Valutare per riequilibrare le opportunità

Valutare per riequilibrare le opportunità: c’è bisogno di saggezza.

di Maria Grazia Carnazzola

1.  Lo stato dell’arte.

I presupposti concettuali e tecnici della valutazione, intesa come scienza, sono emersi e hanno trovato la loro ragione parallelamente al delinearsi dei problemi particolari legati alla scolarizzazione di massa, quando si fece pressante l’esigenza di individuare tecniche obiettive e imparziali per ovviare all’ambiguità dei sistemi di valutazione utilizzati. Si vedano a questo proposito, ad esempio, le osservazioni allora fatte da Henri Pièron in merito ai sistemi di votazione tradizionali. In Italia la scolarizzazione di massa coincide in larga misura con l’innalzamento dell’obbligo, nel 1964, e la scuola diventa il luogo privilegiato del dibattito, fortemente ideologico, tra forze conservatrici e progressiste, orientate queste ultime a rendere effettivo il diritto alla frequenza da parte di tutti. Sono, allora, praticamente estranee al sistema le tecniche docimologiche di rilevazione del profitto e il termine “valutazione” diventa sinonimo di selezione, espressione di una didattica che penalizza gli alunni appartenenti alle classi sociali disagiate e che spersonalizza il rapporto educativo. È probabile che anche da qui  origini  quella “cultura” didattica avalutativa, che ancora perdura e  negli ultimi tempi ha ripreso vigore, che focalizza i momenti terminali del profitto, privilegiando la comunicazione verso l’esterno (famiglie in primis)  con giudizi sintetici e globali invece che con un’informazione analitica sulle componenti, le condizioni e la qualità dei processi formativi in atto sui quali focalizzare, condividere e giustificare senza ambiguità l’assunzione delle decisioni opportune e delle responsabilità conseguenti.  Nella valutazione trovano riscontro concreto le finalità culturali e sociali assegnate all’Istituzione scuola: al di là delle intenzioni e delle dichiarazioni, nelle pratiche valutative si rintracciano i tratti distintivi della qualità dell’istruzione, in generale, e dell’azione didattica più in filigrana. Proprio questa duplice veste, di attore privilegiato della funzione sociale della scuola e di specchio della sua qualità, nel tempo ne ha marcato il significato e ha prodotto una stratificazione di comportamenti e di atteggiamenti negativi nei confronti della valutazione, aggravati dall’indeterminatezza e dalla genericità del linguaggio che accompagna i vari “modelli” dei documenti ufficiali, sperimentali e non. A scuola non si valutano le persone, ma si valutano i percorsi delle persone dentro l’organizzazione, un’organizzazione a parametri costanti in questo caso, che ha il suo costrutto di riferimento nelle sequenze di procedure e di compiti definiti “adeguati” secondo i valori condivisi e praticati al suo interno. Valutare significa infatti “dare valore” ed è azione diversa dal misurare, finalizzata alla rilevazione dei dati attraverso strumenti idonei e processi docimologicamente solidi. Dati che di per sé sono muti e che devono essere interrogati, assemblati, collegati, elaborati per diventare giudizio.  La valutazione è un processo inferenziale, utilizza i dati, li legge come si leggono i sintomi per arrivare a una diagnosi e alla conseguente scelta di intervento. In questo senso diventa momento strutturale della programmazione/progettazione e strumento potente di orientamento per l’apprendimento.  Tutto ciò richiede pensiero forte e pratiche riferite a valori condivisi: se questo manca, diventa ipertrofica la misurazione, le procedure diventano raffinate e complesse, ma non servono a niente. Per passare dai dati al giudizio, occorre riferirsi a processi e a valori condivisi ed esplicitati, perché il giudizio assume valore proprio in relazione a quei processi e a quei valori, superando la dimensione fantasmatica insita in ogni relazione asimmetrica, sia per il valutato sia per il valutatore. Servono però cura e attenzione, perché non ci siano derive ansiogene per il primo o di rivalsa per il secondo: misurare, valutare, certificare devono rispondere a principi di coerenza, di trasparenza e di attendibilità richiesti dall’etica personale prima ancora che dalla responsabilità sociale e dalla norma. Il controllo degli esiti è cruciale nella scuola, ma il controllo è un mero accertamento: il percorso della valutazione è un processo dinamico di continua interpretazione, comprende il controllo ma non si esaurisce in esso. Essendo la valutazione sempre soggettiva, servono tecniche e strumenti validi (capaci di misurare realmente ciò che vuole misurare), attendibili (capaci di rilevare la stessa risposta allo stesso stimolo) e oggettivi (caratteristica questa che riguarda le modalità di correzione e non di costruzione delle prove) che permettano ai diversi attori- studenti e docenti in primis- di condividere il significato di percorsi situati, nei vari momenti e passaggi. Una prova (test, questionario, colloquio) restituisce la fotografia osservabile e descrivibile della prestazione in un momento dato: permette di rilevare informazioni utili e necessarie per orientare/riorientare l’insegnamento e l’apprendimento, ma non esaurisce il processo valutativo. È la partecipazione riflessiva e condivisa che permette alle informazioni e alle comunicazioni di diventare cicli di feedback organici e sistemici. In questo senso le “restituzioni” degli esiti sono relative ma non arbitrarie, perché per mezzo del feedback sono costantemente suscettibili di correzioni, autocorrezioni, revisioni e generalizzazioni. Il confronto critico, serrato e intransigente tra docente e discente diventa occasione di crescita della conoscenza per entrambi e la valutazione- così intesa- lo strumento strategico del processo di istruzione-formazione-educazione nonché la chiave di volta dell’Offerta Formativa della scuola.

