La scuola che vede Lodoli

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La scuola che vede Lodoli

di Francesco Scoppetta

Marco Lodoli, scrittore e insegnante, è nato a Roma nel 1956. Tra i tanti libri che ha scritto vorrei ricordare “Italia” (2010), “Sorella” (2008), “I fiori” (1999), “Il vento” (1996), “I professori e altri professori” (2005), “Diario di un millennio che fugge” e “Il preside” (2020). Dal 1985 insegna in un istituto professionale nella periferia sud-est della capitale.

Lodoli è il professore che qualsiasi preside vorrebbe insegnasse nella sua scuola; tra l’altro, come la Mastrocola, non sarebbe neppure frustrato perchè oltre all’insegnamento avrebbe il riconoscimento letterario e il doppio lavoro in questo caso non sarebbe di nocumento al lavoro dentro le aule ma un suo completamento ideale (in genere il secondo lavoro per un insegnante è quello vero e l’insegnamento serve solo per arrotondare le entrate).

Di Lodoli ho riletto un articolo (Il foglio, 9/8/21) intitolato “La scuola che non vediamo” perché mi sembra oltremodo significativo. Non soltanto per la chiarezza dei pensieri e la sincerità delle intenzioni ma anche perché è stato scritto dopo lunghissima esperienza, mentre gli stava per cominciare il suo sessantesimo anno a scuola, probabilmente l’ultimo (è entrato il primo ottobre del 1962 come alunno della prima elementare).  Non mi soffermo sulla parte più letteraria dell’articolo, quando lo scrittore da par suo descrive “come sono fatti secondo lui gli insegnanti: sono strane figure di adulti-adolescenti, una concentrazione misteriosa di due età differenti della vita. Anche se hanno quarant’anni o cinquanta o sessanta, in loro permane una fragilità esistenziale, un’innocenza barcollante che li esclude dal mondo reale dell’adultità”. “La scuola è il nostro regno, fuori di lì, nel mondo reale, tra i veri adulti determinati e spesso insopportabili, non sappiamo come muoverci, cosa dire, cosa fare”. Anche per questo gli insegnanti sono spesso oppositivi e scontenti, speranzosi e delusi, dolci e amareggiati.

Quello che mi interessa di più mettere in fila sono le (testuali) osservazioni-mainstream, quelle che, sia pure in forma compìta e lineare, rappresentano il luogo-comunismo degli insegnanti italiani.

Mainstream  e luogocomunismo

a) Ho incontrato tantissimi professori capaci di una dedizione assoluta alla scuola, dei veri missionari in grado di sobbarcarsi quantità spaventose di lavoro non retribuito, ene ho conosciuti tanti altri – ma meno, molto meno – affranti, demotivati, pervasi dal sentimento grigio della sconfitta, ragazzi canuti e rassegnati.

b) Ho insegnato anche in una scuola dichiaratamente di “recupero”, uno di quei diplomifici che continuano a prosperare fuori da qualsiasi controllo. Sono situazioni delicate, dove si può cadere facilmente nella disistima di sé e degli altri.

c) In uno dei tanti tediosissimi collegi docenti, la preside illustrava dieci corsi di aggiornamento che gli insegnanti potevano scegliere per migliorare la propria didattica.

d) Una cascata di parole sul silenzio. Adolescenti prigionieri delle chiacchiere sapienti ma straniere degli insegnanti. L’insuccesso di due anni in Dad è stato proprio quello di esasperare al massimo la passività degli studenti

e) Nella scuola come altrove, ma più che altrove, è necessario ritrovare una certa semplicità didattica, cercando di accendere le curiosità degli studenti anche grazie a contenuti vivi e a strumenti efficaci.

f) In fondo l’insegnante è come il medico, deve fare il suo mestiere meglio che può e ovunque, in qualsiasi condizione, e io mi sono sempre sentito più convinto e propositivo in mezzo a ragazzi in difficoltà, è come stare più vicini al senso generale della vita.

g) La nostra scuola sembra sprofondare in un bizantinismo burocratico, in una marea crescente di carte da compilare, relazioni da stilare, crocette da apporre in cui è facile affogare. La parola terribile che aleggia tra i corridoi, le aule e la stanza del preside è “ricorso”, preceduta dalla paurosa locuzione “accesso agli atti”.

h) Le straordinarie energie degli insegnanti per lo più sepolte sotto una mole kafkiana di documenti inutili. Tutti hanno in testa solo le incombenze burocratiche. Il modello anglosassone, la vita che si prepara ad essere sostituita dal curriculum.

