La varianza

La varianza

di Francesco Scoppetta

Roberto Ricci, presidente nazionale di Invalsi, ha illustrato a Catanzaro i dati riguardanti la Calabria. “Essi  individuano difficoltà a partire dalla scuola media, ovviamente non in tutte le scuole e in tutte le realtà, mentre l’obiettivo è arrivare a fornire a tutti gli studenti quantomeno una buona preparazione di base. Abbiamo visto che in alcune situazioni le competenze di base non sono adeguate”. Le difficoltà maggiori riguardano apprendimento e comprensione di matematica e inglese, come d’altra parte era atteso, con uniformità distribuite in tutte le province. Ora, a livello nazionale il PNRR ha destinato ben 1,5 miliardi di euro alla riduzione dei divari territoriali “per quanto concerne il livello delle competenze di base (italiano, matematica e inglese) e per sviluppare strategie per contrastare in modo strutturale l’abbandono scolastico”. Sono stati già ripartiti i primi 500 milioni di euro destinati a 3.200 scuole e sicuramente, oltre i fondi già stanziati, sarebbe anche importante rafforzare la valutazione delle scuole per sostenere i loro piani di miglioramento e favorire il confronto costruttivo tra realtà simili, anche se non vicine.

Ma detto questo, sono le scuole a dover mettere a fuoco uno solo concetto, quello di “equità”, un concetto che può essere declinato e misurato in indicatori da sottoporre a verifica periodica, dalle quali scaturirà una terapia efficace per correggerli se necessario. Che poi è quello che ognuno di noi fa per la sua salute quando dopo le analisi scopre qualche valore fuori norma. 

Quando facevo il preside avevo un’assistente amministrativa che ogni anno si prendeva la briga di compiere un’operazione (non so da chi l’avesse appresa) meritevole per costruire l’equità tra le classi. Divideva i nuovi iscritti sulla base dei voti ottenuti nelle materie importanti alla fine della terza media e creava dei gruppetti, i bravissimi, i bravi, i sufficienti, i ripetenti, ecc…Pertanto le prime classi le formava inserendo in ciascuna di esse tutti i gruppetti. Cosa voleva evitare? E’ semplice, classi formate solo da bravissimi e bravi, e altre composte da sufficienti e ripetenti. Allora, si era negli anni novanta, le scuole superiori riuscivano a formare classi prime così congegnate, non era ancora forte la pressione dei genitori che oggi  iscrivono il figlio a scuola a condizione che capiti con quel determinato docente ed eviti quell’altro. Insomma, dare a tutti le stesse opportunità (equità) di conseguire le competenze di cittadinanza fondamentali vuol dire formare delle classi eque e non le classi “ghetto” e le “classi dei migliori”.

La patologia (v. Paolo Mazzoli, Giuntiscuola, 20/7/22) può rinvenirsi nella “varianza” (indicatore statistico di variabilità)  dei risultati rispetto alla scuola e alla classe. È un parametro percentuale che esprime la fortuna di un alunno di essere capitato in una certa scuola o in una certa classe, che gli hanno consentito di migliorare i suoi risultati. E’ chiaro per tutti che in una città ci sono quartieriresidenziali e quartieri ghetto, e quindi vi sono scuole “isole felici” e altre malandate. Se in una classe o in una scuola, per ragioni legate al territorio o per scelte sbagliate nella formazione delle classi, si concentrano tutti i ricchi e/o i bravi, mentre in un’altra classe o scuola si concentrano i poveri e/o gli asinelli, i risultati finali (e le prove Invalsi) lo registrano. L’affermazione naturalmente non è assolutaperchè poi ci sono anche scuole migliori o peggiori del loro contesto ambientale a riprova che l’uomo non subisce mai passivamente il contesto in cui opera. 

Ad ogni modo tutti sappiamo che il gruppo dei pari influenza il rendimento scolastico degli alunni verso l’alto o verso il basso e che le cattive o le buone abitudini di ciascuna scuola attraverso l’esempio e l’emulazione formano studenti (e docenti) più o meno preparati. Il problema dell’equità, se lo si vuole affrontare, sta tutto nel riuscire a misurarlo. E quindi occorre un termometro eun misuratore della pressione, occorrono cioè gli strumenti per misurare in modo preciso (e non ad occhio) la variabilità.

Il difetto di equità (tra le classi e le scuole) si osserva già nei dati della scuola primaria e si moltiplica via via che si sale nei gradi superiori. I dati Invalsi, per esempio, ci dicono che “un alunno della Campania potrà cavarsela a scuola soprattutto se ha la fortuna di andare nella scuola giusta. Questa fortuna, il più delle volte, dipende dalle informazioni di cui dispongono i genitori e dalla possibilità di portare i propri figli nelle scuole migliori. Parliamo di una sorta di “bonus scuola” che può far aumentare, da solo, dal 25% al 40% la qualità dell’apprendimento scolastico. Ma anche la variabilità per classe è piuttosto consistente. In questo caso il “bonus classe” va dai valori poco preoccupanti delle regioni del centro nord (compresi tra il 3% e l’8%) a valori ben più rilevanti nel Mezzogiorno che superano il 20% ” (P. Mazzoli).

