni con mezzi di fortuna sapendo che alla fine comunque non sarò molto lontano dai valori totali che rinvenirò sull’estratto catastale.

Come molti altri paesi europei, anche l’Italia è dotata di un programma di valutazione esterna del sistema scolastico a cura dell’Invalsi (D. L. n. 258 del 20 luglio 1999) che annualmente, attraverso la somministrazione di prove cognitive standardizzate (Rilevazioni nazionali), si propone di misurare gli apprendimenti di tutti gli studenti italiani e, quindi, di fornire informazioni utili per la valutazione del sistema educativo a livello nazionale e per l’autovalutazione alle singole istituzioni scolastiche. Queste valutazioni non si pongono in antitesi con la valutazione formativa e sommativa che gli insegnanti realizzano all’interno delle scuole, ma vogliono solo rappresentare un utile punto di riferimento esterno per integrare gli elementi di valutazione attualmente esistenti. Nonostante i limiti insiti nelle prove standardizzate, queste soltanto possono garantire, in maniera pragmatica e concreta, la comparabilità dei risultati conseguiti dagli alunni e dalle scuole (https://rivistedigitali.erickson.it ).

Marco Magni non ha dubbi e ha spiegato lo scenario in questo modo (da Micromega):

Le metodologie dell’Invalsi (e i loro precedenti anglosassoni) saranno ricordate, in futuro, nel novero delle aberrazioni storiche come i test QI per individuare le “tare” o selezionare gli immigrati, i voti dati alla maniera sessantottina dal collettivo di classe, le macchine per istruire del comportamentista Skinner, ed altre bizzarrie che la storia ha sfornato nel campo dell’educazione (Scuola, abbiamo le prove: Invalsi è contro la scienza, 18/2/2015).

Mentre nelle industrie vi è una divisione del lavoro… nella scuola ogni insegnante opera nel curare una parte dell’istruzione degli allievi, cooperando e mediando solo ex-post con gli altri…Allora perché assimilare la scuola ad un’impresa divisa in reparti distinti di un identico processo di lavorazione? Il reale significato dell’istituire artificialmente un’omologia tra la scuola e l’azienda sta nell’idea che entrambe debbano essere in concorrenza su un mercato, e migliorare se stesse attraverso la competizione… La concorrenza tra scuole determina solamente l’ampliamento delle diseguaglianze tra scuole socialmente favorite e scuole socialmente svantaggiate. La “valutazione di sistema”, legata alla pratica “meritocratica” di distribuire il salario accessorio in forma “premiale”, e di assegnare quote dei fondi pubblici alle scuole a seconda della loro posizione in graduatoria, ha l’evidente segno di indebolire i diritti collettivi del lavoro…la demolizione dello status professionale dei docenti conduce ad una loro marginalizzazione e perdita di autonomia ed all’esaltazione delle posizioni gerarchiche del capo d’istituto…

Sono affermazioni queste che vengono da un pensiero molto ideologico che ha ormai un unico nemico individuato in ogni campo nella cd dottrina neoliberista. L’ideologia è non accettare il dibattito pubblico sulle proprie opinioni personali o non accettare di sottoporre le proprie opinioni personali al dibattito pubblico.

Continuando a leggere il saggio succede però che ad un certo punto Magni si addolcisca: “pur ammettendo che i test offrano delle indicazioni attendibili dei risultati in termini di acquisizioni di competenze o abilità (e ciò, relativamente ai grandi numeri, è senza dubbio vero, proprio in ragione della “legge dei grandi numeri”), nulla possono dire sulle cause delle differenze di rendimento tra aree geografiche diverse o tra scuole diverse. Non possono, perché è semplicemente impossibile farlo.”

Sintetizziamo:  “relativamente ai grandi numeri è senza dubbio vero che i test offrano delle indicazioni attendibili”. Che poi è tutto quello che pragmaticamente ci serve.

Nonostante le varie critiche (pareri più che un pensiero) avanzate nel corso degli anni alle prove Invalsi, dall’analisi delle risposte degli insegnanti ad un questionario autosomministrato è emerso un quadro complessivo abbastanza incoraggiante, pur nei limiti metodologici del questionario.Una delle critiche più frequentemente rivolte alle prove Invalsi è quella relativa alla coerenza tra le domande proposte, le Indicazioni Nazionali per il curricolo e le effettive conoscenze degli alunni: la maggioranza dei docenti coinvolti crede che ci sia congruenza tra le prove Invalsi e le indicazioni curricolari ma, anche se ritiene gli argomenti proposti nei diversi ambiti delle prove coerenti con quanto studiato durante l’anno, sostiene che esse siano piuttosto “difficili” rispetto alle conoscenze e alle abilità che gli alunni realmente acquisiscono.

