Le lezioni e gli stili degli insegnanti

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Le lezioni e gli stili degli insegnanti

di Francesco Scoppetta

E’ noto come insegnanti diversi fanno esperienza della stessa classe in modi completamente diversi. Le discussioni che avvengono durante gli scrutini sono semplicemente la cartina di tornasole di tale assunto, in quanto spesso succede che gli stessi alunni vengano considerati in maniera completamente opposta dai loro proff. E ciò non avviene solo per le valutazioni disciplinari (le materie, è chiaro, dividono i docenti) ma soprattutto per i giudizi espressi sul piano relazionale-affettivo. L’alunno Tizio è considerato dal prof di lettere un mascalzone scostumato mentre il prof di matematica lo considera un angioletto. Come è possibile dopo un anno o più di osservazione continua, di frequentazione giornaliera, di scuola, che i giudizi di due professori di materie “pesanti” con più ore settimanali divergano a tal punto? In sede di scrutinio formalmente il dibattito concerne la preparazione didattica degli alunni, ma in realtà riguarda il rapporto interpersonale che si è instaurato tra l’alunno e ciascun docente. Sono le interazioni interpersonali con la classe e i suoi sottogruppi a determinare le risposte generali e i singoli insegnanti sono le variabili cruciali, come dimostrano le valutazioni finali.  Dietro una sfilza di voti negativi si nasconde come in una trincea il prof esigente, duro, per nulla empatico con la classe; dietro i voti tutti positivi si nasconde il prof impaurito o bonaccione, il menefreghista o il supplente, oppure quello che sa come va il mondo e non ha tempo da perdere. I voti e le discussioni per concordarli durante lo scrutinio rappresentano l’universo dei singoli docenti, e quasi sempre non i singoli voti ma il complesso dei voti finali segnalano le caratteristiche dell’insegnante e la sua personalità. Le motivazioni che apporta per spiegare il singolo voto e il giudizio sul singolo alunno spiegano il suo stile di insegnamento e la sua sicurezza (o intelligenza) emotiva. Il modo di confrontarsi con i pari, gli altri colleghi, dimostrano il suo approccio relazionale, insomma lo scrutinio finale è la recita che consente come in un saggio finale di comprendere il buco nero della scuola italiana: la professionalità di dirigenti e insegnanti è fondata su varie forme di conoscenza ma il sapere psicologico non è contemplato. Essi ignorano completamente “come funziona” la differenza tra conoscere e essere. L’istruzione formale si concentra quasi esclusivamente sull’area del conoscere escludendo l’essere, tuttavia l’essere è l’essenza della nostra vita. Le scuole fanno davvero poco per sviluppare l’essere dei ragazzi e dunque il conoscere se non alimenta l’essere non sarà loro di nessun beneficio. Quando gli insegnanti ripetono il loro mantra (“sono qui per insegnare non per fare lo psicologo”) certificano di non rendersi conto che le materie, scientifiche o letterarie, possono aiutare i ragazzi a esplorare e riflettere su se stessi e sul significato della loro esistenza. “Le procedure di cui si vale un insegnante sono intrinsecamente psicologiche perché riguardano i processi psicologici della trasmissione delle conoscenze, dell’apprendimento, dell’interazione sociale” (Cesare Cornoldi). Il nostro sistema di istruzione e formazione continua a disconoscere quanto alcuni concetti di base della psicologia abbiano una quotidiana rilevanza per l’attività di un insegnante; si occupa di tutto (attraverso una produzione incessante di norme che si aggiungono ad altre norme) senza mai riconoscere la necessità e l’importanza di conoscenze psicologiche di base per i professionisti dell’insegnamento. Se dall’alto la direzione continua ad essere questa, in basso gli insegnanti non si considerano educatori ma semplici “trasmettitori di conoscenze” ignorando tematiche psicologiche rilevanti ed essendo incapaci di lavorare su se stessi prima che su adolescenti alla ricerca del Sé.

In altri termini, chi si occupa del governo delle nostre scuole non ritiene significative le relazioni sociali tra due persone (diadiche) per cui gli insegnanti non ricevono un’adeguata formazione per quanto riguarda il comportamento interpersonale. Le discussioni nello scrutinio accese per attribuire il voto di condotta dimostrano che insieme non riescono neppure a concordare quali siano i comportamenti-problema dei ragazzi. Anche le scuole contribuiscono a farci vivere in un contesto sociale in cui la maggior parte di noi non sa come analizzare le esperienze interpersonali e come migliorare le proprie abilità relazionali. Dall’alto non si è ancora capito che le scuole insegnano due cose essenziali ai ragazzi: come funziona la democrazia, in presenza di una comunità regolata da regole e con una gerarchia che dal dirigente scende ai suoi collaboratori e poi ai docenti sino agli Ata e agli studenti; e come si struttura una personalità dell’individuo attraverso le relazioni, l’autostima, il riconoscimento reciproco, l’inclusione. Soltanto in presenza di degenerazioni e conflitti (il bullismo, le molestie) le nostre scuole, la nostra stampa, scoprono che nelle scuole ci si barcamena per riuscire a prendere la sufficienza e nessuno si occupa degli aspetti relazionali-affettivi, come se l’intelligenza emotiva, i sentimenti, il bisogno di essere accettato prima di essere compreso dal gruppo dei pari non fossero la trama continua su cui si sviluppano i nostri incontri personali.  