L’“indice di immobilità sociale” è un altro dato che diminuisce l’equità ed ha a che fare con il titolo di studio dei genitori. Un genitore laureato fornisce generalmente ai propri figli maggiori opportunità di un genitore col diploma di terza media, e quindi la scuola deve essere in grado di compensare i limiti del contesto di provenienza. Se si formano classi dove gli alunni sono tutti figli di laureati e altre dove tra i genitori non vi sono professionisti (anche se la laurea di per sè non fa conseguire un reddito maggiore) la variabilità può presentarsi. I tanto bistrattati test Invalsi  dimostrano bene che il vantaggio degli alunni con almeno un genitore laureato si fa sentire già nella scuola primaria e, quel che è peggio, aumenta fortemente nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Nella scuola superiore poi le tre tipologie di scuola (liceo, tecnico o professionale) diversificano le aspettative e inoltre gli studenti con maggiori difficoltà iniziano a lasciare la scuola già dalla prima classe.

Si pensi solo alla scuola primaria, “per la competenza nella comprensione del testo (italiano), gli alunni che hanno il genitore più istruito con la licenza elementare conseguono un punteggio che è inferiore di 28 punti rispetto alla media nazionale considerata pari a 200 (-14% che si riduce a -11% nel caso in cui almeno un genitore sia in possesso della licenza media). È decisamente tanto”.

Pertanto può essere molto utile l’uso dei microdati che Invalsi restituisce ogni anno alle scuole, per individuare in ogni classe  tutti gli alunni collocati al di sotto di un determinato punteggio. 

Ora, se l’elemento centrale da tener presente è il diverso supporto che gli alunni più deboli possono avere dalla famiglia, a me pare che le ore aggiuntive o i corsi di recupero pomeridiani abbiano in parte mostrato tutti i loro limiti. Parlo delle scuole superiori dove le lezioni pomeridiane sono effettuate dai docenti non sulla base delle oggettive esigenze dei loro alunni ma sulla base della loro disponibilità. E’ chiaro che un professore commercialista il pomeriggio vorrà lavorare nel suo studio e quindi tenderà a mettere la sufficienza a tutti per dimostrare che non c’è bisogno di corsi di recupero.

Inoltre se l’alunno Tizio non va bene in matematica con il prof. Caio, è tutto da dimostrare che ore aggiuntive affidate sempre a Caio possano migliorare le prestazioni. Lo stile di insegnamento  andrebbe anche preso in considerazione in presenza di alunni deboli, senza replicarlo di mattina e di pomeriggio.  La scelta che a me pare decisiva è un cambiamento radicale dell’insegnamento-apprendimento, basato ancora in Italia su lezioni frontali al mattino e compiti assegnati da svolgere a casa al pomeriggio. Lo studio pomeridiano  a casa resta l’incognita, il vero problema che, come abbiamo visto, incide sulla variabilità. 

Nel senso che un docente non sa dove l’alunno trova difficoltà, non sa quanto studia e come studia. Lo scoprirà, in parte, quando lo interrogherà o con le verifiche scritte. La condizione sociale degli alunni diventa dunque rilevante per lo svolgimento dei compiti a casa, che andrebbero progressivamente svolti a scuola attraverso una scuola che cambi orari, tempi, intervalli, e si protragga al pomeriggio. Insomma, nell’orario di ogni insegnante andrebbe inglobato il tempo delle spiegazioni ma anche il tempo degli esercizi, di modo che quando gli studenti lasciano la scuola sia finita la loro giornata scolastica. Solo se, come avviene per le lezioni private, il docente capisce “come” studia un suo alunno, lo può correggere, consigliare, sorreggere. E quello che fanno gli istruttori sportivi, non è che un maestro di tennis o di sci svolge in aula le lezioni teoriche e poi lascia da soli gli allievi ad esercitarsi. Fin quando lo studio personale a casa resterà invisibile e sconosciuto ai docenti, i quali chiedono ai genitori (ma suo figlio quanto studia, come studia, con chi studia?) per ottenere informazioni, la variabilità, malgrado sforzi economici e finanziari, resterà il grande problema della scuola italiana, dalla primaria sino alle superiori.

Una scuola di periferia, o una classe di studenti in difficoltà potrà essere recuperata non con il solito ricorso a pacchetti di ore aggiuntive ma con una scuola diversa, senza compiti a casa, dove l’insegnante spiega e osserva come studiano i suoi alunni. E’ chiaro che in ogni classe soltanto attraverso questa osservazione capirà chi sono gli alunni deboli e pertanto, anche attraverso il mutuo insegnamento potrà a scuola contribuire al miglioramento senza delegare ai genitori a casa compiti che oggettivamente non sono in grado di svolgere (anche perché spesso lavorano entrambi).