Quando le domande non sono solo frasi con il punto interrogativo I

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Quando le domande non sono solo frasi con il punto interrogativo. Parte prima

di Maria Grazia Carnazzola

1. Per cominciare.

La crescita umana è un formarsi continuo e ricorsivo di conoscenze e di modi di usarle, di modi di sentire, di pensare e di agire in cui non ci sono differenze tra quello che si impara informalmente e formalmente. Significa che gli uomini imparerebbero anche senza luoghi deputati alla formazione di conoscenze, valori, modalità di ragionamento? La risposta dipende dal significato che diamo alla parola educazione. Termine che ha almeno due significati: in senso più ampio si può intendere tutto ciò che impariamo nel corso della vita attraverso l’esperienza. Restringendo il campo al mondo della scuola, l’educazione fonda sull’istruzione anche se non si esaurisce in essa. B. Russel sostiene che l’educazione può essere intesa “…come la formazione, per mezzo dell’istruzione, di certe abitudini mentali e di un certo atteggiamento verso la vita e il mondo” (p. 34).

Viene ora un’altra domanda: in che modo conosciamo ciò che sappiamo del mondo? Non è una domanda banale: riassume, nel contempo, da una parte il percorso del pensiero dell’umanità e dall’altra rappresenta il problema centrale della scuola. Quello che conosciamo può essere inteso come il risultato della esplorazione e comprensione del mondo reale, di come pensiamo stiano veramente le cose. Un po’ meno facile è dire come conosciamo, perché per farlo ciascuno di noi deve concentrarsi non sui fatti ma sul proprio modo di lavorare, prestando attenzione ai propri processi, alle operazioni che compie. I fatti esistono indipendentemente da noi, nel mondo esterno; i processi non sono evidenti, ma condizionano la visione dei fatti così come ce li rappresentiamo. Si riassumono in questo modo gli aspetti ontologico ed epistemologico della conoscenza, fulcro dell’educazione e quindi del lavoro scolastico. Il cosa, i fatti, sono i saperi disciplinari “scientifici”, si pongono in linea di continuità con il sapere comune, tenendo ben presente che i fatti si leggono con le lenti dei valori. Il come, a scuola, sono i metodi di insegnamento. Bisogna ora decidere quali siano le discipline, le “scienze”, più adatte per costruire quelle abitudini mentali e quell’atteggiamento verso la vita che possano costituire, davvero, gli strumenti necessari per affrontare le inevitabili incertezze del vivere. Incertezze che sono opportunità oltre che rischi. Cosa e come insegnare, perché i giovani diventino persone/cittadini autonomi, solidali e responsabili? Gli ambiti del sapere si allargano e si sovrappongono, spesso si confondono; il bagaglio di conoscenze e di competenze personali tiene, così, per un tempo limitato e ha bisogno di intrecciarsi con conoscenze nuove, di adattarsi e di rimodularsi in concetti e pratiche nuove e diverse per poter decifrare e interpretare i problemi e trovare le soluzioni, governare le crisi e non subirle passivamente, utilizzando gli strumenti di lettura e di analisi che consentono di gestirli. Non ci si può limitare a prendere atto della confusione del tutto, subendo gli eventi senza speranza di governarli e di trovare una via d’uscita perché proprio a questo deve servire l’apprendere: a trovare sempre una via d’uscita, orientandosi e scegliendo, per tenere aperte molte vie verso il futuro.

Da sempre gli adulti insegnano quello che i giovani non sanno: le conoscenze, i metodi, le tecniche le regole. Le giovani generazioni hanno accesso a una quantità di informazioni come mai nella storia: possono cercarle con estrema rapidità o riceverle senza cercarle. Ma le informazioni vanno collegate, selezionate, sistematizzate, contestualizzate: bisogna dare loro una forma perché diventino conoscenza. Questo i giovani non lo sanno fare perché gli strumenti che sono soliti usare non hanno questo scopo; tocca agli adulti- ed è lo specifico della scuola- insegnare come si costruisce la conoscenza, come si collegano e si contestualizzano i saperi, come si verificano e si valutano gli accadimenti senza esacerbare le contrapposizioni- ed evitando di utilizzare il linguaggio come strumento di affiliazione a un gruppo- per la necessaria comprensione. La contemporaneità ha bisogno degli sguardi specialistici che consentono il progresso di ogni scienza, ma ha anche bisogno dell’interazione tra i saperi specialistici per formalizzare le domande e le risposte che i problemi dell’esistenza concretamente pongono. Altrimenti la scuola continuerà ad essere un percorso parallelo alla vita. Non è retorica: gli anni di pandemia, la guerra in Ucraina, la recessione, le migrazioni di popoli…il crescente senso di incertezza chiedono capacità di

fronteggiare la paura che inevitabilmente coglie quando ci si sente in pericolo. La paura separa, distanzia, genera tristezza e può essere fronteggiata solo con la speranza che ci proietta nel futuro ma si radica nell’oggi. Educare all’ottimismo non è credere ai miracoli, ma conoscere e comprendere ciò che l’umanità ha fatto fin qui e può ancora fare, nel male ma anche nel bene Il presente va quindi esperito e conosciuto per costruire gli strumenti che, con le necessarie variazioni, permetteranno di camminare con una certa sicurezza. Quali sono questi strumenti? Per una rassegna esauriente e approfondita rimando al libro di Daniel C. Dennet “Strumenti per pensare”. Restringendo il campo alla scuola, alcune domande possono aiutare ad orientare la riflessione.

