In medio (non) stat virtus
di Stefano Stefanel
Ho insegnato per vent’anni nella Scuola media e poi per altri vent’anni ho diretto Scuole medie, sia inserite in Istituti comprensivi, sia aggregate orizzontalmente. Quindi la mia conoscenza dell’argomento è piuttosto professionale e non completamente culturale, probabilmente debole rispetto ai pareri che stanno affollando stampa e social sull’argomento. Purtroppo, tutto quello che so della Scuola media mi influenza molto nelle letture sull’argomento, portandomi ad individuare immediatamente chi scrive (a volte anche con argomenti interessanti) su un argomento che non conosce, rifacendosi spesso alla sola esperienza in suo possesso, che è quella che risale si tempi della sua adolescenza.
Per analizzare il momento critico e irreversibile del segmento di scuola che si occupa di adolescenti dagli 11 ai 14 anni è importante avere in mente due elementi distintivi:
- La Scuola media viene giustamente chiamata Scuola secondaria di 1° grado in quanto il sapere viene insegnato e appreso attraverso la sua secondarizzazione, cioè collegando la divisione dei tempi alla divisione dei saperi in “rigide” discipline autonome l’una dall’altra, aggregate in classi di concorso che fanno ritenere a molti docenti di appartenere al secondo e non al primo ciclo dell’istruzione;
- La Scuola media viene giustamente collocata nel primo ciclo dell’istruzione, anche se è una scuola secondarizzata, perché le manca la base strutturare dell’apprendimento superiore: l’elettività degli studenti. Quando entrano secondo ciclo dell’istruzione gli studenti si collocano dentro contenitori rigidi e scelti personalmente (chi va al liceo lo fa insieme ai liceali, chi va negli istituti professionali fa scuola con chi vuole professionalizzarsi, ecc.) e queste affinità elettive (spesso sbagliate e prodromiche di disastrosi percorsi scolastici) non esistono nella Scuola media, dove convivono nella stessa classe gli studenti destinati ai licei e alla laurea con gli studenti condannati alla dispersione, alle bocciature o a percorsi interrotti.
I due elementi sopra riportati sono elementi fortemente critici, vissuti, invece, come naturali da chi insegna nella Scuola media: la propensione dei docenti di Scuola media a prendere sul serio la verticalità curricolare con la Scuola primaria e dell’infanzia è bassissima e l’idea che la divisione dei saperi possa creare una grande confusione mentale a una fetta di studenti non crea alcun allarme. La tendenza della Scuola media è quella di addebitare l’oggettiva crisi a colpe familiari, ad una debolezza crescente dello studente, al digitale, alla mancanza di rispetto per la scuola, ma molto poco al corto circuito di saperi obsoleti trasmessi con metodi arcaici e valutati con metodi artigianali sbagliati.
Un altro elemento sottovalutato dalle scuole, dal ministero e dall’opinione pubblica è il problema della disomogeneità delle classi, ritenuta a priori un valore, ma che attualmente presenta diversificazioni eccessive nelle competenze degli studenti. Quando insenavo io nella Scuola media diciamo che su base 100 il divario era, di norma, di 20/30 punti tra i vari studenti inseriti nelle classi. Oggi in moltissime classi il divario può oscillare anche di 70-80 punti e la convivenza tra chi tende al massimo delle competenze culturali di un adolescente e quello che sopravvive dentro una cultura retta dall’uso del cellulare è la stessa che c’è tra un semi-analfabeta e un professore universitario: umanamente non ci sono problemi, didatticamente ci sono solo problemi perché i bisogni sono troppo lontani tra loro. Dentro l’estrema disomogeneità delle classi bisognerebbe prendere sul serio quello che dice l’ONU nell’Agenda 2030, laddove si parla di “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” e non ritenere che l’egualitarismo (stessi contenuti, stessi, metodi, stessi compiti, stesse interrogazioni, stessi obiettivi, ecc.) porti da qualche parte, perché – come diceva inascoltato allora come oggi don Milani – “non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi.” L’attuale didattica dell’uguaglianza produce soltanto dispersione scolastica, magari non situata nella Scuola media, ma pronta ad esplodere nel biennio delle superiori. I fautori delle bocciature e della selezione (praticamente tutti gli intellettuali che hanno accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa) paiono non comprendere come la convivenza di 16-17enni con ragazzini di 13-14 anni porti soltanto al degrado della convivenza dentro crescite che vanno accompagnate e non sfidate.