Riassumiamo adesso le critiche principali alle prove Invalsi formulate dai docenti. Non ci occupiamo dell’inaffidabilità (checking) dei risultati per mancato controllo perché a monte c’è sempre la scelta del docente, o controlla seriamente oppure consente che gli alunni collaborino.

1. Il problema di questo tipo di test è sapere cosa esattamente misurano. Controllano il grado di apprendimento di quello che è stato insegnato o la prontezza nelle risposte ed altre

abilità?

2. Se diventa cruciale “far bella figura” ai test, siamo di fronte al classico caso di una” misura” che perturba la cosa da misurare. Nei programmi e nel metodo di insegnamento, ed è la critica più seria (vedi G. Israel “Il bluff della matematica finlandese”).

3. L’interpretazione delle prove dipenderà da quello che cerchiamo. Supponiamo che dopo una attenta analisi si scopra (sorprendentemente?) che gli studenti delle classi “pollaio” imparano meno e peggio di quelle con 20 studenti, che la presenza di alunni che non parlano l’italiano rende problematica la didattica e il completamento dei programmi. Che chi frequenta scuole moderne con laboratori ha, in media, miglior profitto di quelli che vanno in scuole fatiscenti. Che un insegnante laureato in lingue straniere insegna meglio l’inglese alle elementari rispetto ad una maestra che ha seguito un corso. Il Ministero correrà ai ripari assumendo insegnanti, prevedendo sostegno didattico e linguistico dove necessario ed adeguando il patrimonio edilizio?

4. Se invece pretendiamo che le prove siano anche un test sugli insegnanti, sulle classi e sul singolo istituto scolastico (a questo punto però i test dovrebbero forse essere somministrati da personale Invalsi) leggeremo i risultati come classifiche. Dopo di che, cosa succede? Aiuteremo finanziariamente le scuole deboli per portarle a livello delle altre o quelle forti per premiarle? Pagheremo di meno (meno di adesso?) gli insegnanti con punteggi mediocri (siamo sicuri che dipende dagli insegnanti?) oppure di più quelli “bravi”? Ha senso assimilare una scuola ad una azienda? Per scuole primarie, medie e superiori, in realtà manca la libertà di scelta. In molte città, nemmeno piccole, c’è un solo Liceo Scientifico, per esempio. E la scelta delle scuole elementari dipende largamente dalla disponibilità di tempo del genitore. Tutte le scuole dovrebbero soddisfare certi livelli, così come tutti i Pronto Soccorso devono possibilmente salvare vite. Non sono libero, in generale, di scegliere l’ospedale, come da un punto di vista pratico, non sono libero di scegliere tra due licei concorrenti (che spesso nemmeno esistono). Ed infine, anche se la trasparenza fosse perfetta e la classifica veritiera, cosa succederebbe? Una scuola scadente vuota ed una ottima strapiena? Facciamo ampliamenti? O un sorteggio? O rendiamo buona anche la scuola scadente? (Enea Berardi, Italians, Le critiche principali ai test Invalsi, 22/5/2014)

Leggendo queste critiche che certamente non sono ideologiche ma di tipo pratico la conclusione alla quale si perviene è che forse allora sia preferibile lasciare le cose come stanno. Per evitare la scuola-azienda, una carriera dei docenti con stipendi differenziati, la concorrenza tra istituti e tra docenti, meglio tenerci la scuola com’è, dove in nome della libertà d’insegnamento ciascun docente insegna come e quanto vuole, senza dover rendere conto a nessuno, sia esso il Ministro, il dirigente, il genitore, il collega.

“Io sono un autarchico” sembra essere il motto dei docenti italiani, i quali, forse (ma indagini demoscopiche dicono non sia più così) si accontentano di uno stipendio misero purchè si lasci loro la libertà di insegnare e di voto, evitando finanche il coordinamento collegiale e la valutazione degli apprendimenti. Ha scritto Nuccio Ordine “la buona scuola l’hanno fatta e la faranno solo i buoni insegnanti. Non le piattaforme digitali o i computer. Punto”. Dopo aver vinto il Nobel Albert Camus inviò a caldo una commovente lettera di ringraziamento al suo insegnante delle scuole elementari di Algeri, Louis Germain: «Quando mi è giunta la notizia il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo». Ecco, chi sono i buoni insegnanti ognuno di noi lo sa come Camus, soltanto in Italia alcuni vogliono convincerci con acute dimostrazioni scientifiche che sia impossibile individuarli come fosse un altro dei problemi matematici irrisolti. Magari con l’intelligenza artificiale, chissà.