2. Prima domanda. Apprendimento conservativo o apprendimento innovativo?

Gli ambiti del sapere si allargano e si sovrappongono, spesso si confondono; il bagaglio di conoscenze e di competenze personali tiene, così, per un tempo limitato e ha bisogno di intrecciarsi con conoscenze nuove, di adattarsi e di rimodularsi in concetti e pratiche nuove e diverse per poter decifrare e interpretare i problemi e trovare le soluzioni, governare le crisi e non subirle passivamente, utilizzando gli strumenti di lettura e di analisi che consentono di gestirli. Non ci si può limitare a prendere atto della confusione del tutto, subendo gli eventi senza speranza di governarli e di trovare una via d’uscita perché proprio a questo deve servire l’apprendere: a trovare sempre una via d’uscita, orientandosi e scegliendo, per tenere aperte molte vie verso il futuro.

La nostra esistenza contempla un grande numero di attività che, una volta apprese seguendo le regole che le governano, vengono ripetute per risolvere problemi ricorrenti: andare in bicicletta, fare la spesa, guidare l’automobile, usare il tosaerba, leggere, scrivere, usare le buone maniere…. Tutte attività che si apprendono in un tempo relativamente breve, ma che sono state elaborate lentamente, per risolvere problemi che si sono ripetuti e si ripetono. Per rispondere a ciascuno di questi problemi si è senza dubbio partiti dalla semplificazione di una varietà interrelata di soluzioni possibili, tra le quali si è individuata e selezionata la più semplice e funzionale seguendo il procedere usuale della scienza. Questo è l’apprendimento conservativo, cioè del processo di soluzione di problemi basato su procedure convenzionali, su piani definiti e condivisi, per raggiungere obiettivi precisi e compiti sequenzialmente definiti.

Un tipo di apprendimento, questo, necessario ma non sufficiente, come avevano segnalato i componenti del Club di Roma già nel 1979: funziona perfettamente quando le situazioni sono chiuse e i processi rimangono invariati, ma nelle situazioni imprevedibili e impreviste non funziona perché è basato essenzialmente su processi analitici riconducibili a regole codificate. L’apprendimento conservativo insegna, ad esempio, cosa bisogna fare con l’automobile quando il semaforo diventa rosso o verde, ma questo non serve quando il semaforo resta spento per un guasto. In casi come questo serve un apprendimento innovativo, le cui caratteristiche principali sono l’integrazione, la sintesi e le nuove applicazioni per affrontare situazioni aperte e stimoli dissonanti a vari livelli, focalizzando l’attenzione sui cambiamenti necessari piuttosto che sugli algoritmi consueti da ripetere. Il valore di questo apprendimento è in transizione, non è costante e costringe il pensiero a ricostruire i quadri di realtà unificando e non frazionando. In questa direzione va la necessaria riflessione sul rapporto tra conoscere e comprendere. Se la partecipazione alla vita sociale non si esaurisce nella possibilità di “dire la mia” per la quale forse basterebbe la conoscenza, ma si manifesta nella possibilità di dare risposte personali basate su criteri scelti consapevolmente e razionalmente, bisogna comprendere le ragioni degli eventi, individuare gli scopi dei comportamenti e le falsità, di andare oltre il microcosmo dell’esperienza concreta, decentrando il punto di vista a seconda dei contesti e dei tempi. L’inadeguatezza degli strumenti è evidente: i paradigmi interpretativi e le regole minute non sempre funzionano perché le variabili sono molte e diverse e non è possibile codificare sistemi di comportamento per ciascuna. Occorrono regole e principi ad alto livello di generalità che possano funzionare da guida nelle situazioni concrete di transizione e di cambiamento.

Se ci pensiamo, nessuno degli accadimenti globali che ci toccano può essere compreso o affrontato da una singola scienza, una singola disciplina di insegnamento o essere circoscritto dentro un problema chiuso. Per questo non ci si può limitare all’insegnamento di procedure definite per affrontare problemi consueti, la cui soluzione è valutata dalla comunità scientifica o amministrativa che li propone. Prima si imparano le soluzioni, poi viene la comprensione e da ultimo l’accettazione da parte di tutti. Nella vita reale non funziona così: spesso le soluzioni vengono giudicate prima di essere adottate, mettendo in evidenza l’importanza dei processi decisionali e questo è importante tanto quanto la convalida della fattibilità tecnica. Quanto sta accadendo in Ucraina ne è un esempio. Quando parliamo di sviluppo delle competenze disciplinari, trasversali o di cittadinanza, parliamo anche di questo. Parliamo di una scuola chiamata ad utilizzare le discipline di studio, i saperi che fondano la cultura e la conoscenza, come strumenti per promuovere lo sviluppo delle competenze necessarie alla comprensione del mondo e della realtà di oggi per potersi pensare nel futuro. Questo vale per chi apprende e per chi insegna: in questo non ci sono maestri e allievi, ma persone che con ruoli e funzioni diverse, e a livelli diversi, cercano di comprendere la multiforme realtà esistenziale utilizzando gli strumenti culturali che quella realtà propone. Questa è l’epoca della complessità, si suole sostenere.

