M. Parodi, La scuola è sfinita

Quella scuola senza fiato…
Note a margine di un libro di Maurizio Parodi

di Mario Maviglia

Nel suo ultimo libro (La scuola è sfinita, La Meridiana, Molfetta, 2022), Maurizio Parodi fa un’analisi spietata e realistica della condizione della scuola italiana di oggi. In sette densi capitoli e una provocatoria Appendice, l’Autore fa una sorta di radiografia del nostro sistema scolastico, mettendone in luce tutte le storture e le disfunzioni che lo caratterizzano. L’aspetto più contraddittorio da rilevare è che a fronte di una precettista normativa che enfatizza “l’impegno ad accogliere bambini e ragazzi con garbo e intelligenza, a riconoscerne bisogni e aspettative, a valorizzare le diversità… e a prevenire il disagio”, la scuola nella sua concreta fenomenologia si presenta invece come produttrice essa stessa di disagio e di diseguaglianze. Esaurita quella funzione di “ascensore sociale” che sembrava poter assolvere negli scorsi anni, oggi la scuola non fa che prendere atto delle differenze d’ingresso degli alunni e restituirle con poche variazioni a conclusione del ciclo scolastico. Ecco quindi che la scuola continua a promuovere chi è “già avvantaggiato per reddito, cultura, latitudine, cure parentali, e respingere chi è vittima della povertà, dell’ignoranza, del degrado affettivo e sociale: non è capace di attuare interventi compensativi (dare di più a chi ha di meno), ma neppure di garantire pari trattamento (dare a tutti in parti uguali); si realizza, piuttosto, il paradosso di un servizio rivolto soprattutto a chi non ne ha particolare necessità (e più ne approfitta)”. Di fatto la scuola è, secondo quanto già messo in luce da Don Milani, come un ospedale che cura i sani e respinge i malati.

E Parodi elenca minuziosamente tutti gli elementi che producono questo paradosso. Innanzi tutto la stessa scuola, intesa come ambiente fisico e relazionale che imprigiona e segrega la dimensione più creativa degli allievi, proponendo percorsi fortemente contrassegnati dal pensiero convergente, dall’uso della memoria più che del senso critico, dalla ripetizione ossessiva dei contenuti. Insomma, “una sorta di satellite artificiale della società nel quale sono relegati gli individui per un addestramento all’esistenza invero estraniante che rifugge la ‘realtà’: si vive una simulazione distorta, una virtualità asettica, dove tutto, o quasi tutto, è artificioso, fasullo, al più verosimile”. È difficile che una scuola così configurata e concepita possa sollecitare l’interesse degli studenti, anzi lo stato d’animo più diffuso è quello della noia, della frustrazione, dell’alienazione. D’altro canto, “lo spazio scolastico, solitamente (soprattutto nella secondaria) anonimo, segnato da un’atmosfera di provvisorietà, di imminente abbandono che ne stempera l’identità: aule “fredde”, grigie e spoglie, corridoi e scale dagli intonaci macchiati e scrostati, muri lordati di graffiti ribelli, di scritte e disegni osceni, di manifesti lacerati” non invogliano a vivere l’esperienza scolastica come qualcosa di interessante ed emozionante. Anzi, “tutto sembra all’insegna del disordine casuale o dell’ordine impersonale, quando non della trascuratezza e dello sporco”.

Ma l’aspetto forse più problematico della scuola italiana è costituito dalle forme con cui viene gestito il processo di insegnamento-apprendimento. Vi è ancora una diffusa tendenza nella classe magistrale (e anche nell’opinione pubblica) a pensare che l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze negli studenti avvenga essenzialmente in forma trasmissiva, secondo un consolidato e tradizionale paradigma che vede il docente come una sorta di dispenser di cultura che riversa sugli allievi. Come efficacemente osserva Parodi, “l’idea sottesa è che per poter imparare si debba essere “insegnati”, che ogni apprendimento debba necessariamente passare per la spiegazione (dell’esperto), che la conoscenza possa essere soltanto trasmessa: è l’ammaestramento più profondo (implicito, subliminale) della scuola. Ma è falso. Impariamo cose importanti e difficilissime anche “da soli”, prima della scuola e fuori dalla scuola, senza che nessuno ce le insegni: impariamo a camminare, a parlare, ad amare… semplicemente (in realtà è cosa di formidabile e suggestiva complessità) interagendo con l’ambiente, che può essere, come è ovvio, più o meno propizio”.