Di tanto in tanto si tira in campo il burnout, scoprendo lo stress cronico nelle persone che si occupano degli altri esseri umani, in particolare se questi hanno problemi o stanno soffrendo, ma tutto appare come il tentativo di riconoscere l’insorgenza di una nuova malattia professionale che possa consentire congedi e aspettative ai dipendenti piuttosto che come l’avvio di una nuova stagione in cui il comportamento interpersonale e le abilità sociali trovino accoglienza nella cultura quotidiana delle nostre scuole.

Ritornando adesso all’esempio da cui sono partito, quando l’insegnante entra per la prima volta in classe e scopre sulla sua pelle che non ha nessun copione da recitare, che gli hanno detto solo che deve far lezione e gli hanno dato un libro di testo, l’esperienza individuale si svolge nel vuoto, senza rete e senza bussola: nessuno prima, al di là di qualche consiglio, ti ha intrattenuto per prepararti sulle situazioni che troverai in classe. Per esempio nessuno ti ha spiegato cos’è la “sincronia comunicativa”. E’ una concomitanza che svolge un ruolo importante allorchè due persone si incontrano e hanno una conversazione. Essa si svolge attraverso le parole ma anche attraverso segnali non verbali, intenzionali o spontanei, tipo sorrisi, smorfie, cenni del capo, espressioni di stupore, aggrottar di ciglie.

La sincronia comunicativa indica che la persona alla quale stiamo parlando ascolta e risponde, ci manda dei segnali per comprendere ciò che sta pensando. E’ quasi impossibile sostenere una conversazione con uno che non muove un muscolo e resta impassibile, in quanto se non c’è sincronia non si attiva la comunicazione a due vie. Immaginiamo adesso un povero insegnante che non ha mai riflettuto su concetti elementari come questo il quale sperimenta in classe, appena arrivato, la mancanza di interazione sociale. Lui parla e dalla parte degli alunni c’è un ostinato silenzio (o un chiasso infernale, che è la stessa cosa) che nessuna parola riesce a scalfire, segno di un testardo rifiuto a comunicare. Il docente sperimenta subito che la platea cerca deliberatamente di ignorarlo e rifiuta di mostrare una sincronia comunicativa. Che fare in questi casi, davanti a questo messaggio? Il messaggio, espresso in silenzio e senza muovere un muscolo è: Non ci interessi affatto, tu parli ma sprechi tempo e fiato con noi. Che fare? Ecco, la risposta il docente “autarchico” deve tentare di trovarla da sé, perché nel corso dei suoi lunghi ed impegnativi studi magari non ha rinvenuto nessuno che illuminasse la situazione reale in cui si trova. Nessuno gli ha mai parlato di quello che avviene in classe a contatto con studenti in carne ed ossa, nessuno ha mai trattato, sul versante psicologico, il primo incontro tra due persone (o tra una persona ed un gruppo) per approfondirne la dinamica. Le persone che si incontrano la prima volta, al contrario di quel che succede tra due vecchi amici, sono insicuri, ansiosi di fare una bella impressione e desiderosi di giudicare a loro volta la persona che hanno di fronte. Per cui avviene che gli introversi saranno più consapevoli di se stessi mentre gli estroversi saranno più consapevoli dell’altra persona. Insomma, il prof se è un introverso si preoccuperà molto del suo comportamento e sarà poco a suo agio, mentre il gruppo-classe, se è estroverso, scruterà il docente e si metterà a valutare il suo comportamento. Ogni docente dovrebbe sapere ben prima di entrare in una classe come funzionano le interazioni sociali e direi che sarebbe il caso di mandarlo in classe solo se ci è chiaro che sa come gestire il rapporto con una classe. Per esempio, a livello scolastico ogni buon insegnante comprende che deve saper usare le parole per aiutare la comprensione reciproca piuttosto che alimentare lo scontro e il risentimento.  In ogni conversazione tra un prof e l’alunno si instaura un meccanismo che spesso e volentieri è completamente ignorato dall’adulto. Quando egli parla ad un alunno riceve una risposta (verbale o non verbale) che aiuta a determinare cosa sarà detto in seguito. Ora, cosa succede? Succede che le persone socialmente inadeguate (insegnanti o alunni) sono molto spesso dei cattivi conversatori. Un insegnante consapevole deve saper utilizzare una modalità di conversazione proattiva affinchè la conversazione continui. Ipotizziamo che un alunno ponga una domanda all’insegnante: Dove andate in vacanza? L’insegnante se risponde secco: -Vado al mare – non usa la modalità proattiva e comunica che intende porre fine alla conversazione; se, al contrario, risponde con un’altra domanda (Vado al mare; e tu dove vai?) comunica che vuole continuare la conversazione. Nell’interazione sociale tra docenti e alunni esistono molte piccole strategie che consentono ai primi di segnalare il loro status sociale a coloro che considerano socialmente inferiori. Tali strategie appaiono nell’uso del linguaggio ma anche nei comportamenti. Cominciamo da questi ultimi: il prof può appoggiare una mano sulla spalla dell’alunno ma il contrario non è consentito; il prof può chiamare l’alunno con il suo cognome ma l’alunno deve premettere al cognome il “prof.”; il prof può prendere la parola in una conversazione interrompendo l’alunno ma è disdicevole il contrario. Tutte queste sottili strategie interpersonali operano all’interno della scuola indipendentemente da qualsiasi regola che l’inferiore sia tenuto a rispettare e rappresentano giochi di ruolo che creano un clima generale. L’alunno deve lasciare la porta aperta per il professore ma non ci si aspetta che lo faccia il superiore, per cui è difficile per una scuola insegnare i valori della cortesia se gli insegnanti tengono molto ad affermare il loro status sociale verso gli inferiori. In ogni scuola l’organizzazione (dal preside in giù) presuppone vada rispettata la gerarchia ma il rispetto guadagnato è più importante di quello dovuto per il ruolo ricoperto, ed in ogni caso è deplorevole far occupare l’ultimo posto della gerarchia scolastica ai ragazzi. Senza ragazzi le scuole chiudono e questo è un motivo importante per tenere ben presenti gli interessi dei ragazzi e soprattutto la loro educazione. Il buon insegnante ottiene il rispetto dei ragazzi se non lo pretende a priori sulla base del principio di autorità ma se invece rappresenta un modello di ruolo accettabile, se si dimostra saggio ed imparziale, se possiede delle capacità che la classe vorrebbe condividere. Gli stessi docenti che pensano astutamente di conquistare consenso sulla base di voti alti regalati a tutti non si rendono conto che in realtà non vengono stimati proprio perché non sono imparziali e abusano del loro status.