3. Seconda domanda. L’innovazione c’entra con il curricolo?

Nelle società sviluppate, come è la nostra, sono incalzanti e impegnative le richieste che alla scuola- e al mondo della formazione in genere- arrivano dalla politica, dai mondi del lavoro e delle produzioni, dalla vita sociale. A queste richieste è necessario rispondere, tenendo fermo lo specifico della scuola che è quello di chiedersi se queste richieste sono motivate da esigenze di crescita e di sviluppo delle persone, della loro autonomia, delle loro capacità di scelta responsabile per un futuro costruito da ciascuno e non per ciascuno. Da qui l’urgenza di formare menti in grado di costruire risposte innovative, di usare il pensiero critico per mutare i quadri concettuali quando necessario, di affrontare problemi vecchi in situazioni nuove che non consentono la sola ripetizione di quanto appreso e conosciuto, ma che deve essere conosciuto così bene da poterlo montare e smontare per adattarlo alle situazioni nuove.

Ogni tempo, anche a scuola, ha le sue parole magiche. Parole che si propongono come soluzione di problemi mai risolti, che spalancano finestre su universi presenti e futuri, offrendo rassicuranti prospettive, indicando soluzioni e sfavillanti orizzonti di avvenire. Una di queste parole, foriera di prodigi, ultimamente è innovazione: ricorre in ogni contesto, in ogni organizzazione e in ogni settore: innovazione trasversale e totale di ogni cosa, nelle fondamenta e nelle finalità. Peccato che, almeno a scuola, non sempre si chiariscano quali siano i nuovi criteri, i metodi inediti, i mutamenti e le trasformazioni che si vogliono produrre e, soprattutto, i risultati che permettano poi di dimostrare sia la necessità dell’innovazione sia la sua effettiva valenza. L’innovazione tecnologica, per esempio, non può esaurirsi nell’uso diffuso delle tecnologie, neanche tenendo conto del giusto tornaconto di visibilità. I cambiamenti non li fanno le norme, le leggi li disegnano. I cambiamenti li attuano le persone, partendo da quello che già fanno, riformulando percorsi, modificando modalità e strumenti in relazione alle finalità, agli obiettivi e ai risultati attesi per affrontare problemi reali. Ovviamente le innovazioni sono proposte dagli innovatori che non sempre tengono conto di un aspetto, cioè che si innova a partire da un’esperienza e riflettendo su ciò che è stato fatto per individuare i punti di debolezza che richiedono un cambiamento. La riflessione è una componente essenziale di ogni processo di innovazione, per sottoporre a verifica le idee e provare concretamente ciò che si è intuito e ipotizzato, definendo tempi e modi di realizzazione e di verifica di un progetto. Smontare un motore senza avere idea di come riassemblare i pezzi, non è una brillante idea. Se manca la riflessione l’innovazione è improvvisazione: la condizione più disastrosa per il cambiamento della scuola perché si fonda sull’ignoranza di quello che è stato e di come è stato prima, di quello che è stato realizzato o del perché non è stato realizzato: in questo senso è mancanza di rispetto, presunzione e arroganza. Se si introducono troppo rapidamente troppi elementi nuovi nella struttura di un’organizzazione, senza valutare le conseguenze che possono produrre, si rischia che nessuno serbi memoria della loro apparizione ma che tutti facciano i conti quotidianamente con le macerie che hanno prodotto. Non si possono confondere concetti diversi come innovazione e improvvisazione: l’innovazione risponde a ragioni, adotta criteri, segue processi logici, pianifica e segue tempi e ritmi con tenacia e perseveranza ed è sempre

innovazione rispetto a un cosa, a un come e a un perché. Le risposte dovrebbero andare nella direzione della realizzazione del curricolo, del raggiungimento degli obiettivi e del miglioramento dei risultati.

Continua

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (parte prima).

J. W. Botkin, M.Elmandjra, M. Malitza, Imparare il futuro: apprendimento e istruzione- Settimo rapporto al club di Roma, Mondadori Milano 1979.

A. R. Damasio, Emozione e coscienza. Adelphi Editore SpA, Milano, 2000.
D.C.Dennet, Strumenti per pensare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.
Russel B., Misticismo e logica (a cura di Carlo Sini), RCS MediaGroup SpA, Milano 2022.