2. Valutare per formare e per orientare.

Misurare, valutare, certificare sono processi diversi che rispondono a funzioni diverse, tutte necessarie, tutte interrelate. Della misurazione e della valutazione, aspetti che hanno come attori allievi e docenti, si è già detto. La certificazione, invece, è un atto amministrativo che dichiara il livello di competenza raggiunto al termine di un percorso di istruzione/formazione in un periodo dato. In particolare, la certificazione delle competenze al termine dell’obbligo di istruzione, cioè al termine del primo biennio della secondaria di secondo grado, argomento ostico e complesso sia per le implicazioni didattiche e organizzative, sia per la confusione che ha ingenerato sia, ancora, per la difficoltà che le scuole incontrano a costruire idonei strumenti di rilevazione delle competenze di asse che integrino le competenze di cittadinanza. Il raggruppamento delle discipline in assi culturali richiede il superamento dell’insegnamento settoriale e l’individuazione di criteri rigorosi di aggregazione delle discipline, sul piano dei contenuti, dei processi cognitivi o delle prestazioni. Questo richiede, a sua volta, una rigorosa pratica disciplinare, accanto all’uso integrato dei saperi, delle categorie e degli strumenti settoriali nell’affrontare problemi complessi. Prima di e per arrivare a questo, i Collegi dei docenti sono chiamati a una seria riflessione su “che cosa significhi” valutare le competenze e  su alcuni passaggi critici che qui vengono indicati sinteticamente: con quali criteri aggregare le discipline negli assi culturali; come coniugare conoscenza, competenza, trasversalità, disciplinarità; quale corrispondenza diretta tra discipline e competenze: la stessa disciplina  sviluppa competenze diverse, più discipline sviluppano la stessa competenza, …e via di seguito. Tutto questo con la consapevolezza che la didattica per la costruzione delle competenze non coincide con le pratiche multi-interdisciplinari e che le competenze chiave devono essere perseguite, e quindi valutate, da tutti i docenti. La scuola utilizza le discipline, calibrando i modi e i tempi di insegnamento, per favorire la costruzione delle competenze disciplinari e trasversali necessarie alla comprensione del mondo di oggi e per vivere nel mondo di domani. Questo significa promuovere la cittadinanza attiva e lavorare per lo sviluppo delle competenze chiave che non sono obiettivi aggiuntivi, ma rappresentano una finalizzazione diversa dell’azione di istruzione- educazione- formazione. Un altro aspetto riguarda il coordinamento e la condivisione delle pratiche valutative. L’attribuzione dei voti per le competenze specifiche, riferite al punto di osservazione disciplinare, espresse con i voti e l’attribuzione del “livello” espresso dal Consiglio di classe sugli “assi” che fondano le competenze chiave, come si raccordano e si conciliano?  A livello di disciplina si accertano le abilità, le conoscenze, le competenze specifiche e il loro utilizzo; a livello di asse si accerta la capacità di integrare le diverse competenze disciplinari nell’affrontare compiti o casi complessi. È importante analizzare entrambi i tipi di prestazione per attribuire sia la valutazione disciplinare sia la valutazione di asse. Uno studente potrebbe ottenere buoni risultati nelle prove disciplinari, ma non essere ancora in grado di integrare i diversi saperi. Questo mette in evidenza, ancora una volta, che la valutazione sommativa di asse può essere letta in ottica formativa per impostare gli interventi didattici successivi, siano essi disciplinari o trasversali.