Il modello tradizionale veicolato è invece alquanto semplice: c’è un sapere da acquisire (le discipline), c’è un esperto in grado di trasmettere tale sapere (il docente) e c’è un soggetto che deve acquisire quel sapere (lo studente). In fondo, storicamente la scuola si è sempre caratterizzata in questo modo e la stessa opinione pubblica ha in mente questa concezione della scuola (amplificata dai vari editorialisti che sulla stampa si occupano della scuola). In questo modello “la didattica si risolve nella trasmissione culturale, dall’alto al basso: esiste una cultura codificata, posseduta che si riversa mediante procedure burocratizzate, dunque sottratte al contributo costruttivo e creativo del discente. Una cultura prettamente libresca, indifferente ai problemi della vita, che fa di tutto perché le esperienze personali, gli eventi contemporanei, gli accadimenti sociali non entrino a turbarla, così come le macchie del sole di Galileo non dovevano comparire perché avrebbero messo a soqquadro due millenni di scienza e filosofia, una teologia assoluta e infallibile”.

Il mito della modalità trasmissiva (che trova nella classica lezione la sua apoteosi) fa perdere di vista altre forme di mediazione didattica che non solo si caratterizzano come più attive, ma sono più vicine alle forme di conoscenza dei ragazzi di oggi. Pensiamo ad esempio alle varie forme di lavoro di gruppo, alla dimensione laboratoriale, all’approccio euristico e di ricerca, al problem solving, alla prospettiva della “classe capovolta”. Tutte forme che pongono lo studente al centro del processo di apprendimento che vuol dire “liberarlo da ogni paura, motivare significativamente il lavoro, farne occasione di gioia condivisa da una comunità di compagni che non siano in competizione, che non appaiano tra loro antagonisti, dare spazio alla sua esperienza, valore ai suoi sentimenti, sostegno alla sua ricerca”. Le tradizionali forme trasmissive, così fortemente imbevute e contrassegnate dalla logica della prestazione, fanno perdere di vista la realtà degli studenti per come effettivamente sono e precludono le possibilità di rilevare altri importanti aspetti dei loro stili di apprendimento. Se si indugia su forme di mediazione didattica più attive e coinvolgenti si possono meglio cogliere le varie e complesse sfumature dei modi di apprendere degli studenti, e quindi “apprezzare la sottigliezza della loro ricerca, scorgere la complessità del loro pensiero, condividerne l’impegno a compiere un’operazione nuova, difficile; e lo potremmo fare semplicemente, osservandoli e aiutandoli rispettosamente; conversando con loro, domandando quale sia la loro risposta al quesito posto, magari da loro stessi (scopriremmo le meraviglie di un ragionare sofisticato, immaginifico, spregiudicato, stupefacente), chiedendo loro di cercare la spiegazione, di formulare ipotesi; spronandoli, con sollecitudine, ad accettare la sfida, affrontare il cimento, senza temere l’azzardo”.

E invece si preferisce il consueto e “tranquillo” procedere scandito dalla triade spiegazione/interrogazione-verifica/valutazione. Peraltro, ça va sans dire, in questo collaudato modello “ci si rivolge alla classe come fosse un’entità unica, indifferenziata e non l’incontro (scontro) di identità irriducibili, considerando i ragazzi, le ragazze e gli universi che in loro sono compresi, così come l’intricatissima rete di relazioni nella quale sono profondamente immersi (e talvolta irretiti), come un soggetto o, peggio, un oggetto collettivo anonimo e uniforme”.

