Quando l’erba del vicino è più verde

Quando l’erba del vicino è più verde

di Maria Grazia Carnazzola

1. Il fascino delle cose che passano rapidamente.

Il rimedio all’imprevedibilità della sorte, alla caotica incertezza del futuro è la facoltà di fare e mantenere promesse”(1964).  

Questa frase di Hanna Arendt potrebbe aiutare noi comuni cittadini a comprendere il perché del forsennato ammassarsi di dichiarazioni di intenti e di promesse da parte dei vari leader di partito, sulle più diverse questioni. Nel contempo dovrebbe ricordare ai rappresentanti dei partiti che il fare prosegue nel mantenere le promesse; già questo ne sfoltirebbe e ridimensionerebbe di molto il numero, o porterebbe a sforzi maggiori per mantenerle. La lingua, tutte le lingue, è strutturata su convenzioni, su accordi tra coloro che la parlano. Può succedere che con l’uso e con il tempo queste convenzioni si alterino e allora bisogna far tornare a “fare aderire le parole alle cose” (Carofiglio 2021) perché è proprio attraverso il linguaggio che si esercitano la mistificazione e la manipolazione. Lo stiamo vedendo nel corso di questa campagna elettorale arruffata e confusa dove, si ha l’impressione, il dialogo avviene tra gli schieramenti di partito piuttosto che con i cittadini, su questioni che forse non sono al centro dell’attenzione degli elettori e che non rappresentano la situazione del Paese reale, ponendo problemi che, se  le normative già  vigenti fossero correttamente attuate e coordinate, non sarebbero tali. “Vogliamo che il ciclo scolastico sia ridisegnato sul modello dei Paesi avanzati”. Così il segretario del Pd. L’erba del vicino è sempre più verde evidentemente. Ma quali sono questi paesi e avanzati rispetto a che cosa? Economicamente, sul fronte dei diritti umani, dei diritti civili, dei diritti sociali, dei valori…?  Con quali obiettivi, mezzi, metodi, partendo da dove? La crisi educativa – che non origina certamente dentro la scuola- genera lo sfilacciamento sociale e mina lo stato di salute della democrazia, in questo   il leader del Pd ha ragione. Senza dubbio il sistema scolastico nazionale ha bisogno di un cambio di passo e non da ora. Basterebbe dare un occhio agli esiti delle indagini OCSE-PISA, e prima ancora a quelle della IEA a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, per rendersene conto. Il nodo della questione è capire se più tempo a scuola, cominciando obbligatoriamente a tre anni per tutti, e terminando a 18 anni (ma la maturità è posta a 19), risolverà i problemi. Il tempo è una variabile importante nell’esistenza umana, è una variabile fondamentale per l’apprendimento, ma il tempo senza l’azione non produce molto. Allora più tempo a scuola per fare che cosa; senza una diversificazione progettata e finalizzata dell’azione in relazione alle fasi di sviluppo diventa un “pour parler”, una promessa elettorale, appunto. 

2. Le promesse e la realtà. 

Da più di vent’anni siamo alla ricerca della riforma perfetta, per una scuola  che sia volano della crescita economica,  della promozione sociale, inclusiva, moderna, colta, innovativa:  il ministro Berlinguer- con l’autonomia e la legge 30/2000 ( mai attuata) che prevedeva- tra l’altro- l’ultimo anno della scuola materna  come preparatorio alla primaria; il completamento di De Mauro “Indirizzi per la costruzione del curricolo” 2001; il “punto e accapo” della Moratti, Legge Delega del 2003; poi il cacciavite di Fioroni  del  2007, il riordino della Gelmini -2008,2010- e via ancora fino alla 

