Insegnare per arrotondare

Insegnare per arrotondare

di Francesco Scoppetta

Rintraccio sul web un lamento istruttivo (https://it.istruzione.scuola.narkive.com/) di un genitore: “Non trovo giusto che mio figlio alla scuola elementare con cadenza mensile debba uscire alle 10,45, invece che alle 13, per riunione sindacale. Il bambino perde ore di lezione e per le famiglie in cui i genitori lavorano entrambi si creano disagi notevolissimi. Non trovo giusto che io debba perdere ore di lavoro (sono libero professionista e non lavorare significa perdere denaro) oppure mia moglie che è dipendente pubblico debba giocarsi ferie o permessi oppure dobbiamo ricorrere ad una baby sitter. Capisco che è un diritto sacrosanto ma non capisco perché debba essere esercitato durante le ore di lezione a metà mattinata”.

“Anche tua moglie farà riunioni sindacali al mattino provocando disagi all’utenza e poi 10 ore all’anno non mi pare che creino un disagio insopportabile” risponde l’interlocutore, al che il richiedente spiega che la moglie lavora in un tribunale e le riunioni le fanno senza che il pubblico se ne accorga.

”D’altra parte non mi sembra che i treni si siano mai fermati per riunioni sindacali, oppure che i tribunali interrompano i servizi non urgenti per svolgere assemblee o magari che le poste si siano fermate o chiuso gli sportelli al pubblico. Dieci ore all’anno si tramutano in cinque mattinate in cui o io interrompo il lavoro, oppure mia moglie si prende ferie o devo pagare la baby sitter”. Il dialogo continua con l’esperto il quale ricorda che “chi non ha figli a scuola non si accorge delle assemblee sindacali”, ed è la prima frase che comincia a dare il senso che la logica viene meno in favore della solita trita e ritrita polemica corporativa dove da una parte si accusano i docenti di avere tre mesi di ferie e 18 ore settimanali e dall’altra si accusa lo Stato di pagare poco gli insegnanti, di ingolfarli con adempimenti cartacei e burocratici e via di questo passo.

Ma torniamo alle assemblee sindacali che da tempo immemorabile continuano inspiegabilmente a svolgersi nelle prime o ultime ore di lezione (invece che di pomeriggio, magari on line) ma soprattutto, ed è la cosa più grave di tutte, chi vi ha aderito può liberamente non parteciparvi. La conseguenza pratica è la solita lezione democratica che impartiamo agli alunni, la classe IA uscirà due ore prima, perderà due ore di lezione, i suoi docenti hanno dichiarato di voler partecipare alla assemblea ma sono liberi poi di non andarci. Quindi due ore di lezione si perdono non per assemblee sindacali ma per furbizia, per false dichiarazioni dei docenti.

Ecco il “merito” di una questione che tutti possono giudicare ininfluente o piccola, ma che poi tanto piccola non è perché gli anni passano e 10 ore per 700mila docenti italiani ogni anno sulla carta fanno 7milioni e moltiplicati per 50 anni fanno 350 milioni. Vogliamo dimezzare e ipotizzare 175milioni di ore perdute, ma sono sempre tante anche se fossero soltanto 1 milione. Ma in Italia si va avanti così, con piccoli sotterfugi e astuzie, come il film “Guardie e ladri” con Totò e Fabrizi già rappresentava nel 1951. Il capo famiglia Salvatore Esposito che viveva di espedienti è rimasto nell’immaginario come il classico “ladro di polli” e anche nella scuola, per esempio, poter fare due ore in meno 5 volte all’anno per molti docenti è il classico regalo da non lasciare, l’azione da fare senza pensarci.

Non si capisce, però, almeno io non l’ho ancora capito, così come quel signore che lo domandava, perché le modalità di svolgimento delle assemblee sindacali scolastiche rappresentino un unicum e non siano state estese ad altre categorie. Forse soltanto se negli ospedali si svolgessero due ore di assemblea interrompendo le cure meno urgenti ai pazienti, i treni al mattino si fermassero in una stazione per due ore per consentire a macchinisti e personale di partecipare alle assemblee che vogliono, e lo stesso succedesse in tutti gli uffici pubblici, nei comuni, all’agenzia delle Entrate, nei tribunali, al catasto, nei ministeri, forse solo così la politica e i sindacati prenderebbero coscienza che per l’appunto abbiamo fatto diventare la realtà, in cui ciascuno lavora per sostenere la propria famiglia, un film “neorealista”, amaro e comico, ironico e sarcastico, in cui i nostri vizi nazionali sono trattati e maltrattati come sapevano fare Monicelli e Flaiano, Vitaliano Brancati e Ruggero Maccari.

