Le ultime sulle sanzioni disciplinari ai docenti

Le ultime sulle sanzioni disciplinari ai docenti

di Francesco G. Nuzzaci

Nell’articolato – e volutamente dilatato – calendario predisposto dall’ARAN sul rinnovo del CCNL di comparto è ritornata sulla scena, il 7 settembre u.s., la stucchevole telenovela delle sanzioni disciplinari irrogabili ai docenti.

Giusto intendimento dell’ARAN era quello di risolvere l’eterno assetto provvisorio della materia; che dopo due rinvii – art. 91 del CCNL 2006/2009 e art. 29 del CCNL 2016/2018 – dovrà pure, alla buonora, allinearsi – secondo risalenti e finora disattese disposizioni di legge – alla comune normativa civilistica, quale strumento di gestione del datore di lavoro (artt. 5 e 25 del D. Lgs. 165/2001), sia questi un soggetto privato o una pubblica amministrazione, l’unica differenza consistendo nella facoltatività di attivarsi nel primo caso e nell’obbligatorietà nel secondo: beninteso, qualora si versi in presenza di fatti ritenuti di rilevanza disciplinare e sempre nel rispetto delle procedure legali e pattizie per evitarsi abusi e per tutelare il lavoratore che si trova in stato di soggezione.

Ma, come previsto, le sigle sindacali hanno riproposto il consolidato copione che disconosce le disposizioni di legge (anche nei confronti del personale ATA) nel punto in cui attribuiscono al dirigente scolastico il potere di irrogare direttamente tutte la sanzioni fino alla sospensione dal servizio e dallo stipendio per non più di dieci giorni, non essendo accettabile – dicono – che confluiscano nello stesso soggetto più poteri: accertare i fatti, raccogliere testimonianze, avviare il procedimento disciplinare formulando i capi di accusa, sentire le varie parti coinvolte all’interno del contraddittorio e in esito al medesimo comminare la sanzione ovvero archiviare il procedimento.

A ciò osterebbe – sempre secondo loro –  l’obbligato rispetto della libertà d’insegnamento, costituzionalmente tutelata e che – pare di capire – al massimo sopporterebbe il potere della controparte datoriale di infliggere il rimprovero verbale, come avviene per i dirigenti delle altre amministrazioni pubbliche, per il resto subentrando la competenza degli appositi uffici esterni per i procedimenti disciplinari e con il previo filtro di un istituendo organismo di garanzia (che la legge non solo non lo prevede, ma lo esclude esplicitamente ex art. 55, comma 3 e art. 55-bis, comma 9-bis del D. Lgs. 165/2001 e s.m.i.).

Fa specie, ma non più di tanto, che non ci si fidi dei dirigenti scolastici – che pure in altra sede le stesse sigle sindacali rappresentano – poiché avrebbero lo strumento disciplinare facile, come testimoniato anche da “recenti fatti di cronaca, che hanno visto perseguiti ingiustamente dei docenti nello svolgimento delle loro attività didattiche” (dal sito www.flc cgil.it del 07.09.2022).

Ma quel che appare una inaccettabile grossolana mistificazione tutta ideologica è il radicale fraintendimento della libertà d’insegnamento, pretesa come diritto soggettivo assoluto, sì da non tollerare qualsivoglia intrusione nella propria sfera giuridica (ius excludendi alios), mentre – all’opposto –  è essa qualificata come funzione (art. 395, D. Lgs. 297/1994) e così ribadita nell’articolo 27 del CCNL 2016-2018, comparto Istruzione e Ricerca: vale a dire, un complesso di facoltà che combinano diritti e doveri, obbligatoriamente – e in modo corretto, altrimenti consumandosi un abuso, giuridicamente sanzionabile –  esercitabili per la realizzazione di un diritto altrui (dell’alunno o studente di essere educato, formato, istruito: art. 1, comma 2, D.P.R. 275/1999, Regolamento dell’autonomia). Quindi da svolgersi entro le coordinate poste dalla legge e in conformità delle conseguenti decisioni collegialmente adottate, essa agendosi, e circoscrivendosi, nell’attuazione di un progetto formativo già definito nelle sue direttrici di fondo, sia negli aspetti didattici in senso stretto che nei profili latamente organizzativi, nel Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF).

È questa libertà d’insegnamento, correttamente intesa, che già è tutelata nell’articolo 25, comma 3 del D. Lgs. 165/2001 e in senso più ampio e generalizzato nell’articolo 7, comma 2 dello stesso testo normativo.

