La lezione come incontro-sociale

La lezione come incontro-sociale

di Francesco Scoppetta

Le lezioni scandiscono il tempo-scuola ogni giorno, sono tante docce a cui sono sottoposti i discenti (prima ora: doccia di italiano; seconda ora, doccia di matematica…) e rappresentano l’incontro sociale tra l’insegnante e la classe. Come ho già scritto, è evidente che il primo e l’ultimo stadio della sequenza (saluto e commiato) meno sono calorosi minore è la misura della relazione. In alcuni casi i docenti entrano ed escono dalla classe scivolando via senza che nessuno se ne accorga e ci faccia caso. Ma dopo il saluto iniziale, che è il primo interscambio, è cruciale il momento successivo, quello in cui il prof intende stabilire una relazione, per cui si rivolge alla classe. Prima di affrontare il compito della lezione (e far lavorare la classe, terzo stadio) il docente “conversa”, dice cosa si aspetta da loro, si confronta e introduce il lavoro vero e proprio.

Gli alunni cercano di allargare a dismisura la conversazione (attività che si condivide con altri soggetti) per rimandare l’inizio del discorso (testo costituito da frasi formulate per produrre senso per fini comunicativi) e del lavoro (ascolto della spiegazione, esercizi, interrogazioni), pertanto tentano di suscitare un dialogo-dibattito con domande al prof anche su temi di cronaca. E’ il momento cruciale della relazione, ci sono docenti che più o meno volentieri cominciano a parlare senza finirla più consumando tutto il tempo necessario al lavoro. La gestione dei tempi della sequenza è fondamentale, la relazione sociale può esaurire l’intera lezione bloccandosi al suo secondo stadio, a causa delle astuzie che i discenti inventano dopo aver individuato i tasti sensibili del docente da toccare. Per esempio, avendo scoperto che il prof è molto sensibile a certi argomenti (la famiglia, gli stipendi bassi, la squadra del cuore…) sanno che devono far confluire la relazione nei pressi di tali temi perché egli si abbandonerà alla conversazione provando gusto ad intrattenersi con l’uditorio.

Insomma, dopo il saluto iniziale può succedere che il docente, senza accorgersene, s’impantani nello stadio della relazione, impossibilitato a procedere oltre con il vero e proprio lavoro, per cui talvolta, a causa del tempo scaduto, non gli rimane che procedere lo stesso all’assegno per casa (quarto stadio) come se nulla fosse, dicendo che l’argomento può essere affrontato da soli senza preventiva spiegazione e che poi in classe risponderà ad eventuali richieste di chiarimenti. C’è anche il caso curioso di docenti i quali sono convinti di non dover mai spiegare prima l’argomento, altrimenti gli alunni prendono appunti e li studiano senza guardare più il libro di testo.

L’incontro sociale della lezione, che procede con interazioni, reazioni, rivolte, silenzi, scaramucce, richieste continue di poter uscire dall’aula, fa rivestire agli sguardi e ai gesti una rilevanza cruciale. Attraverso lo sguardo il prof viene radiografato, esaminato, monitorato innanzitutto nel suo stile di abbigliamento. Ma poi sono i suoi gesti a fornire le vere informazioni sul suo modo d’essere: appare nevrotico o calmo, affabile o scontroso, rilassato o nervoso, ironico o serioso, rabbioso o tranquillo, timido o impertinente, conformista o anticonformista, impegnato o no. I docenti hanno un ruolo che li separa dalla classe ma lavorando con essa tale separazione non può essere così netta da diventare una frattura. Basta già il modo di parlare, di vestire e di presentarsi per far registrare talvolta l’estraneità dell’insegnante dal contesto sociale dei loro alunni, i quali sanno già con quale auto è arrivato a scuola e tutte le notizie sulla sua condizione familiare. Se tale estraneità diventa distacco dalla classe, i suoi componenti o i più influenti potrebbero trasformarlo in rancore e ostilità. Il rovescio della medaglia è dato da quei docenti che intendono, malgrado la differenza di età, annullare tale estraneità presentandosi come giovanili e simili ai ragazzi, scimmiottandone gergo e mode. Ma i giovani non rispettano un insegnante che intende imitarli perché lo ritengono artificiale e non autentico.