Il giudizio di competenza, infatti, postula non tanto l’integrazione delle discipline ma l’integrazione delle trasversalità degli obiettivi, delle metodologie didattiche e degli “oggetti” di accertamento che possono essere disciplinari, di asse o di competenza. In questo modo si potranno trovare quelle convergenze di linguaggio e di significati che permettono ai docenti di potersi confrontare, da punti di vista disciplinari diversi, sui medesimi oggetti e sulla costruzione dei medesimi processi cognitivi (pensiero critico ad esempio…). Restituire a ciascun allievo un profilo trasparente dei processi di apprendimento in atto, dei punti di forza e dei punti di debolezza su cui riflettere e agire, significa valutare per l’apprendimento perché l’errore è un aspetto fisiologico sia dell’apprendere sia della ricerca scientifica.  Le diverse discipline di insegnamento, che sono e devono restare il fondamento culturale di ogni percorso di istruzione per la promozione delle competenze chiave, fondando in modo epistemologicamente e psicopedagogicamente corretto e trasparente tutto il percorso che va dalla programmazione, alla misurazione, alla valutazione, alla certificazione,  magari convergendo suitipi di prove per la verifica: strumenti che rilevino l’utilizzo del linguaggio specifico, dei concetti, o dei procedimenti o delle categorie disciplinari utilizzati nel lavoro d’aula, per comprendere contenuti o situazioni non note…. Va da sé che indicatori e criteri di valutazione devono essere resi noti agli allievi perché possano orientare l’autovalutazione, l’apprendimento e sostenere il senso di autoefficacia, in modo che, davvero, ogni percorso personale giunga a solidi sistemi di padronanza per esercitare quanto appreso nelle dimensioni metacognitiva e ideativoimmaginativa.

3. La necessità di nuove prospettive.

Le ricerche condotte dall’australiano John Hattie dimostrano che la qualità del riscontro dell’errore, ricevuto dagli studenti, è uno dei fattori determinanti del successo anche accademico; dall’altro lato la definizione chiara degli obiettivi, dei risultati attesi e delle modalità di valutazione, consente agli allievi di autovalutare i progressi graduali senza fare un dramma degli insuccessi. Se prevedere e rilevare l’errore per correggersi sono elementi fondamentali per un apprendimento efficace, il feedback deve essere il più rapido e preciso, il più neutro e informativo possibile per lo studente che impara a pensare l’errore non come a un fallimento ma a un passaggio necessario di ogni evoluzione personale nella costruzione attiva del proprio percorso. La valutazione deve essere allora continua, fatta con strumenti e approcci diversificati, mentre i parametri e i criteri di valutazione devono essere resi noti, da parte dei docenti, sia per garantire la necessaria trasparenza al processo valutativo, sia per essere il riferimento dei processi di autovalutazione da parte degli allievi. Per una diversa cultura della valutazione, che non voglia nuovamente ridursi a una semplice sostituzione del vecchio con espressioni lessicali nuove, la scuola dovrà innanzitutto operare una scelta di campo le cui coordinate possono essere sintetizzate come segue:

  1. con quali strumenti, con quali forme e in quale misura la valutazione può diventare un momento qualificante e determinante nella definizione e nell’organizzazione del curricolo e del processo formativo di ciascuno, per l’incremento della qualità dell’istruzione e in tutto ciò, quali i ruoli dei diversi attori.
  2. Quanto la valutazione deve essere considerata un insieme di tecniche sofisticate di cui si avvale la didattica per registrare, in un momento dato, l’intervallo esistente tra quanto proposto dall’insegnante e gli esiti conseguiti dagli allievi. 