Pertanto, alla stregua del suddetto progetto formativo, la libertà d’insegnamento – nel suo concreto esercizio –  può e deve essere rendicontata e apprezzata, alla pari di ciò che avviene nello svolgimento di ogni funzione agita nelle amministrazioni pubbliche. E in ragione di ciò non è affatto preclusa al dirigente scolastico – rappresentante legale e responsabile della gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali e dunque dei risultati del servizio: art. 25, comma 1, D. Lgs. 165/2001 – la cognizione dei contenuti e dei modi in cui l’insegnamento è stato impartito (anzi, ciò è un suo dovere, quale primo garante del diritto dell’alunno/studente alla prestazione).

Sul punto la giurisprudenza, risalente e mai smentita, resta concorde nel reputare di spettanza del responsabile dell’istituzione scolastica “il potere di accertare e valutare, sulla base dell’esperienza concreta e dei risultati raggiunti dal docente, il grado di efficacia del metodo seguito” (Consiglio di Stato, sez. VI, 22.12.1966, n. 297), dato che “la libertà d’insegnamento non implica l’insindacabilità in ordine ai metodi didattici, che devono assicurare comunque l’efficienza del servizio dell’istruzione in vista del raggiungimento degli specifici scopi educativi per cui essa è organizzata” (Consiglio di Stato, 01.06.1971, n. 405 e 06.05.1969, n. 207).

Rimane comunque pacifico – ma evidentemente non per i sindacati di comparto –  che i docenti non possono rivendicare la libertà d’insegnamento e/o l’autonomia tecnico-professionale a giustificazione di inadempienze, legali e contrattuali, che fungono, per così dire, da corredo alla prestazione tipica; tal che non può esserci nessuna copertura che mandi esente da responsabilità disciplinare – e, ricorrendone i presupposti, penale e civile – chi si assenta ingiustificatamente, chi non compila i registri, chi non adempie agli obblighi di vigilanza della classe, chi si dimostra negligente nell’espletare le proprie mansioni, chi assume comportamenti scorretti verso i colleghi o gli utenti, chi arriva a scuola – più o meno sistematicamente – in ritardo, e altro ancora.

Tanto puntualizzato, resta il fatto che, secondo una oramai inequivoca giurisprudenza della Corte di cassazione (da ultimo, ordinanza n. 23524 del 27.08.2021), la novella al D. Lgs. 150/2009 (c.d. Riforma Brunetta) recata dal D.  Lgs. 75/2017 non ha modificato la disciplina sostanziale delle sanzioni, avendo solo ribadito per i dirigenti scolastici l’astratto potere di disporre direttamente la misura massima della sospensione dal servizio per non più di dieci giorni, con l’ulteriore specificazione – rispetto alla preesistente disciplina – che essa concerne l’intero “personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario”; mentre è certo che  questa prerogativa non sussiste più per tutti gli altri dirigenti pubblici, che devono ora limitarsi al solo rimprovero verbale e a segnalare al competente Ufficio per i procedimenti disciplinari i fatti stimati meritevoli di più gravi sanzioni.

Si tratta allora di inserire nel CCNL, come correttamente ha prospettato l’ARAN, anche per i docenti una sanzione disciplinare tipica della sospensione dal servizio fino a dieci giorni, unitamente alle altre sanzioni c.d. privatizzate e tutte sostitutive di quelle pubblicistiche figuranti nel Testo unico della scuola (D. Lgs. 297/1994). E il non farlo significherebbe continuare a disattendere la volontà di una legge dello Stato: esattamente quello che vogliono – e lo hanno apertamente dichiarato – le sigle sindacali del comparto, riproponendo in via pregiudiziale la totale indisponibilità a definire la materia qualora dovesse permanere il vincolo della legge Madia (art. 55-bis, comma 9-quater del D. Lgs. 165/2001, come novellato dal D. Lgs. 75/2017), previsto peraltro solo nel comparto scuola, che assegna al dirigente scolastico la competenza ad irrogare la sanzione disciplinare fino a dieci giorni di sospensione, mentre in tutti gli altri comparti pubblici l’irrogazione di tale sanzione è affidata a un apposito ufficio per i procedimenti disciplinari. Ne deriva – concludono – l’inopportunità di definire un codice disciplinare che, in assenza di un’auspicata modifica del quadro normativo, non potrebbe tener conto debitamente delle particolarità e specificità del lavoro docente, a cui va garantitapienamente la libertà d’insegnamento.

Dunque, ancora una volta, non se ne farà nulla. Sicché dovrà essere a breve il nuovo ministro dell’Istruzione – che voglia e/o che sia in grado di fare il ministro – a dover promuovere un intervento legislativo che introduca nell’ordinamento la sanzione disciplinare tipica e autonoma della sospensione dalservizio fino a dieci giorni, sempreché non si accetti supinamente di continuare a far dipendere l’attuazione di leggi dello Stato dalla mera volontà delle organizzazioni sindacali e alle condizioni dalle medesime imposte.