Nel momento in cui l’insegnante ha creato le condizioni per esplicitare il lavoro del giorno (per es. intende introdurre un argomento nuovo) e in buona sostanza ha ottenuto l’attenzione e disponibilità di tutta o quasi la classe, il suo stile di insegnamento si manifesterà e gli studenti coglieranno le varie differenze tra tutti i loro docenti. Ogni insegnante segue la propria metodologia per cui la prima categoria, quella prevalente, è quella dei “parlatori” o conferenzieri. Una categoria amplissima dove coesistono insegnanti di successo, capaci di parlare in modo interessante, stimolando la curiosità e l’immaginazione dell’uditorio, con altri capaci solo di spiegazioni più sintetiche e striminzite ricavate dai riassunti che tutti i libri di testo aggiungono come sintesi finale. I buoni parlatori se la cavano e superano le difficoltà mentre gli insegnanti poco eloquenti, a causa del loro linguaggio monotono, lento o esitante (sino allo sforzo continuo di trovare la parola giusta), magari ricolmo di intercalari continui, tenderanno a ridurre le spiegazioni allo stretto necessario.

Solo che entrambe le categorie devono prima o poi capire che l’interazione in classe riesce se essi si dotano della necessaria flessibilità, che è poi una dote quasi coincidente  con la capacità di compromesso. Ogni classe è diversa dall’altra e il metodo che riesce in una magari con altri studenti ha bisogno di modifiche, per cui la capacità di adattare i propri metodi per un insegnante è fondamentale altrimenti diventa un rigido dogmatico sempre alla ricerca di platee silenziose e passive. Nuove idee e nuove tecniche si apprendono col tempo e chi afferma di insegnare allo stesso modo in qualsiasi classe e in qualsiasi scuola e tempo dimostra di essere un reperto archeologico sotterrato nelle viscere della terra.

In classe sia chi parla molto sia chi parla poco deve proporsi di essere un insegnante che sappia ascoltare molto, che poi è l’unica vera regola della comunicazione. L’arte di incoraggiare gli alunni a prendere la parola (magari uno alla volta e rispettando turni e opinioni altrui) è essenziale, se accompagnata dalla pazienza dell’ascolto che consente non solo di rispettare chi parla ma anche la costruzione della sua autostima. La stessa interruzione sia dell’alunno che tende a monopolizzare il dibattito che di quello che interviene sempre a scapito degli altri, o di quello che vuole attirare l’attenzione per assumere il ruolo di spiritoso, devono avere una modalità adeguata per non significare esclusione. Insomma, la scuola insegna la democrazia del libero dibattito se non assume i toni e le modalità dei brutti talk televisivi ai quali tocca assistere, in cui la competizione, lo scontro e la derisione dell’avversario sono ricercati sia dai partecipanti che dai conduttori.

La lezione frontale ha ormai fatto il suo tempo nelle scuole italiane per il semplice motivo che non è proponibile la scuola degli anni cinquanta e sessanta la quale intendeva mantenere gli alunni in uno stato passivo e prevedeva finanche una bacchetta tra gli strumenti del mestiere del maestro elementare. Tutto il tempo di una lezione esaurito nel discorso del docente che ad un certo punto parte per la tangente e non è capace di concentrare l’attenzione su un gruppo di idee-forza, impedisce di verificare via via l’assimilazione di concetti e di schemi. Il bravo docente è molto disciplinato nel rispetto dei tempi, delle pause, dell’uditorio, procede con una precisa scaletta in testa che cambia solo se riceve riscontri dagli alunni ai quali chiede di continuo di esprimersi. Il conferenziere è al contrario definito dalla pedagogia “insegnante diretto” appunto perché adopera metodi “formali”, non considera i sentimenti dei ragazzi, non usa la lode e gli incoraggiamenti, non utilizza le loro idee.

E’ un approccio superato perché le nuove generazioni sono incapaci di ascoltare per più di pochi minuti e nel migliore dei casi non disturbano ma la curva dell’attenzione arretra sino a svanire del tutto. Finanche le radio che una volta trasmettevano solo musica oggi per essere ascoltate consentono di continuo all’ascoltatore di intervenire, telefonare, commentare. Non ci sono più, voglio dire, neppure consumatori passivi di musica da intrattenimento. Per cui il bravo insegnante userà la spiegazione in modo accorto senza inutili fronzoli, concentrando in quei dieci minuti di attenzione viva i concetti fondamentali.