 I limiti di entrambe le posizioni (prese singolarmente) vanno superati attraverso una integrazione, promossa dalla visione di sintesi delle categorie di processo e di risultato, in una prospettiva che va nella direzione del life-long learning. Si compirebbe così quel passo necessario per la configurazione delle scuole come sistemi sociali nei quali le tecniche e le tecnologie svolgono una parte, mentre le persone e le loro azioni mutano reciprocamente attraverso l’interazione continua, svolgendo l’altra parte. L’efficacia più che l’efficienza diventa la chiave di volta e la motivazione profonda del cambiamento, efficacia che dipende in larghissima misura dagli sforzi degli attori e dalla loro reciproca fiducia. Questo approccio complessivo e di riflessione allargata- che riguarda le metodologie, le funzioni esercitate, l’utilizzo degli esiti, le ricadute sui soggetti e sui contesti implicati- è oggetto di una interessante ricerca e di approfondimento da parte di V. Grion e A. Serbati che pongono la valutazione, e in particolare il feedback, come elemento centrale e ineliminabile per indirizzare e strutturare l’innovazione didattica accademica, ma non solo. S. Dehaene, sostiene che “Imparare significa affinare un modello del mondo” (p.31) ed elenca una serie di modi di intendere l’apprendimento che di seguito vengono sintetizzate. Imparare significa regolare i parametri di un modello mentale; sfruttare il potenziale della permutazione; ridurre al minimo gli errori; esplorare lo spazio delle possibilità; restringere il campo della ricerca; fare ipotesi a priori; ottimizzare una funzione di rinforzo. Rispetto a questo ultimo significato, si possono fare molte considerazioni che possono aiutare a comprendere meglio il significato e la funzione della valutazione a scuola. a) si impara in base alla valutazione di un risultato; b) l’apprendimento è facilitato quando nel contempo si agisce e ci si autovaluta in ogni momento e non solo alla fine di un percorso; c) la metacognizione gioca un ruolo centrale nell’autovalutazione e nella costruzione dell’opinione che ciascuno costruisce di se stesso e che condiziona il senso di autoefficacia personale e sociale e apprendimenti. Ci sarebbe molto da dire anche  sulla digitalizzazione delle procedure di valutazione attualmente praticate. Gli oggetti, i “compiti” su cui sono stati formulati i giudizi valutativi sono diventati delle “informazioni”, delle non cose : alunni e docenti si confrontano sui dati elaborati dagli algoritmi forniti dai media digitali e si discute di arrotondamenti, di medie, secondo criteri quantitativi ben definiti. Perché gli algoritmi funzionano così, non conoscono le ambiguità e i semitoni: quel che sarebbe da tenere in sospeso viene scartato e scompare… Questo intendiamo quando parliamo di equilibrare le opportunità di apprendimento? La scuola non è democratica se permette a tutti di entrare e di avere valutazioni mediamente accettabili. È democratica se permette a ciascuno di uscire con un bagaglio di conoscenza che gli consentirà di vivere nel migliore dei modi, consapevole dei propri punti di forza e di criticità in relazione al suo essere individuo unico, perciò differente dagli altri. Questo gap tra tecnica e valori, tra tecnologie e realtà delle esperienze, va governata con saggezza propositiva, scientifica, psicopedagogica e politica, evitando che l’espansione delle competenze computabili riduca l’intelligenza emotiva e situata.

4. La valutazione degli esiti: indicatori di processo, indicatori di risultato, standard formativi.

È  necessario sottolineare che né gli standard formativi né gli indicatori di qualità dell’istruzione sono mai neutri: essi sono solitamente normativi e si rifanno ai modelli teorici focalizzati sui paradigmi della pedagogia, della psicologia e della filosofia, lasciando sullo sfondo il peso delle strutture organizzative, l’influenza del sistema di reclutamento degli insegnanti, le pressioni formali o informali che gruppi di interessi acquisiti mettono in atto … sottovalutando cioè gli effetti negativi di influenze non scolastiche sul rendimento scolastico e considerando le scuole i luoghi dove si trovano studenti e docenti e dove si concretizzano le misure e le disposizioni sulle quali si decide altrove.  La psicologia culturale ha messo chiaramente in evidenza che una scuola non può mai essere culturalmente indipendente: i valori e i disvalori, i sistemi simbolici che costituiscono il clima educativo di una scuola sono determinanti per il modo in cui le capacità della mente vengono sviluppate e utilizzate. È fondamentale, in particolare, come gli studenti vivono la scuola in cui studiano e la posizione che essa assume rispetto alla loro vita, per questo l’educazione non può essere “progettata” come se fosse indipendente perché esiste dentro una cultura che è fatta di pratiche, di relazioni, di valori e di coerenze.  È perciò necessario che tutti gli attori dei percorsi educativi siano protagonisti e partecipi delle concettualizzazioni dei processi che sono alla base, e oggetto, del dibattito. In questa prospettiva gli insegnanti e gli alunni si assumono la responsabilità del profitto scolastico di ciascuno, tendendo prioritariamente alla valutazione dei risultati in quanto tali anziché alla conformità a modelli prestabiliti di prestazione.  Definire gli standard formativi rimanda all’indicazione del punto di uscita dal processo- quando questo può dirsi compiuto- ma ancor prima rimanda alla presenza di indici o criteri di anamnesi e di valutazione del processo stesso.  Gli standard formativi non coincidono con gli indicatori di qualità dell’istruzione, ma gli uni rimandano agli altri nella progettazione e nella realizzazione dei processi, che si realizzano nella scuola, nella direzione dei profili formativi. Per profilo formativo si intende il modo con cui ogni allievo mostra come è riuscito a sviluppare, personalizzandoli, i percorsi proposti in un determinato ciclo di istruzione, in base ai criteri guida che permettono poi di definire i parametri di valutazione sulla cui base analizzare e raccogliere i dati. I parametri sono, quindi, gli strumenti descrittivi attraverso i quali ordinare, rappresentare dati e informazioni: sono cioè, in senso lato, delle regole. Se pensiamo il concetto di standard formativo in riferimento ai sistemi di padronanza e di abilità complesse, occorre fare una riflessione perché le modalità didattiche utilizzate saranno necessariamente diverse, volte a porre gli allievi in condizione di padroneggiare situazioni di apprendimento complesse e multilivello. Situazioni che ogni allievo configura come organizzazione di dati in modelli mentali, percependosi in grado di autoregolarsi e di controllare i propri meccanismi di trasformazione e di trasferimento dei dati da uno schema all’altro, utilizzando la memoria attiva e attribuendo senso e significato a ciò che sta facendo. Impara cioè ad esercitare quanto appreso in dimensione metacognitiva e ideativo-immaginativa, personalizzando quelle situazioni di insegnamento significativo predisposte dagli insegnanti e trasformandole in apprendimenti significativi.