Ma poi il problema, dal mio punto di vista, non è neppure fare la classifica dei docenti, stabilire chi sia il più bravo in ogni scuola, o dell’istituto, per determinare la scuola migliore. Il problema che uno Stato dovrebbe porsi è forse quello di intervenire in modo concreto se un docente o una scuola non funzionano. Cosa intendo per docente che non funziona? E’ il docente che non insegna nulla ma alla fine a tutti gli allievi mette solo voti positivi. In questo modo evita che gli stakeholders siano insoddisfatti anche se non ha prodotto nessun apprendimento. Al contrario, un prof severo creerà qualche malcontento ma anche apprendimenti. Tra questi due estremi si situano tutte le figure degli insegnanti le quali non si possono valutare se la scuola o il sistema non prendono in considerazione appunto gli apprendimenti essenziali, oltre e al di là dei voti sommativi che ciascun docente attribuisce a suo giudizio con l’approvazione formale del consiglio di classe. E ancora, se in una scuola con 20 o 100 docenti nessun studente vuole avere come insegnante il terribile prof. Tizio, cosa si fa in pratica? Lo imponiamo a qualcuno, come sono costretti a fare tutti i dirigenti, perché tutti i docenti sono formalmente eguali e qualche classe a Tizio comunque la si deve assegnare? Lo stesso discorso vale per i dirigenti nel momento in cui il personale, alunni o genitori chiedono che venga sostituito per qualche ragione. Insomma, ripristinare la normalità, garantire un clima sereno in ogni classe e scuola dell’intera penisola, è un compito che il Ministero dell’Istruzione deve adempiere oppure “estad todos caballeros” alla Carlo V? Non solo non si devono valutare docenti e dirigenti ma neppure, attraverso le prove Invalsi, si possono comparare i risultati di due scuole affini, mettiamo una scuola media di Bergamo e una di Brescia perché “i testi Invalsi, dal punto di vista scientifico, nel campo delle scienze dell’educazione, è ciò che Lysenko è stato in biologia, Di Bella in medicina, Moniz (l’inventore della lobotomia) in psichiatria”?

Come ha ben spiegato Fabio Paglieri (Chi ha paura della standardizzazione? Il Mulino, 24/6/2021)  “nell’opporsi alla misurazione a livello nazionale delle competenze degli studenti, si possono scegliere tre diversi campi di battaglia: 1. rifiutare tout court la logica della misurazione universale e uniforme, contestandone i presupposti di fondo; 2. preoccuparsi delle conseguenze di tale misurazione, sostenendo che i rischi sarebbero superiori ai benefici; 3. criticare la bontà degli specifici strumenti di misurazione proposti, mostrandone in modo analitico difetti e ambiguità. Spesso chi contesta le prove Invalsi si concentra sulla prima dimensione: si sostiene cioè che l’idea stessa di misurare con metodi uniformi le competenze degli studenti sia esecrabile, inattuabile, o entrambe le cose”.

Alcune valutazioni dei docenti sulle prove Invalsi che adesso riporterò sono significative perchè riassumono le critiche:

(Laura, Salerno, insegna Lettere alle scuole medie) …le prove Invalsi sono per me una perdita di tempo perché può capitare che, quel giorno, un ragazzo preparato e studioso possa sbagliare diverse risposte preso magari dall’ansia o da una giornata particolarmente negativa, di contro, un ragazzo non proprio eccellente possa avere avuto la fortuna di segnare molte risposte esatte!