i) Il documento del 15 maggio, cioè quello che presenta la classe quasi pronta a sostenere l’esame di Stato è un tomo di cinquecento pagine, dove ogni riga può ritorcersi come un serpente velenoso contro chi l’ha scritta, può diventare la sua feroce condanna. Arriverà il presidente di commissione, controllerà tutto, e qualcosa non andrà bene, e poi arriveranno gli ispettori del ministero, e sarà la fine, mostrine strappate, pubblico disdoro e licenziamento: questo è l’incubo di ogni professore.

l) Forse noi sessantenni arrancheremo, ma ho fiducia nei nuovi insegnanti, che sanno come muoversi, se il giogo delle mille astratte adempienze non li schianta.

m) Nella sala insegnanti incrocio giovani colleghi e provo a domandare loro quali autori hanno inserito nel programma di quest’anno, se hanno in mente qualche film o qualche documentario da far vedere agli studenti sulla Lim, la lavagna elettronica, ma nessuno mi sta a sentire, hanno tutti in testa soltanto le incombenze burocratiche, e la spada sopra le teste vibra minacciosa al vento gelido del ricorso sempre possibile.

n) E’ il modello anglosassone, la vita che si prepara ad essere sostituita dal curriculum. Così la scuola rischia di perdere il suo valore formativo, il luogo e il tempo dove lo studente scopre, a volte in una sola ora di primavera, qualcosa di più profondo su se stesso e sull’esistenza.

o) Insisterò con i libri, anche con chi, con aria sconsolata, mi ripete: “Ancora libri professò? Ma nun l’ha capito che i libri so’ robba vecchia, che nun legge più nessuno?…”.

Starnone è stato il primo

Di insegnanti-scrittori a partire da Domenico Starnone ne abbiamo avuti molti e per non far torto a nessuno ricordo solo la Mastrocola e Lodoli. Il primo Starnone si ritrova quando Lodoli ricorda uno dei primi temi che propose: “Bisogna essere assolutamente moderni: commenta questa frase di Rimbaud”, e uno studente al primo banco, uno dei peggiori, dondolando la testa mi disse: “A professò, sta frase nun l’ha mai detta… il film l’ho visto tre volte, e cominciamo a dì che se chiama Rambo e no Rembò”.

Il primo problema della scuola e quello di fondo

Negli anni Settanta era più facile arrivare alla cattedra, oggi tanti giovani colleghi – giovani per modo di dire, hanno più di trenta, più di quarant’anni – combattono strenuamente per ottenere un punto in più in graduatoria, si sbattono tra astratti corsi di formazione e incarichi volanti per raggiungere l’agognata isola della cattedra. Molti si svegliano la mattina alle quattro a Caserta, a Napoli, a Benevento e ancora al buio prendono treni verso Roma, sbarcano a Termini, salgono su autobus e metropolitane per essere alle otto in classe. E finite le lezioni inizia il lunghissimo viaggio di ritorno verso casa, un’anabasi quotidiana che sfianca e deprime, per 1.400 euro al mese, in buona parte consumati in trasporti e panini. Questo è il primo problema della scuola, la formazione e l’immissione in ruolo di forze fresche, maggiormente in sintonia con le trasformazioni del tempo e le nuove attitudini degli studenti.

Il problema di fondo della scuola è quello di riuscire a coinvolgere maggiormente i ragazzi, che ormai vivono dentro modalità comunicative quasi ignote ai loro professori, almeno a quelli – e sono la stragrande maggioranza secondo i dati ministeriali – che navigano oltre i cinquant’anni.

La lezione frontale

Probabilmente l’insuccesso di questi due anni in Dad, certificato dalle disastrose prove Invalsi, è stato proprio quello di esasperare al massimo la passività degli studenti. E però è evidente che la scuola non può essere più una cascata di parole addosso al silenzio, che così cresce solo la noia, il disinteresse, l’apatia, e troppi ragazzi svaniscono nel nulla, abbandonano la scuola per finire chissà dove.

Per anni io ho insegnato spiegando i testi, facendo leggere pagine di autori importanti, cercando di sedurre gli allievi con il fascino delle parole, con quella teatralità un po’ istrionica che credevo indispensabile per coinvolgere e appassionare. Ora la lezione cosiddetta frontale viene considerata preistorica, retaggio di un tempo in cui chi sa spiega e chi non sa ascolta. Acustici venivano chiamati gli studenti dell’antica Grecia, poiché dovevano solo stare zitti e ascoltare. Ma ora tutto questo è impensabile, e me ne accorgo anche io quando sono costretto a rimanere seduto in silenzio per tre o quattro ore durante i collegi docenti: fiumi di parole incomprensibili, di vacue dissertazioni, di intenti velleitari mi si rovesciano addosso e soffro come un cane bloccato come tutti gli altri professori nella mia seggiolina. Aspetto solo che quella tortura finisca. E allora capisco bene la pena degli adolescenti che debbono stare zitti e buoni per l’intera mattinata, prigionieri del loro banco e delle chiacchiere sapienti ma straniere degli insegnanti.