5. Conclusioni.

La valutazione, si può concludere, utilizza un corpo di procedure e di tecniche, ma prima di tutto è un modo di pensare. La scommessa dell’efficacia formativa della scuola si gioca sul superamento della frammentarietà e molecolarità delle proposte, per giocarsi sulla continuità e progressività verticale e orizzontale. I concetti e le categorie interpretative della realtà, ci insegna la scienza cognitiva, non sono date una volta per tutte, ma si sviluppano, si definiscono e ridefiniscono in relazione tra loro, si specificano e si ampliano nel tempo e nei contesti di utilizzo, cioè di vita. Anche la costruzione delle abilità è un processo lungo che richiede una pluralità di contesti e di situazioni di impiego. Per entrambi, è il loro utilizzo in ambiti nuovi e più complessi, opportunamente rinforzato, che ne determina la persistenza e la strutturazione chiara, duttile e dinamica. La trasversalità e la verticalità degli obiettivi e la progressività dei sistemi concettuali sono gli aspetti fondamentali dell’efficacia formativa e la normativa offre, anche se in modo non sempre chiaro, due strumenti per costruirla: il profilo in uscita dello studente e il curricolo. Il profilo in uscita indica la meta comune cui tutti gli insegnamenti dovrebbero tendere, ponendo i principi, i vincoli e gli strumenti culturali indicati negli Assi, gli atteggiamenti, i valori, le visioni nonché i comportamenti e le abilità sociali che vadano nella direzione di una istruzione sostenibile. Ovviamente con questa definizione si intendono le idee che vanno sviluppate e che vanno oltre l’ambiente naturale ma includono l’ambiente sociale. Il curricolo fornisce il percorso, i criteri per la progressione, indica i risultati attesi nei diversi segmenti. Un percorso di istruzione è pienamente formativo ed educativo quando l’allievo raggiunge soglie di padronanza che gli permettono di attribuire senso e significato a ciò che ha imparato, ad apprezzare, a prevedere e a prefigurare verso dove orientare o riorientare le proprie esperienze e conoscenze, personalizzando così lo sviluppo del proprio potenziale. Questo consente agli “apprendimenti significativi” di essere veramente tali, in quanto sono il prodotto della interazione dei diversi modelli che docente e discente mettono in campo per affrontare e risolvere un problema qualsiasi. Questa potrebbe essere la frontiera di una nuova formazione scolastica: produzione, sperimentazione e diffusione dei modelli e dei paradigmi di una nuova cultura che dia il giusto peso alla valutazione come momento di feedback, di sintesi e di propulsione a tutti i livelli. E dove la ricerca didattica “non sia slegata dall’aggiornamento delle nuove enciclopedie dei saperi e delle esperienze professionali” (U. Margiotta, p.4). Senza dimenticare che il concetto di frontiera porta con sé quelli di spostamento e di mobilità.

BIBLIOGRAFIA

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