Le avvisaglie della grande crisi della Scuola media c’erano anche quando insegnavo io, ma il riordino dei cicli pensato da Luigi Berlinguer fu osteggiato da tutti e la sua cassazione dal dibattito e dalla norma, operata da Letizia Moratti, fu accolta da tutti con grande sollievo. Ripartire da lì oggi sarebbe un grave errore e creerebbe solo ulteriore caos. In realtà il punto da cui partire è evidente da oltre vent’anni: la costruzione di una vera verticalità nel primo ciclo, facendo comprendere a tutti gli insegnanti della Scuola media che sono la parte conclusiva del ciclo primario e non la parte introduttiva del ciclo secondario. Questo vuol dire lavorare sui saperi e non sulle materie, redigere veri curricoli e non scimmiottare i programmi pensati da Giovanni Gentile. Su questa strada ci sono due avversari formidabili: le case editrici che coi libri di testo sedimentano strutture rigide e trasmissive di saperi disciplinari; i sindacati che difendono le classi di concorso e la loro rigidità applicata all’occupazione, senza tenere in minimo conto esigenze curricolari specifiche collegate a possibili variazioni necessarie, che dovrebbero portare, oltre a modificare il sapere di chi insegna, anche a modificare le materie da insegnare sia nella qualità che nella quantità. Tutto questo porta a mantenere intatta l’idea gentiliana che siano italiano-matematica e inglese a dover reggere il gioco, non comprendendo come, invece, musica, arte e tecnologia avrebbero, dentro strutture didattiche multidisciplinari e trasversali, la possibilità di sviluppare competenze non semplicemente trasmissibili.
Un altro elemento che supporta l’attuale crisi delle Scuola media è la convinzione di gran parte della classe docente di quel segmento di scuola che la valutazione debba essere realizzata sempre con strumenti misurativi (compiti e interrogazioni) anche per quei saperi dove l’attenta osservazione è molto più utile. Inoltre, il numero di ore di ogni materia viene confuso con il quantum di apprendimento possibile: il mantra delle poche ore a disposizione non fa venire a molti il dubbio che più ore si fanno e più la dispersione aumenta per gli studenti deboli e che le ore aggiuntive devono essere fatte per quelli bravi, non per quelli che arrancano nell’ordinario. Invece si attivano recuperi che portano studenti stanchi a stancarsi ancora di più, lasciando quelli capaci in tempi scuola per loro troppo limitati. La Scuola media scambia l’aumento del tempo scuola con il miglioramento degli esiti, mentre il miglioramento degli esiti comincerà quando verranno abbandonate le metodologie didattiche che hanno portato alla situazione attuale. Per battere la dispersione nella Scuola media bisogna attivare risorse e progetti che ricadano sulla didattica ordinaria, non che ne siano avulsi e che non abbiano peso nella valutazione (come accade oggi).
Danni notevolissimi alla Scuola media la stanno facendo anche gli Istituti superiori ed Eduscopio, diventata la bussola più gettonata per l’orientamento. Eduscopio con le sue classifiche devasta il sistema percettivo delle famiglie italiane, che nella Scuola media pianificano il futuro cercando di agganciare il figlio alla “scuola migliore” e non alla “scuola elettiva”. Così avviene che la classifica pensata da una Fondazione privata su parametri autodecisi diventi l’elemento che orienta verso errori pacchiani, alimentando una dispersione che inizia quando non si guardano più agli esisti del presente dello studente nella Scuola media (che cosa sa realmente fare), ma lo si proietta già verso un futuro che spesso sarà collocato dentro la dispersione. In tutto questo il ruolo delle Scuole superiori è molto negativo in quanto puntano ad aumentare il numero degli iscritti in una sorta di “favola di Cappuccetto Rosso dark”: “caro studente di scuola media vieni da me anche se questa non è la scuola che fa per te, così io posso bocciarti meglio”. Mi sfugge perché il Ministero permetta che molte scuole superiori accolgano le iscrizioni di tanti studenti nelle classi prime pur avendo un altissimo tasso di bocciature. A dire il vero Eduscopio ha anche una classifica (avulsa) dove si vede il tasso di bocciatura delle scuole superiori, ma è una classifica che non interessa a nessuno, anzi se quel tasso è troppo basso i genitori e l’opinione pubblica pensano che lì le cose non si fanno seriamente.