Per restare nel “merito” delle questioni scolastiche all’italiana, c’è stato un tempo in cui le 10 ore di assemblee annue non erano un diritto degli insegnanti. Erano gli anni in cui laureati in legge potevano insegnare lingue straniere. Giocoforza nell’Italia che si stava ricostruendo mancavano alcune competenze per cui un avvocato che conoscesse più o meno la lingua francese o avesse appreso l’inglese in un campo di prigionia (sto pensando a miei docenti degli anni sessanta) poteva essere arruolato per insegnare. Inoltre, allora si riteneva che l’esperienza professionale maturata nell’ambito “privato” costituisse un arricchimento per svolgere l’attività di insegnante “pubblico”. Ma quel che era vero nell’Italia del dopoguerra si è mummificato e risulta oggi anacronistico e controproducente. Sono cambiate le professioni (si pensi agli avvocati italiani così numerosi da rappresentare in Europa un fenomeno unico) ed è cambiata la scuola, eppure la doppia professione è consentita a condizione che intervenga a domanda una semplice autorizzazione del dirigente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, trattasi di ennesimo espediente, quello di svolgere l’insegnamento nei ritagli di tempo risultando l’attività privata prevalente, essendo la più remunerativa (si pensi ad assicuratori o agenti, prima che a liberi professionisti).

In una organizzazione a legami deboli qual è la scuola, il lavoro coordinato dei docenti, lavorare insieme, è il fattore indispensabile della qualità della scuola e, soprattutto, della motivazione degli studenti. Consentire quindi che nel corpo docente siano presenti insegnanti che svolgono la propria funzione a tempo pieno, insieme con colleghi che la svolgono soltanto per “arrotondare” le entrate, ha creato una dicotomia ormai insanabile tra motivazioni diverse.

Da un arruolamento forzato di liberi professionisti per completare l’organico, dall’unanime riconosciuto prestigio sociale dell’insegnante che consentiva finanche ai notai di voler frequentare volentieri le aule scolastiche al mattino, si è passati ad una scuola di massa che fornisce “secondi” miseri stipendi, oppure rappresenta l’ultima spiaggia per mantenersi con un lavoro, ma ormai dopo averlo screditato agli occhi dell’opinione pubblica così come i titoli formali che emette l’istituzione.

Persiste il principio della libertà di insegnamento “che ha assunto i connotati e il valore del mito razionalizzato” (P. Romei), “spiega e dà un senso ai tratti culturali e comportamentali tipici degli insegnanti, ispirati a individualismo, ad autoreferenzialità, a non abitudine a rendere conto del proprio operato”.

In Finlandia, dove gli insegnanti sono pagati molto bene, e dove i risultati dei test internazionali  indicano sempre l’affidabilità del sistema e la sua credibilità, riuscire a diventare insegnante è davvero un’impresa, vista la selezione durissima che viene operata. Da noi l’accesso attraverso precariato e “ope legis” si abbina alla doppia professione e al tempo parziale per cui quel prestigio sociale che avevano i docenti “selezionati” con i concorsi nel dopoguerra ha lasciato il posto al docente a mezzo servizio che non sceglie la scuola ma la subisce, casalinghe “perché è l’unica professione comoda per una mamma” oppure liberi professionisti che più liberi non si può.

La scuola del merito magari farà di tutto di più, magari rinnoverà completamente aule e arredi, o attrezzerà laboratori nuovissimi, ridipingerà molte volte i locali e le stanze, costruirà campetti di padel al posto di quelli di pallavolo. Ma non intende affrontare i problemi veri, quel tacito patto sancito tra alunni e docenti “meno venite a scuola meglio è per tutti” (200 giorni di lezione, monte orario annuale?), oppure la incredibile cogestione risalente ormai al 1974 (chiamata partecipazione democratica, immaginando studenti e genitori nei panni degli operai e gli insegnanti nei panni dei padroni) ora arricchita da Rsu, sindacati e contratti collettivi, senza una sola legge del parlamento che definisca diritti e doveri dei docenti pubblici e magari una loro carriera con stipendi diversi e non più uguali per tutti, malgrado l’impegno differenziato. Ripeto, resta davvero inspiegabile dopo tantissimi anni capire per quale motivo non sia (stato) il legislatore a stabilire cosa debba fare o non fare il “bravo insegnante”. Come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere, “il disinteresse dell’élite culturale ha fatto sì che i politici scegliessero la via più comoda, quella di minor resistenza, finendo per «appaltare» il governo della scuola ai sindacati (o, più precisamente, a una alleanza fra burocrazia ministeriale e sindacati).