L.107/2015 e ai  conseguenti decreti attuativi del 2017, tra cui il n. 65 riguardante- da sottolineare- il  “sistema integrato di educazione e istruzione 0-6 anni”. È il fascino poco decifrabile delle cose che passano rapidamente, a volte senza nemmeno lasciare traccia o lasciandola così tenue e confusa che è impossibile ritrovarne la matrice. Passano anche le cose che riguardano l’educazioneformazione-istruzione: si polemizza su qualche aspetto, quasi mai fondamentale, che polarizza il dibattito e accende gli animi in dibattiti sterili e con modi sgangherati,  poi dopo qualche mese a malapena si ricordano gli attori e l’oggetto del contendere, bruciati nel fuoco delle novità, costantemente alimentato. Che anche il paradigma che caratterizza la scuola sia quello della provvisorietà, coerentemente con tutto il resto? Sarebbe terribile, ma è evidente la mancanza di un sistema condiviso di valori di riferimento. Pare che, per la scuola, i partiti siano sempre in posizione di perifrastica attiva: siamo sul punto di…, stiamo per…, abbiamo intenzione di…. Quale sistema, quale linguaggio ha maggiore rilevanza nella circolazione delle idee e nell’orientamento dei costumi, nel modellare i comportamenti? Molte idee e molte parole sono meglio di poche idee e poche parole, questo è vero. Resta però il fatto che ogni espressione della cultura dura poco e difficilmente riesce a strutturarsi e a consolidarsi. Nella scuola un’interpretazione viene quasi immediatamente scalzata da un’altra; una proposta quasi subito sostituita da una proposta diversa e spesso contraria- entrambe non sempre riconducibili a una teoria – entrambe con un’incerta relazione con le finalità, i bisogni o anche solo con gli interessi. Si dice, e probabilmente è vero, che la formazione è la condizione irrinunciabile per risolvere i problemi di una società e garantirne lo sviluppo, ma non è pedagogicamente corretto investire esclusivamente sulle situazioni che si presentano come contingenti o di emergenza. Benedetto Croce sosteneva che “…Un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi storicamente dato e prepara le condizioni per la posizione di altri problemi” Dovrebbe valere anche per le riforme scolastiche. 

3. Obbligo, dovere, doveri, responsabilità.

 Dal secondo dopoguerra ad oggi più di trenta proposte di riforma del sistema scolastico si sono perse nei meandri delle discussioni e dei cavilli politici, senza giungere all’approvazione. Poi, nel breve spazio di tre anni, ci sono state due Riforme: L.30/2000 Berlinguer-De Mauro, Ld. 53/2003 che, più che  rappresentare la riscoperta della centralità della scuola o la manifestazione dell’efficienza politica nell’adeguare l’offerta formativa e l’ordinamento scolastico alla rapidità dei cambiamenti del  tempo, hanno proposto due visioni, due universi di valori culturali ed educativi per certi versi inconciliabili: dal ruolo dei saperi, all’obbligatorietà della scuola dell’infanzia alla professionalizzazione dei licei o alla licealizzazione degli istituti tecnici e professionali, dall’architettura dei cicli all’uso dei libri di testo, dalla cultura aulica e disinteressata alla cultura orientata ai saperi pratici e applicativi. La scuola è un bene pubblico e come tale deve essere pensata, gestita e considerata. Un bene pubblico prevede mete condivise che trascendono l’interesse individuale, o di partito, e privilegia l’interesse collettivo. È qualcosa di comune, uguale per tutti e che considera tutti uguali. Ma chi decide qual è il bene comune? In una società pluralistica non può esistere una sola idea di bene pubblico, così come non può esistere una sola idea di scuola. Ecco perché, se si vuole davvero rifondare il sistema di educazione-istruzione-formazione e dar corpo a una scuola che raccolga le sfide della contemporaneità e dia respiro al futuro, c’è bisogno di un patto sociale, della condivisione dei principi e dei paradigmi che connoteranno il sistema scolastico che sarà, gestito su una linea di   continuità  dall’alternanza degli schieramenti politici, fino a che saranno proficuamente praticabili. Un patto costruito partendo dai problemi e dal confronto sull’efficacia delle soluzioni: partendo dai valori di riferimento – i traguardi ideali su cui si regge la coesione sociale -, passando per i problemi e per i bisogni, per finire con le risposte da dare.