Io penso che la Scuola media debba riprendere ad agganciare gli adolescenti nel loro momento di crescita e che debba organizzarsi per azioni collegiali e non per singole materie. In tutto questo un ruolo molto forte (in senso negativo) lo ha la docimologia applicata da chi non la conosce e non l’ha studiata (all’Università si studiano i contenuti disciplinari non le metodologie didattiche o i sistemi di verifica-valutazione-misurazione-certificazione). Diciamo che nella scuola italiana avviene lo strano fenomeno per cui si pratica qualcosa che non si è studiato: quando vado dal dentista voglio essere certo che il dentista abbia studiato e si sia specializzato in quel settore della medicina, non che sia un generico “dottore”. A scuola invece valutano professionisti specializzati culturalmente, ma senza alcuna competenza valutativa. In questa sacca si insinua la dispersione in quanto gli studenti sono spinti alla realizzazione di prodotti valutabili docimologicamente e non verso competenze spendibili e certificabili. Infatti, la certificazione delle competenze alla fine del ciclo primario non interessa a nessuno, mentre i “voti” vengono vissuti come una certificazione di livello. Questi meccanismi valutativi sono tutti sbagliarti e producono negli studenti, troppo spesso, uno studio teso verso la perfromance valutativa e non verso l’apprendimento duraturo.
Esiste poi il problema della formazione in ingresso dei docenti, che molto spesso vivono la Scuola media come un semplice momento di passaggio prima di approdare alle Scuola superiori. Quando fu il momento io scelsi la Scuola media e benché abilitato e vincitore di concorso nelle Scuola superiori decisi comunque di rimanere ad insegnare nella Scuola media perché mi ha sempre appassionato la costruzione delle competenze e del sapere in quei tre anni di crescita convulsa. Anche da Dirigente quando sono passato al Liceo nel 2012 ho sempre chiesto e ottenuto una (e un paio di volte me ne hanno date due) reggenza nel primo ciclo, perché ritengo che la professione si debba sviluppare nella gestione di studenti dai 3 ai 19 anni per vedere come cresce il sapere. Questi motivi personali-professionali alimentano la mia diffidenza verso chi parla senza conoscere l’argomento di cui parla, facendo ricadere sugli studenti colpe che non hanno.
La strada per uscire è oggi quella di venti o trenta anni fa: lavorare per obiettivi e non per materie, costruire competenze e non percorsi per superare prove di verifica obsolete (compiti in classe e interrogazioni), verticalizzare i curricoli per cementarie i saperi e le metodologie, comprendersi come “scuola di mezzo” che chiude un ciclo senza essere attratta da quello successivo. Ragionando in questo modo alcuni nodi vengono subito a pettine: la verticalità dell’inglese richiede competenze diverse nella scuola primaria e un presidio di chi insegna inglese nella Scuola media su tutto l’istituto comprensivo; l’insegnamento della matematica affidato a non matematici (quasi tutti gli insegnanti di matematica della Scuola media non sono laureati in matematica) richiede competenze didattiche forti e non trasmissioni di meta-spiegazioni che spesso sono più complicate dei teoremi e delle operazioni che cercano di spiegare; la lingua italiana deve essere presidiata da tutto il sistema e diventare una vera competenza alfabetica funzionale e quindi padroneggiare libri, articoli, informazioni, istruzioni, social, web ecc. e non chiudersi dentro l’umanesimo del tema; quelle che una volta erano chiamate educazioni (arte, musica, educazione fisica, tecnologia) devono verificare per osservazione e non per prodotti, senza alcuna docimologia per definirsi dentro obiettivi di apprendimento e non contenuti disciplinari; le materie di studio devono affinare metodi di apprendimento non affastellare contenuti.
Ripartire da dove? Direi proprio da tutto: lo si doveva fare vent’anni fa, lo si deve fare ora. Ma ora è troppo tardi? Rispondo come fece Nereo Rocco, quando allenava il Padova, a cui dissero prima di Milan-Padova: “Vinca il migliore”, e lui rispose: “Ciò, speremo de no”.