(Anna, Bologna, insegna Matematica e Scienze alle elementari) I test Invalsi non forniscono valutazioni oggettive sulla qualità dell’insegnamento e in particolare sulla preparazione degli alunni, perchè non corrispondono ai programmi che ogni singolo docente, grazie all’autonomia e alla libertà di insegnamento, svolge nella propria classe.(Controcampus.it)

Innanzitutto la critica viene fatta all’uso di prove identiche per persone diverse, che minaccerebbe la valorizzazione delle differenze individuali; e poi l’ostilità alla centralizzazione della valutazione nasce perché essa viene tolta agli insegnanti in favore di un soggetto terzo (l’Invalsi), segnalando sfiducia e scarso rispetto per i lavoratori della scuola. “Si tratta di preoccupazioni legittime, che tuttavia nascono da un equivoco: l’idea che la misurazione fatta con prove standardizzate e la valutazione effettuata dagli insegnanti servano ai medesimi fini. Non è così, e neppure deve esserlo: al contrario, è essenziale che questi due momenti rimangano distinti, e proprio per questo le prove Invalsi (o test analoghi) devono svolgersi in autonomia rispetto all’operato dei docenti”.

Torna sempre la differenza tra valutazione e misurazione che molti docenti sembrano ignorare sulla base dell’ “ho sempre fatto così” (la famosa media finale aritmetica dei voti identifica la valutazione solo con i personali strumenti attraverso i quali gli insegnanti hanno misurato le competenze acquisite). La prima prevede un giudizio di valore, sensibile al contesto e alle differenze individuali; la seconda si limita a registrare fatti e tratti oggettivi, per quanto possibile, lasciando ad altri il compito di valutarli. La differenza che c’è tra la diagnosi del medico e la febbre o la pressione misurata al paziente. Le prove Invalsi si occupano di misurare le competenze, mentre ai docenti spetta valutare gli studenti. Ogni bravo insegnante sa benissimo che valutare lo studente non è il fine dell’attività educativa, bensì uno strumento. Il voto e il giudizio sono utili per aiutare lo studente a far meglio riconoscendone i risultati, spronandolo sulle aree di difficoltà, agendo sempre sull’autostima ed i margini di miglioramento. Tu sei qui, ti aiuto ad arrivare lì perché ce la puoi fare. Questa valutazione non serve a certificare l’oggettività, bensì a sviluppare la soggettività, giacché il miglioramento dell’individuo si misura rispetto alla sua condizione di partenza. Al docente spetta questa valutazione di tipo maieutico e portata avanti con metodo dialogico, senza alcuna pretesa universalistica.

Al contrario le prove come i test Invalsi servono a valutare le competenze in un’ottica certificatoria, volta cioè a misurare qualcosa di oggettivo, senza che questo necessariamente comporti un giudizio di valore (positivo o negativo) sul percorso educativo del soggetto.

«E allora per cosa la facciamo a fare?» è la domanda finale. La risposta è: per ottenere informazioni ogni anno sulle effettive competenze maturate, oltre a quelle che deduciamo attraverso gli esami.

Infine, molti critici delle prove Invalsi si limitano a parlarne in generale senza che venga illustrato neppure un singolo esercizio, anche solo a titolo di esempio, facendo sorgere il sospetto che neppure si è perso tempo per dargli uno sguardo. A questo proposito un docente, Mario Fillioley (Linkiesta, 10/12/21) ha spiegato molto bene quel che succede con le prove di italiano; “…io non faccio altro che dire loro: non leggete solo le domande, leggete prima tutto il testo, mi raccomando, altrimenti poi sbagliate le risposte. E come predicare nel deserto: il foglio col testo integrale non viene nemmeno preso in considerazione (di solito è il primo del malloppo), subito girano pagina e vanno a leggere le domande: i ragazzi credono che così facendo vanno “subito al sodo”, cioè che così facendo daranno subito sia a me sia al test quello che vogliamo da loro”.

In effetti le Invalsi sono più una misurazione che un test. Al contrario, sono pensate per essere una partita secca, una finalissima: hai studiato per tre anni una serie di cose? Adesso ti proponiamo un problema preso dal mondo reale (materiale autentico, un grafico, una piantina stradale, una piccola comparazione di dati o percentuali presa da un giornale) e vediamo se riesci a capire come potrebbe essere risolto, oppure se riesci a decodificare (dopo tre anni di letture di antologia ed esercizi di grammatica) il messaggio o l’informazione contenuti in questo testo che ti chiediamo di leggere.

Per fare l’Invalsi serve solo andare a scuola e provare a leggere, ragionare, usare le cose che mano a mano si vanno imparando, perché in pratica lo scopo dell’Invalsi sarebbe proprio questo, cioè capire se questi tre anni sono serviti a qualcosa, e, in caso di risposta affermativa, misurare quanto sono serviti: poco? Abbastanza? Molto? Solo che c’è chi queste misurazioni le ritiene pericolose. I No Test.