Da lì si potrà poi partire per delineare l’impianto pedagogico-culturale dei percorsi (Indicazioni Nazionali, Linee Guida) e definire l’architettura organizzativo/temporale dell’intera impalcatura (Ordinamenti), riflettendo sulle questioni legate all’obbligatorietà di frequenza, sulla differenza tra obbligo e dovere e, ancora, sull’idea di scuola che si vuole proporre. Una scuola da intendere come somma dei suoi membri (studenti, docenti, dirigente, personale ata e genitori), una scuola di individui che rispecchia una società di individui, la cui azione è la somma dei comportamenti e delle azioni dei diversi attori, dove gli interessi legittimi del singolo prevalgono su tutto. Oppure una scuola come organizzazione istituzionalizzata che costruisca un’identità di regole per integrarsi come attori con ruoli diversi in una comunità fondata sui diritti del “servizio”, dove i diritti degli studenti vengono prima degli interessi legittimi del personale e dei meccanismi incomprensibili alla logica comune e a quella del servizio pubblico. Occorre una trasformazione profonda del pensiero politico-culturale che pensi a una scuola autonoma come organizzazione nazionale di servizio, per un’offerta formativa di qualità. Chi parla di riformare il sistema scolastico non può non sapere di risorse giuridiche o delle dinamiche relative alla buona funzionalità del servizio. In una organizzazione complessa a legami deboli come è la scuola, i rapporti di potere reali non rispecchiano la struttura dell’organigramma. Il dirigente, gli insegnanti, il personale amministrativo, gli studenti, i genitori, i rappresentanti sindacali, gli amministratori locali, dispongono di un potere di condizionamento, anche se non sempre fondato logicamente e formalmente, nelle aree di incertezza che a scuola sono molte. Un dirigente, senza la piena cooperazione di tutti, difficilmente raggiunge gli obiettivi istituzionali. Chi vuole assumere la guida di un Paese, di questo deve avere contezza se non si vuole che il conflitto ideologico si sposti dalle aule parlamentari e dall’arena culturale, dove sono necessari ed è giusto che stiano, dentro le scuole che il cambiamento devono attuarlo. Quanto è successo con la L. 107/2015, ad esempio, è stata una grave responsabilità politica e sindacale; le democrazie mature tutelano e salvaguardano la funzionalità civile delle istituzioni; il che esige- dopo la proposta e il confronto- la costruzione del consenso, confinando la soluzione dei conflitti nelle sedi opportune. Guardare agli altri Paesi può essere più che utile e necessario, se insieme all’analisi degli ordinamenti e dei curricoli si ragiona sull’organizzazione interna delle istituzioni scolastiche, sulla distribuzione dei poteri e delle responsabilità, sull’intera architettura del sistema scolastico- valutazione dei risultati compresa-, sul contesto sociale, politico e culturale nonchè sulla rilevanza che la formazione riveste. In Finlandia, uno dei paesi a cui si guarda  spesso, il sistema di istruzione viene riformato regolarmente ogni dieci anni; l’attuazione della riforma è garantita da una sperimentazione obbligatoria supportata da specifica formazione degli insegnanti. E’ evidente che i buoni risultati nelle prove OCSE di quegli studenti non sono riconducibili solo agli ambienti colorati, gli spazi aperti, alle attrezzature, alle tecnologie. I docenti finlandesi godono di grande riconoscimento; fare l’insegnante è una professione ambita perché gode di grande prestigio sociale, nonostante un sistema di reclutamento molto selettivo, il lungo periodo di formazione teorica e di praticantato, il rigoroso sistema di valutazione del servizio prestato.

Ricordando che l’entrata in vigore dei Nuovi Programmi per la Scuola Elementare del 1985 fu accompagnata da un Piano Quinquennale di Aggiornamento obbligatorio per i docenti (!) come sperimentazione di accompagnamento che portò grande innovazione, chiedo quanta qualità e quali miglioramenti e quali innovazioni apporterebbe alle nostre scuole la sperimentazione delle norme già vigenti. 