E tutto viene diligentemente rivolto a riempire le menti delle giovani generazioni, in un meccanismo che vede nella “quantità” la sua cifra caratteristica. Il “prodotto” della scuola è l’insieme delle conoscenze (nozioni?) che riesce a trasferire negli studenti, in un ritmo convulso e fordistico. “Siamo compulsivi, frenetici, esigenti, quando, al contrario, dovremmo abituarci a “perdere tempo” con bambini e ragazzi. Quello perso è il tempo più proficuo, quello che consente di “ritrovarsi”, di crescere serenamente. Difficile ammetterlo per noi che siamo assillati dal tempo che incalza, che fugge, che non basta mai; eppure i nostri figli hanno bisogno di tempi “distesi”, che consentano a ciascuno di poter tornare a se stesso, di “raccogliersi” (per potersi poi pienamente “offrire”), di sperimentarsi senza il patema della scadenza incombente”.

Tra i tanti altri elementi di riflessione che Parodi ci consegna ne vorrei sottolineare un ultimo legato al tema della valutazione ed in particolare al ruolo giocato dallo studente nel processo valutativo. È noto che nell’immaginario popolare (ma anche in quello magistrale) la valutazione è affare dei docenti, gli studenti sono meri destinatari delle azioni valutative. Ed è pure dato per scontato che la valutazione classifica, sanziona, seleziona e distingue tra studenti che raggiungono risultati adeguati e che quelli che invece finiscono nel limbo-inferno dell’inadeguatezza. Malgrado tutta la retorica sulla “formatività” della valutazione, il nostro sistema scolastico preferisce insistere sulla valutazione come premio/sanzione. D’altro canto, come osserva Parodi, “la cultura docimologica imperante conferisce spessore scientifico, oltre che valore pedagogico, al giudizio unilaterale del docente, esaltandone la valenza diagnostica che si esplica nella somministrazione di prove di verifica, nella compilazione di schede di valutazione, nella formulazione di giudizi, in azioni, cioè, finalizzate all’intervento “sullo” studente, senza mai accertare l’adeguatezza del contesto scolastico, la validità del modello pedagogico, la qualità del processo di insegnamento, la bontà della relazione educativa. Già la valutazione espressa (e impressa) da un numero significa eloquentemente l’aridità di un sistema che rinnega il proprio compito formativo, ma i “giudizi descrittivi”, pur apprezzabili nelle intenzioni di chi meritoriamente li propone in alternativa al voto numerico, non modificano il carattere sanzionatorio, e sovente punitivo, della valutazione scolastica, impresso nella testa di docenti, studenti e genitori e nelle logiche più profonde e inossidabili dell’“apparato”.

Da quanto detto fin qui sarebbe però fuorviante pensare che l’opera di Parodi sia un pamphlet distruttivo del nostro sistema scolastico; in realtà l’Autore lancia i suoi strali contro un certo modo di concepire e di fare scuola, lontano dalle esigenze reali e attuali degli studenti di oggi e, aggiungiamo noi, asservito alle logiche produttivistiche ed efficientistiche del capitalismo neoliberista. In realtà si può, e si deve, coltivare un’idea di scuola diversa, dove viene sviluppato il senso critico e non il pappagallismo nozionistico, dove viene dato spazio alla creatività e al problem solving e non alla mera esecuzione di compiti, dove si coltiva il ragionamento e la dialettica e si accoglie l’errore e non vengono date verità preconfezionate distribuite in pillole quotidiane. Insomma, un’altra idea di scuola è possibile e l’opera di Parodi ne è un esempio. E infatti nel corso del libro vengono indicati numerosi “ricostituenti pedagogici” che segnano strade diverse da percorrere e prefigurano un universo scolastico affatto nuovo, un itinerario di scoperta e realizzazione personale.