Quando l’insegnante non sa interessare i suoi studenti (alla base della motivazione c’è la curiosità) scarica su di loro la sua incapacità e li definisce menefreghisti e disinteressati. Reciprocamente gli studenti incapaci di tollerare lo sforzo e la disciplina che comporta lo studio autentico scaricano la colpa della loro incapacità sui docenti definendoli noiosi e cattivi. Pe evitare la proiezione delle proprie colpe sugli altri è necessario porsi una domanda che riguarda sia i docenti che gli alunni. Come possiamo incontrarci sul terreno di questa materia, in che modo essa può costituire per tutti noi una vera esperienza di apprendimento? Solo in questo modo si apre il dialogo, si evocano gli interessi e le risorse affettive e si stabilisce una relazione educativa solida centrata sull’apprendere assieme.

Se si costringesse un insegnante di lettere ad apprendere la matematica e viceversa essi avvertirebbero una grandissima difficoltà ad imparare concetti che non rientrano nell’ambito dei propri interessi e non sono presenti nel campo della propria esperienza. Eppure nelle nostre scuole si ascoltano tanti insegnanti predicare agli alunni che nella vita tutti fanno quotidianamente un gran numero di cose senza avere il minimo interesse. L’unico metodo che essi conoscono è quello del bastone e della carota, senza capire che la forza del carattere non deriva dalla costrizione ma da un interesse coinvolgente ed entusiasmante. Ciascuno di noi sa che nella vita solo dopo aver individuato gli scopi, magari difficili, ci si sforza di raggiungerli e si ricorre alla disciplina. Una scuola ignara delle dinamiche interiori che muovono le persone e del valore di corrette e fruttuose relazioni interpersonali, ricorre a metodi superati che prescindono dagli interessi dello studente, cerca di far prevalere status, di acquisire rendite di posizione (per esempio perché collaboratori del preside a vita?), di esplicitare modelli di ruolo inaccettabili senza rendersi conto che i ragazzi guardano il contesto e spesso giungono a disprezzare i comportamenti degli adulti. Lo fanno perché con l’adolescenza sul piano cognitivo si diventa capaci di ragionare in termini astratti, per cui le attività e le politiche degli adulti cominciano ad essere discusse e spesso trovate deludenti. L’adolescenza è l’età che spesso viene descritta come quella dell’idealismo per cui i ragazzi cominciano a porsi degli obiettivi di vita e cercano la propria identità. Le figure del dirigente, degli insegnanti, dei bidelli, i loro comportamenti interpersonali, vengono quindi vagliati e dietro scherzi o scatti di rabbia, intemperanze ribellioni e rigidità si scorge in filigrana la reazione dei discenti verso il mondo adulto, non sempre considerato degno di essere imitato nelle sue condotte.

Le relazioni insegnanti-alunni (1)

(2. Continua)