4. Concludendo.

Se non si migliora la qualità della scuola, qualsiasi proposta di cambiamento- anticipo dell’obbligo alla scuola dell’infanzia, prolungamento dell’obbligo di istruzione (ora a 16 anni) o quello dell’obbligo di formazione (ora a 18)- non si riuscirà a contrastare efficacemente l’abbandono scolastico, che nel nostro Paese è nettamente superiore rispetto alla media europea, né a innalzare il livello degli esiti in uscita alla fine dei percorsi. Nella scuola il cambiamento assume due forme: la riforma e l’innovazione. La riforma riguarda una modifica radicale del sistema scolastico o di una sua parte, discende da una pianificazione politico/amministrativa, viene consegnata alle scuole. Per innovazione si intende il miglioramento continuo di parti delle realtà scolastiche: modifiche  della didattica, organizzative, culturali, pedagogiche… volte a migliorare e a rendere il servizio efficace; rinvia al paradigma della ricerca/sperimentazione ed è un processo intenzionale che riguarda le singole scuole. Già Scurati notava “…l’esperienza italiana presenta una netta prevalenza di situazioni di riforma rispetto a situazioni di innovazione” (1988), come a sottolineare la tendenza della nostra tradizione ad attendersi che l’innovazione segua la riforma invece di prepararla. Una riforma dovrebbe diventare innovazione nei contesti scolastici e questa, attraverso processi sistematici e sistemici di valutazione, preparare la riforma successiva.  In un sistema scolastico dove manca una seria cultura della valutazione dei risultati di apprendimento, del raggiungimento misurabile degli obiettivi, dell’insegnamento, dell’organizzazione del servizio e della valorizzazione flessibile delle risorse, la dispersione continuerà ad essere un evento fisiologico e non patologico.

G.A. Stella scriveva nel 2008 “…se va male la scuola…va male l’intera società…Ed è lì che vedi come una scuola alla deriva sia lo specchio di un Paese alla deriva”.  Il dibattito sulle istituzioni formative, in particolare sulla scuola, si intensifica ciclicamente, anche in questo periodo pre-elettorale; non sempre, purtroppo, le riflessioni portano contributi costruttivi per un possibile sostanziale cambiamento, non è solo questione di come utilizzare i fondi del PNRR. Se è evidente che la scuola rispecchia la crisi della famiglia e della società, è altrettanto evidente che è necessario ripensarne l’organizzazione in rapporto più dinamico e sinergico con la famiglia, con il territorio e con il contesto sociale. Questo è un problema politico: una nuova scuola sta dentro un progetto politico, a un sistema giuridico, a un’organizzazione amministrativa. Ma è fondamentale che l’opinione pubblica prenda coscienza che la scuola va messa al primo posto se si vuole uscire dalla crisi che è sì economica, ma è anche culturale, sociale, valoriale.

Servono idee nuove che veicolino una nuova visione del mondo, della vita, delle storie personali e sociali. Idee nuove nella scuola, nell’organizzazione dei servizi, delle istituzioni, nelle risposte alle persone per lo sviluppo di nuovi percorsi della conoscenza, della convivenza, della vita. Idee nuove non significa idee alla moda, le idee nuove non vengono dal nulla ma sono il risultato di una combinazione di idee già esistenti, vagliate attraverso i risultati nel tempo e nelle circostanze.

RIFERIMENTI

Arendt, H., (1964), La banalità del male, Adelphi, Milano, Feltrinelli.

Carofiglio, G., (2021), La nuova manomissione delle parole, Feltrinelli Editore.

Scurati, C., (1988) Innovazione e formazione: esperienze e riflessioni critiche, in M.L. Giovannini; La valutazione delle innovazioni nella scuola, Cappelli, Bologna.

Stella, G. A.- Rizzo, S., La deriva, Edizioni Rizzoli Milano.