Lodoli legislatore

Ho persino provato a dare il mio contributo alla riforma della Buona Scuola, proponendo la Carta del Docente, cinquecento euro per ogni insegnante da spendere in libri, cinema, musica, e la stessa cifra anche per i diciottenni, e suggerendo di assumere in pianta stabile insegnanti che potessero sostituire gli assenti, il cosiddetto potenziamento, invece di ricorrere a supplenti ballerini. Ma anche questa riforma non è piaciuta, contestata da chi follemente sosteneva che i presidi avrebbero potuto assegnare le cattedre a cognati e cugini.

Adesso, dopo aver destrutturato l’articolo di Lodoli e averlo riassunto per ragioni di spazio, concludo segnalando i suoi pensieri che a me (come preside sono in pensione dal 2015) appaiono quelli oggi più significativi.

La cultura non e’ una materia su cui essere interrogati 

Anche io ho sbadigliato a morte su Poliziano e Parini, quand’ero studente, ma per fortuna ho incontrato un professore, il mitico Walter Mauro, che ogni anno apriva una finestra sulla letteratura più vicina al presente. A sedici anni mi fece leggere Beckett e Ionesco, e qualcosa in me si accese in mezzo a quel turbine di parole che raccontavano l’insensatezza della vita, ma anche il viaggio emozionante del pensiero dentro a quel caos. L’anno seguente mi propose di studiare Majakovski e Esenin, fuochi d’artificio nella notte dell’adolescenza, e l’ultimo anno la nuova letteratura sudamericana, Garcia Marquez, Vargas Llosa, anche Borges, e l’immaginazione volava, si caricava di energie sconosciute, spalancava orizzonti ignoti eppure vicini alla mia confusa sensibilità. Qualcosa allora in me si è sbloccato, ho intuito che la cultura non è una materia su cui essere interrogati cercando di rubacchiare un buon voto, ma un’esperienza conoscitiva, un passo avanti verso se stessi e verso la vita, necessità e libertà, acqua che disseta e bagna nuovi giardini e vaste praterie. Ho capito che la mente di ogni ragazzo è fisiologicamente attratta dal presente, o dal passato prossimo, e che da lì poi si recupera tutto, persino gli autori nati e morti più di mille anni fa.

Finale

Ecco, a Lodoli e a tutti quelli che condividono le sue analisi, vorrei chiedere, molto semplicemente: ma vi pare possibile che nel 2022 al mitico prof. Walter Mauro la scuola italiana dia lo stesso stipendio che dà ad un altro professore che non insegna nulla? Non intendo imbarcarmi nel trito discorso sulla meritocrazia che nella scuola della repubblica italiana venne impostata così con i (ancora rimpianti) contratti sindacali unici: fatto 100 lo stipendio del preside, ai docenti vanno 80 e ai bidelli 60. Chiedo solo se i bravi insegnanti che abbiamo in Italia possiamo ancora mortificarli e se sia giusto che (a parità di condizioni) un dirigente con una scuola di prima fascia possa essere pagato 1000 euro in più (o di meno) al mese a seconda della regione in cui si trova ad operare.

Insomma, si chiede Lodoli, “alla fine cosa ho capito della scuola? In fondo poco, ma è un teatro dove è bello ripetere o inventare uno spettacolo utile e sorprendente ogni mattina. Il mondo va avanti e lentamente lo fa anche la scuola. Io continuerò a proporre letture, a recitarle come un guitto, cercando tanti spunti per far crescere le personalità dei ragazzi, la loro innata creatività”.

Ecco, la scuola-teatro che la maggioranza però chiama scuola-azienda per sommo disprezzo, al suo interno ha risorse meravigliose (qualsiasi ruolo essi svolgano). Però non è più possibile accettare l’appiattimento salariale dei todos caballeros con la scusa che non sia possibile misurare il valore di un docente. La domanda finale che vorrei porre ai Lodoli e a ciascuno di noi che ricorda i migliori insegnanti che il caso ci ha permesso di incontrare è la seguente: ma è possibile che un “mitico” professore debba essere riconosciuto in tutto il suo valore post-mortem, nei ricordi degli allievi, nel privato degli addetti ai lavori, e il pubblico, le istituzioni, l’amministrazione, neghino (come invece succede nelle imprese private) la possibilità di una carriera docente dove i migliori vengano riconosciuti e quindi, si spera, imitati oltre che rispettati?