Se lo scopo del terzo livello di una lezione è l’apprendimento di un argomento, la vecchia scuola presentava conferenzieri alle prese con lezioni magistrali da rovesciare su alunni passivi, ad imitazione dei propri docenti universitari. Oggi è preferibile partire fornendo ai ragazzi materiali, lo studio di caso, stimolarli al problem solving, insomma ascoltarli perché attraverso il ragionamento siano loro in prima persona a rinvenire e scoprire la soluzione. Al docente-facilitatore toccherà prima indirizzarli e accompagnarli, poi sistematizzare la scoperta, fornendo una definizione del punto di arrivo. Allora è chiaro che il buon parlatore dovrebbe trasformarsi in un buon ascoltatore capovolgendo la tecnica e fornendo il 70% di tempo agli studenti per parlare e riservandosi soltanto il rimanente 30%. Il metodo espositivo per eccellenza, la lezione-conferenza, si sta pian piano ritirando a favore di altri metodi didattici che adoperano le cd “tecniche attive” (ossia delle attività procedurali che coinvolgono attivamente lo studente nel processo di apprendimento). L’efficacia consiste, per ogni disciplina e per ogni apprendimento, nel poter sviluppare processi di apprendimento diversi e più autonomi (non solo quello per ricezione, ma anche per scoperta, per azione, per problemi). Ma non solo, può assicurare un’offerta formativa personalizzabile (l’allievo che non impara con un metodo, può imparare con un altro) e promuovere l’interesse e la motivazione degli studenti (ogni metodo ripetuto più volte annoia, soprattutto un adolescente). La scuola-laboratorio (metodo operativo), la ricerca sperimentale (metodo investigativo), la ricerca-azione (metodo euristico-partecipativo) e il mastery learning (come esemplificazione dei metodi individualizzati) non sono altro che processi legati da un unico filo rosso, rendere gli alunni partecipi, non spettatori passivi dell’insegnante in classe. 

Come posso rendere interessante la mia materia? si chiedono sempre insegnanti alla ricerca dell’attenzione dei loro studenti. Impegnarsi a rendere interessante la presentazione della materia non è sufficiente a stimolare l’interesse interno dello studente. Per riattivarlo occorre mettersi alla ricerca dei loro agganci conoscitivi, dei loro autentici bisogni di conoscenza. Non si tratta di catturare la loro attenzione in senso manipolativo ma di mettersi in ascolto della loro esperienza, per intrecciare gli interessi interni degli studenti con i temi più stimolanti della materia. Si tratta di trovare una didattica capace di rispettare allo stesso tempo il principio del piacere, che ci sostiene a ricercare ciò che è gradevole, e il principio di realtà, che ci impegna a tener conto delle difficoltà. Si tratta di proporre sfide, di coniugare lo sforzo con la gratificazione, riconoscendo sia il bisogno di gratificazione sia la presenza delle difficoltà e la necessità dell’impegno, dello sforzo per affrontarle. Studiare è come correre, sono attività indispensabili per star bene, ma sono attività faticose che poi si rivelano piacevoli, anzi è proprio il piacere del sentirsi bene che rende la fatica accettabile.

Solo se l’insegnante recupera la sua funzione di educatore manifesterà così ai loro occhi la più importante qualità di successo, la maturità emotiva. Il ruolo dell’affettività nei processi che avvengono nell’ambiente scolastico è talvolta determinante, e molti autori, tra i quali Bloom, hanno dimostrato come affettività, motivazione ed apprendimento siano tra loro interconnessi.

Purtroppo, per come abbiamo cercato di dimostrare, il “sistema” recluta e impiega insegnanti senza verificare se possiedano tale sicurezza emotiva ma soprattutto senza verificare quantomeno se abbiano un vaga idea di cosa si tratti. Anche se argomenti come l’intelligenza emotiva, l’alfabetizzazione emozionale e socio-affettiva un tempo considerati pertinenza dei sociologi oggi fanno parte della didattica speciale, il passo ulteriore è considerare l’insegnante “affettivo” indispensabile per valorizzare la soggettività e l’alterità dei propri alunni.

Affidare ogni giorno i nostri giovani a insegnanti che non possiedano la qualità che i greci definivano sophrosyne è un azzardo che sconfina nella sconsideratezza. La traduzione del termine sarebbe “cura e intelligenza nel condurre la propria vita; misura, equilibrio e saggezza”. I Romani e i primi cristiani e anche noi la chiamarono temperanza, in altri termini la identificavano con la capacità di frenare gli eccessi emozionali. In realtà non si tratta di sopprimere le emozioni, ogni sentimento ha il suo valore e il suo significato. L’obiettivo della temperanza è l’equilibrio, che, insieme con la gentilezza (e la didattica gentile) sono risorse necessarie alle nostre scuole e a tutti quelli che con ruoli diversi vi lavorano dentro.

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